Il malessere di Forza Italia
di Domenico Mennitti
da Ideazione, settembre-ottobre 2004
Anche per la politica sono saltate le stagioni. Ormai si lavorerà senza
sosta d’estate e d’inverno per tre turni elettorali consecutivi. Quello
europeo ed amministrativo appena consegnato agli archivi ha avuto per il
centrodestra un esito contraddittorio ma complessivamente inquietante. A
parte la consueta guerra delle cifre, le interpretazioni diverse che le
due consultazioni propongono, un dato è certo ed inequivocabile: i
prossimi due appuntamenti – quello regionale dell’anno venturo e quello
politico del 2006 – turbano il sonno e la veglia della Casa delle
Libertà, impegnata ad individuare una iniziativa politica capace di
rivitalizzare il proprio elettorato ed il governo.
Si ripropone con forza l’esigenza che si svolga all’interno del
centrodestra il processo organizzativo e politico avviato dieci anni fa
con la nascita di Forza Italia. L’avvento di un movimento nuovo alimentò
la speranza che la democrazia nel nostro paese potesse trarre linfa
rigeneratrice dal recupero di valori fondamentali che la prassi della
cosiddetta Prima Repubblica aveva gradualmente corroso e reso
inoperanti. La modifica del sistema elettorale, imposto con voto
referendario dai cittadini alla classe dirigente, sembrava la prima
tappa di un lungo percorso di cambiamenti istituzionali e politici.
Inoltre un movimento che aveva vinto le elezioni qualificandosi liberale
nel paese dello statalismo cattolico e comunista si proponeva come
volano di una vasta area moderata, finalmente diventata protagonista,
mobilitata per rinnovare idee, schemi, metodi e organizzazione della
società politica. Quando, dopo i pochi mesi del suo primo governo,
Berlusconi fu travolto dall’ondata di ritorno dei vecchi poteri, egli
non si perse d’animo, non fece passi indietro, non si piegò alla
martellante azione giudiziaria che, anzi, gli valse solidarietà diffuse.
Negli anni dell’opposizione maturò l’esperienza politica e parlamentare
che gli mancava e la tradusse in una serie di iniziative, anche
internazionali, che evidenziarono la crisi della sinistra, i limiti di
Prodi, D’Alema ed Amato, infine il velleitarismo di avversari come
Rutelli, reclutati nella vecchia nomenclatura dalla sinistra allo
sbando, con la illusione di arginare con l’aggressione e la denigrazione
la forza di un evidente consenso. Berlusconi conquistò la vittoria
adottando una sapiente strategia di avvicinamento all’obiettivo:
percorse il tracciato elettorale triennale cumulando una serie di
risultati positivi, svolgendo il ruolo di protagonista sulla scena
interna, realizzando l’ingresso nel Partito popolare europeo, dettando –
specie nella parte conclusiva della scorsa legislatura – dai banchi
dell’opposizione l’agenda politica alla maggioranza. Nel 2001 venne il
successo, largo secondo le previsioni, che gli consentì di schierare una
solida maggioranza parlamentare.
Il salto mancato dal consenso al governo
Alla capacità di raccogliere il consenso non ha corrisposto quella di
governare. È vero che l’avvento del centrodestra alla guida del paese
non è stato aiutato dalla buona sorte e che, appena rientrato a palazzo
Chigi, Berlusconi ha dovuto misurarsi con eventi straordinari anche di
politica estera: dalle violenze scatenate dall’estremismo di sinistra a
Genova in occasione del G8 all’imprevedibile azione del terrorismo
contro le Torri Gemelle, dalla guerra in Iraq alla crisi economica che
coinvolge tutto il mondo occidentale. E però, come i risultati delle
elezioni europee hanno dimostrato, l’Italia ha una specificità che
avrebbe potuto rendere meno negativo il risultato della coalizione di
governo: la presenza nel corpo elettorale di una forte componente
anticomunista, che rovescia le preoccupazioni sullo schieramento di
sinistra, i cui protagonisti sono ancora Bertinotti, Cossutta e gli
esponenti del correntone diessino. Perciò, se in tutta Europa gli
elettori hanno punito i governanti, in Italia gli umori elettorali sono
orientati dal saldo negativo di quella particolare partita contabile che
registra lo sbilancio tra speranze coltivate e risultati conseguiti.
