Editoriale. L’Europa plurale di Barroso
di Pierluigi Mennitti
da Ideazione, settembre-ottobre 2004
Che allo slittamento ad Est dell’Unione Europea Bruxelles potesse
rispondere con un presidente di Commissione proveniente dall’estremo
geografico opposto, era in fondo prevedibile. Ma che questo presidente,
lungi dal contenere la forza innovativa dei paesi dell’allargamento,
addirittura la rinforzasse era francamente nell’auspicio di pochi. La
tradizione di bilanciamento della macchina europea, la condivisione
diplomatica delle scelte piuttosto che il conflitto politico degli
interessi, un consociativismo elevato a sistema lasciavano prevedere che
la grande burocrazia del compromesso, alla fine, avrebbe prevalso come
sempre. Invece, la squadra messa in campo da José Manuel Barroso, ex
capo del governo portoghese trasferito nella tolda di comando europea,
testimonia una rottura decisa con la Commissione che lo ha preceduto e
conferma la speranza di una guida nuova, capace di affrontare e vincere
le sfide che da qualche anno l’Unione continua ad ignorare.
Dal punto di vista geopolitico, nasce davvero quell’Europa plurale che
meglio rappresenta i cambiamenti intervenuti negli ultimi tre lustri: la
caduta del comunismo, lo scongelamento del blocco orientale, la
rinascita delle antiche aree storiche del Continente (Mitteleuropa,
Baltico, Levante) con il conseguente spostamento verso Est del
baricentro politico lungo l’asse che dal Baltico giunge all’Adriatico,
seguendo il vecchio tracciato della “cortina di ferro”. Il dato era
inevitabile, giacché per la prima volta sarebbero entrati in Commissione
esponenti provenienti dai nuovi dieci paesi membri. Ma il ruolo in cui
sono stati collocati rende questo ingresso ben più determinante di
quanto fosse lecito attendersi. Inoltre la composizione complessiva
della Commissione registra in posti chiave l’ingresso di politici più
legati al pragmatismo liberale di stampo anglosassone o scandinavo che
al burocratismo statalista tipico della tradizione continentale.
È presto per dire se l’asse franco-tedesco sia ormai un capitolo chiuso
della storia dell’integrazione europea: esso sopravvive nelle burocrazie
delle direzioni generali, negli uffici amministrativi, nelle pieghe del
personale impiegatizio che ruota attorno a tutte le istituzioni con sede
a Bruxelles, Strasburgo e Lussemburgo. Ma la dinamica complessa degli
interessi nazionali potrebbe raffreddare un’alleanza che, dopo l’era
Kohl-Mitterrand, ha cessato di essere propulsiva per la crescita
europea, rivelandosi un semplice e contingente asse difensivo. Ad
esempio, la richiesta di Barroso agli Stati membri di aumentare il
contributo al bilancio comunitario per reggere una macchina che coordina
25 paesi è stata presa in Germania come una richiesta legittima alla
quale proprio Berlino, che tanto ha spinto per l’allargamento ad Est,
non può certo sottrarsi. Ma in tempi di vacche magre nessuno è disposto
a concedere nulla per nulla e da parte tedesca si avanza l’ipotesi che,
forse, vista la necessità di rimettere mano alla politica agraria per
adempiere alle richieste del Wto, qualcosa si potrebbe risparmiare
tagliando i sussidi che ancora foraggiano l’agricoltura europea. Roba da
far drizzare i capelli ai francesi, ma anche ai polacchi, agli spagnoli
e ai danesi, a testimonianza che sulle singole issues, a Bruxelles, le
alleanze possono essere mobili qual piume al vento.
Come che sia, i lamenti che si alzano a Parigi e Berlino per la
marginalizzazione subìta con la Commissione Barroso non sono solo una
forma di “guerra preventiva” rispetto alle politiche che il presidente
portoghese si appresta a varare. «È la fine di un’era», titolava con
lucida amarezza il berlinese Tagesspiegel qualche settimana fa. Semmai
fa specie che proprio la Germania, che dalla nuova era avrebbe dovuto
ereditare un ruolo centrale nel processo di integrazione fra le due metà
del Continente, viva questo passaggio con rassegnato pessimismo. Anche
qui, però, le posizioni non sono eterne e chissà che un cambio di
governo, possibile entro due anni, non restituisca al gigante malato una
nuova vitalità economica e il gusto di un ruolo internazionale da
protagonista alla guida dell’Europa.
