L’obbligo di una buona riforma
di Giuseppe Calderisi
da Ideazione, settembre-ottobre 2004
La riforma della Costituzione proposta dalla Casa delle Libertà viene
accusata dal centrosinistra (mi riferisco alla linea espressa nel corso
del dibattito svoltosi al Senato sotto la regia dell’ex ministro della
Funzione pubblica Franco Bassanini) di realizzare un «premierato
assoluto e onnipotente» che ci porterebbe alla «deriva plebiscitaria» e
di minare l’unità nazionale attraverso la “devolution” leghista. Con
queste parole d’ordine, l’Astrid, il laboratorio istituzionale che
raccoglie i giuristi di sinistra e che è guidato dallo stesso Bassanini
ha convocato, insieme alla Cgil e all’associazione (debenedettiana)
Libertà e Giustizia, una manifestazione nazionale per il 2 ottobre, nei
giorni caldi delle votazioni sulla riforma che si terranno alla Camera
dei deputati (con l’obiettivo, tra gli altri, di imporre a Violante e ai
gruppi del centrosinistra a Montecitorio la stessa linea tenuta a
Palazzo Madama: impresa non facile, come vedremo più avanti).
Si tratta di accuse del tutto prive di fondamento. La forma di governo
del premier proposta dalla CdL è tratta dal testo proposto in
Commissione bicamerale dal relatore Ds Cesare Salvi (addirittura in modo
testuale su alcuni aspetti essenziali come il potere di scioglimento e
il collegamento tra le candidature a premier e quelle per l’elezione
della Camera). Proposta Salvi che, a sua volta, traeva origine dal
programma dell’Ulivo del ’96. La riforma recepisce, in sostanza,
l’evoluzione del bipolarismo che si è realizzata nell’ultimo decennio
nel nostro paese. Un sistema a “democrazia immediata” in cui sono gli
elettori, e non i partiti dopo il voto, a decidere chi deve governare,
scegliendo ad un tempo premier, programma e maggioranza. I poteri del
premier sono equivalenti a quelli previsti nella maggior parte delle
democrazie europee al fine di favorire la stabilità dell’esecutivo. Il
potere di scioglimento è bilanciato dal potere della Camera di
sfiduciare in qualsiasi momento il premier e anche dal potere di
sostituirlo da parte della stessa maggioranza che ha vinto le elezioni.
Certo, ci sono alcuni aspetti che potrebbero essere (e mi auguro siano)
migliorati, come lo statuto dell’opposizione, alcune (inutili) rigidità
che potrebbero essere smussate, ma le accuse di bonapartismo e cesarismo
proprio non stanno in piedi.
Correggere il federalismo del centrosinistra
Quanto alla devolution si impone un chiarimento di fondo. Quella sulle
tre materie chiesta dalla Lega (sanità, istruzione e polizia locale) è
poca cosa, una “piccola devolution” rispetto alla “grande devolution”
che è stata già realizzata dal centrosinistra con la modifica del titolo
V approvata alla fine della scorsa legislatura con quattro voti di
differenza. Il vastissimo passaggio di competenze legislative alle
Regioni è già avvenuto (addirittura la produzione, il trasporto e la
distribuzione nazionale dell’energia, le grandi infrastrutture,
l’ordinamento della comunicazione, la ricerca scientifica e tecnologica,
e tante altre sono materie di legislazione concorrente, su di esse lo
Stato può solo formulare i principi fondamentali). Insomma il
federalismo non è di là da venire, c’è già, ed è un federalismo rissoso
e costoso che andrebbe corretto con urgenza perché ha fatto precipitare
il paese e la sua economia nel baratro dell’incertezza del diritto.
Il centrosinistra predicava un “federalismo cooperativo” ma, guarda
caso, si è del tutto dimenticato di realizzare il luogo della
cooperazione tra Stato e Regioni, cioè una Camera federale o delle
Regioni, come sede di raccordo istituzionale tra i due soggetti titolari
della potestà legislativa. E ha realizzato un federalismo basato sul
“competentismo”, cioè sull’attribuzione di competenze legislative
attraverso elenchi rigidi di materie, come se i problemi si potessero
dividere con l’accetta. Il risultato, a tre anni dall’entrata in vigore
di questa riforma costituzionale, è disastroso: continui conflitti di
competenza tra Stato e Regioni, impugnazione delle leggi più importanti,
sia statali che regionali, davanti alla Corte costituzionale, massima
incertezza del diritto fino alle pronunce della Consulta, trasformazione
impropria della stessa in organo legislatore, esautoramento del
Parlamento e dei Consigli regionali.