C’è un deficit politico, soprattutto in Forza Italia, che l’elettorato
non riesce più a giustificare a dieci anni dalla sua nascita. È vero che
il paese era stanco della cattiva politica che aveva paralizzato le
istituzioni e portato alla ribalta un personale moralmente e
culturalmente debole; però a tutti è ormai chiaro che una nazione
autorevolmente inserita nel contesto internazionale non può competere e
progredire senza che governo e maggioranza abbiano chiari gli obiettivi
di politica interna ed estera. Quando si sostiene che sono saltati gli
schemi rigidi dei riferimenti partitici, bisogna sviluppare il
ragionamento sino in fondo e aggiungere che alla pretesa di piegare la
realtà alla prescrizione dell’ideologia si è sostituita la pratica della
realtà che pone i problemi, ai quali la politica è chiamata a fornire
soluzioni. E poiché oggi i problemi non hanno più una sola risposta, dal
tipo di soluzione adottata si deduce la posizione culturale e politica
di un movimento e di una coalizione. Tramontano le ideologie, ma la
politica continua ad aver bisogno di idee e di uomini che le affermino.
Un pentapartito dentro Forza Italia
In origine la indicazione liberale di Forza Italia apparve generica e
questa osservazione produsse l’effetto di mobilitare politici e studiosi
in una preziosa ricerca per attualizzare posizioni rimaste ferme alle
interpretazioni di Einaudi e Croce. Il fervore intellettuale di quegli
anni si è andato gradualmente spegnendo e, pressata dalle emergenze
elettorali, Forza Italia ha rinunciato ad essere il motore del
cambiamento convertendosi al reclutamento di uomini di sensibilità,
esperienze e prospettive disomogenee, talvolta inconciliabili. Così
l’idea di dar vita ad una grande aggregazione moderata dentro la quale
potessero interagire culture diverse, da quella liberale a quella
conservatrice, capaci di realizzare l’unità nel momento politico della
redazione del programma e della scelta dei protagonisti, ha perso forza
e sostenitori. Divenuti introvabili ed infrequentabili, nel senso che
nessuno sa come vi si accede, i luoghi dove si dibattono le idee e si
seleziona la classe dirigente, la politica ha ripiegato sulle
convenienze, diffondendo una sensazione di malessere persino fra gli
eletti nelle varie assemblee istituzionali. L’ipotesi dell’aggregazione
ha ripiegato sulla formula riduttiva della coalizione e si sono esaltati
gli aspetti negativi derivanti dalla concorrenza senza esclusione di
colpi.
Si sta insieme per fare maggioranza e stare al governo, ma non si riesce
a tradurre il consenso elettorale nella capacità di realizzare il
programma. E persino il profilo di questo è diventato difficile da
individuare: con la tesi che in Forza Italia sono confluite culture
diverse – liberale, cattolica e laico-socialista – sembrano tornati i
tempi del pentapartito, dentro il quale hanno convissuto libero mercato
e statalismo, democrazia e consociativismo. Ma il movimento di
Berlusconi non avrebbe dovuto segnare il superamento di questo asfittico
stato di cose? Non avrebbe dovuto rivalutare la democrazia del conflitto
rispetto a quella della mediazione paralizzante?
Quando viene meno la convinzione nelle proprie idee, non si perde
l’identità, come usava dire al tempo delle ideologie; si perde
l’autorevolezza per guidare il processo politico ed essere punto di
riferimento per gli alleati. Si blocca insomma il lavoro di costruzione
del progetto nel quale l’intera coalizione deve riconoscersi. Sappiamo
che, reclamando il dibattito su questi temi, rischiamo d’essere
considerati teorici avulsi dalle esigenze quotidiane della competizione;
però sappiamo altrettanto bene che, se la si impoverisce di spinte
ideali, la politica smarrisce il proprio ruolo. I voti sono
indispensabili per fare maggioranza, ma questa condizione è perennemente
in gioco. Non è che si conquista una volta e dura per sempre, talvolta
non regge neppure per il tempo di una legislatura. Ha necessità di
essere confermata ogni giorno misurandosi con gli eventi che
sopravvengono, mostrando di capirli, di prevenirli, comunque di
governarli.