Dal punto di vista programmatico, la nuova formazione si presenta con le
carte in regola sul piano dell’impostazione liberale. Specie in
economia, dove la sfida mondiale a un Continente che non riesce più a
crescere impone scelte rapide e coraggiose. L’Europa, in verità, la sua
carta dei buoni propositi l’aveva messa nero su bianco quattro anni fa.
Si chiamava, con qualche eccesso retorico, Strategia di Lisbona.
Obiettivo: realizzare nei paesi membri dell’Unione riforme strutturali
per liberare il mercato del lavoro, alleggerire la pressione fiscale,
accelerare le privatizzazioni e ridimensionare uno Stato assistenziale
ormai insostenibile a causa di sprechi e squilibri demografici. C’era
anche qualche reminiscenza dirigista dentro questo pacchetto, giacché si
stabiliva di fare dell’Europa, entro l’anno 2010, il continente più
«dinamico e competitivo» fra quelli disegnati sul globo terrestre. A
parte l’ilarità per la similitudine linguistica con le direttive dei
piani quinquennali sovietici, la sostanza del documento testimonia che i
leader europei non avevano tutti portato il cervello all’ammasso della
deriva no-global e che molti di loro, almeno quelli che avevano scritto
e firmato quel progetto, avevano una certa idea delle politiche che
potevano rimettere in moto economie ormai prossime allo stallo.
Inutile dilungarsi su quali siano i risultati a quattro anni dalla
strategia delle buone intenzioni, tanto la crisi è evidente, almeno
quanto la crescita che la ripresa mondiale alimenta dagli Stati Uniti
alla Cina al Giappone: ovunque tranne che in Europa. È dunque un dato
positivo che Barroso abbia fatto riferimento proprio a quel vasto
progetto di riforme liberiste, siglato nella sua Lisbona. Resta da
vedere se ha fatto bene a nominare alla direzione apposita il
socialdemocratico tedesco Günter Verheugen, che ha ben lavorato nella
Commissione precedente all’allargamento ma che, a detta degli stessi
osservatori tedeschi, appare un po’ a digiuno di economia. Più positivo
che, alla guida di altri dicasteri economici, Barroso abbia inserito
donne e uomini dai curricula impeccabili. L’olandese Neelie Kroes, che
ha preso il posto di Mario Monti, ha sostenuto con vigore il processo di
privatizzazioni portato avanti dal suo governo e sembra avere, in tema
di concorrenza, una visione del tutto aderente ai principi del libero
mercato. La lettone Ingrida Udre, che avrà competenza in materia di
tassazione, ha coordinato la tenace politica di riduzione delle imposte
che ha permesso alla Lettonia di attrarre capitali ed energie dalle
ricche imprese tedesche e scandinave. L’irlandese Charlie McCreevy,
commissario al mercato interno, è stato il ministro delle Finanze nel
periodo d’oro del suo paese, quando la tigre celtica – grazie a una
politica di detassazione che suscitò rimostranze franco-tedesche –
realizzò medie di crescita annue intorno all’8 per cento.
Ma anche dal punto di vista politico, Barroso ha compiuto una scelta
differente rispetto a Prodi, cercando il dialogo con i governi nazionali
e raccogliendo, per quanto possibile, i suggerimenti che da essi
venivano. Emerge una Commissione con un consenso democratico più
marcato, meno sensibile alle velleità di un “esecutivo di fatto” baciato
dalle virtù tecnocratiche dei suoi esponenti e per questo autonomo
rispetto alle sensibilità delle capitali europee. Un approccio, quello
di Barroso, più realistico e più politico che guarda all’Unione Europea
per quella che è e non per quella che, un po’ utopisticamente, si
vorrebbe che fosse. In tal senso si inserisce anche la scelta italiana,
ricaduta sulla figura politica di Rocco Buttiglione, ex ministro delle
Politiche Comunitarie, che assume la competenza della giustizia e
dell’immigrazione e l’incarico di vicepresidente. Egli prosegue la
tradizione di commissari italiani – da Emma Bonino a Mario Monti – che,
negli ultimi dieci anni, hanno reso onore al nostro paese, rafforzandone
il profilo internazionale con competenza e determinazione. La nascita
stessa della Commissione Barroso, che tante speranze suscita nell’Europa
liberale, indica come la scelta di campo voluta dal nostro governo di
puntare su nuovi equilibri continentali sia in fondo una scelta
vincente, oltre che legittima. Nasce oggi un’Europa plurale che non
guarda a sinistra.
20 settembre 2004
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