L’illusione di un Ppe italiano
Forza Italia cerca il recupero della fiducia eludendo l’analisi delle
ragioni delle sue difficoltà. Prevale la tentazione delle fughe in
avanti, come quella gettonatissima dagli attuali dirigenti di cambiar
nome, immergendosi nel grande movimento del Partito popolare europeo. Ma
il Ppe non è un partito, è un coordinamento di movimenti che agiscono in
assoluta autonomia nei rispettivi paesi e si riconoscono in alcuni
principi fondamentali quali la garanzia delle libertà politiche e
l’economia di mercato. Il Ppe è semmai un efficiente gruppo
parlamentare, il più forte fra quanti sono presenti nell’assemblea di
Strasburgo, ed è davvero difficile comprendere, ad esempio, la ragione
per la quale Berlusconi abbia acconsentito a cedere la vicepresidenza
all’Udc, rinunziando ad esercitare una funzione politica così pregnante
proprio in quel raggruppamento che oggi si vorrebbe prendere a modello
per Forza Italia.
L’organizzazione non è un elemento marginale della politica e sinora
Forza Italia l’ha ostinatamente trascurata senza rendersi conto che per
costruire il partito della libertà, in alternativa a quello della
disciplina, è necessario che dirigenti ed elettori abbiano certezze
interiori molto forti e s’impongano comportamenti molto corretti. Gli
elettori non hanno voltato le spalle al centrodestra per orientare nel
senso opposto i voti, piuttosto sono stanchi di uno stato confusionale
che, dopo dieci anni, è divenuto più diffuso e insopportabile. Il
partito del cambiamento rischia di diventare il partito della nostalgia.
Nell’incapacità di portare a conclusione coerente il processo di
evoluzione avviato nel 1994, la tentazione prevalente è di tornare
indietro. Viene mandata in scena con petulante frequenza la “commedia
degli ex”, comparse che esaltano la loro appartenenza ai vecchi partiti
travolti e rimpiangono il proporzionale. Considerano la loro presenza in
Forza Italia un momento di passaggio, di necessità, di convenienza. I
moderati, il ceto politico che dieci anni fa sconfisse il
consociativismo e sconvolse gli equilibri del potere, sono rimasti senza
rappresentanza pur fornendo al movimento il maggiore alimento di
suffragi. Non c’è da vituperarli se non si prestano a perpetuare la
raccomandazione di montanelliana memoria.
Il taglio delle tasse
Un’ultima riflessione riguarda l’azione del governo. Da Berlusconi gli
italiani si attendevano che centrasse due grandi obiettivi: la
modernizzazione del paese e la riduzione delle tasse. Il primo non è
pensabile possa essere recuperato nel restante scorcio della
legislatura; d’altronde sviluppo e declino non sono fenomeni che può
determinare l’Italia adottando una strategia economica nazionale. Di
declino parlano da noi i dirigenti dell’Ulivo, ma prima che
s’impossessassero del termine per farne tema di denigrazione interna, se
ne discuteva in America e, più vicino a noi, in Francia e in Germania, i
due poli dell’asse considerato portante dell’economia europea. In verità
siamo di fronte alla crisi del sistema occidentale: la fine della Guerra
Fredda e l’avvento della potenza unica americana non hanno sconvolto
solo gli equilibri politici e militari. Anche quelli economici e sociali
mostrano difficoltà a trovare un nuovo assetto a causa dell’irruzione
nel sistema produttivo globale di quelli che chiamavamo paesi in via di
sviluppo.
Detto questo, però, il governo non può restare in completa balìa degli
eventi e deve assumere qualche utile iniziativa. Resta il secondo
obiettivo del programma, quello della riduzione delle tasse, e su questo
il leader gioca la partita della credibilità, forse anche della sua vita
politica. Questo Berlusconi lo sa ed è la ragione per cui non può
fallire.
20 settembre 2004
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