Ed è qui, sulla questione fondamentale delle correzioni e del
completamento del titolo V, che vengono le dolenti note e i gravi limiti
della riforma costituzionale della CdL. Per due ragioni di fondo. La
prima: dopo aver avversato la riforma del titolo V dell’Ulivo nella
scorsa legislatura, la Casa delle Libertà, per volontà della Lega, non
ha più voluto correggerla, come se – incredibilmente – fosse entrata a
far parte del proprio programma di governo.
Il fulcro della riforma ulivista, l’articolo 117 della Costituzione che
stabilisce il riparto delle materie, è divenuto così una sorta di tavola
della legge, sostanzialmente intoccabile. La seconda: per quanto
riguarda la riforma del bicameralismo e l’introduzione del Senato
federale, la Cdl si è imbattuta, come era inevitabile, nel
corporativismo (trasversale) dei senatori, o se si vuole, nel classico
paradosso del riformatore che deve riformare se stesso. Impresa
certamente difficile che avrebbe richiesto la capacità di avanzare idee
forza in grado di assegnare al Senato un ruolo forte e incisivo ma
coerente con l’assetto del nuovo sistema istituzionale.
Un Senato federale debole ma onnipotente
Il risultato, positivo per alcuni aspetti, è invece molto infelice per
altri. Il Senato delineato finora dalla riforma – come ha più volte
denunciato lo stesso presidente del Senato Marcello Pera – è, da una
parte, troppo debole e poco federale perché privo dei presidenti delle
Regioni (titolari del potere di impugnare le leggi davanti alla
Consulta); dall’altra, invece, così forte da poter paralizzare
l’attuazione del programma di governo. Bisogna infatti tener conto che
nel nuovo sistema il Senato federale non è più legato dal rapporto di
fiducia con il governo. Si tratta di una importantissima riforma volta a
superare il nostro anomalo bicameralismo paritario.
Nel Senato, per modalità e tempi di elezione, si potranno formare
maggioranze diverse da quelle della Camera politica. Il governo non
potrà porvi la questione della fiducia, né chiederne lo scioglimento
anticipato. Nonostante questo, l’attuale testo della riforma attribuisce
al Senato federale competenze legislative e poteri di veto vastissimi:
la legge finanziaria (l’atto legislativo più importante del governo) e
le leggi in materia di tutela della concorrenza sono attribuite alla
competenza paritaria delle due Camere; le leggi sulle numerosissime
materie di legislazione concorrente (tutte le politiche di settore)
devono iniziare il loro iter necessariamente dal Senato (che pertanto
può anche decidere di farle ammuffire nei cassetti) e tre quinti dei
senatori, alla conclusione dell’iter legislativo, possono in ogni caso
bocciare il testo approvato dalla Camera, anche se l’esecutivo vi ha
posto la questione di fiducia dichiarando che tale testo è essenziale
per l’attuazione del programma di governo. Insomma, un Senato – questo
sì – davvero onnipotente. Un Senato concepito, proprio come richiesto da
Bassanini, come contropotere rispetto al governo. In realtà un Senato
non rappresentativo del territorio né raccordato con la maggioranza di
governo che finirebbe per divenire un’assemblea di notabili, una
oligarchia irresponsabile capace solo di produrre paralisi decisionale
e/o di generare un’inedita forma di consociativismo estremamente costosa
per le casse dello Stato: l’approvazione di ogni legge sarebbe infatti
condizionata dall’acquisizione (diciamo così) da parte del governo di
una maggioranza variabile, diversa da caso a caso.
Il federalismo – che già abbiamo – va corretto e completato, un ritorno
all’indietro non è certo immaginabile. Ma occorre un sistema federale
ben funzionante. Quello delineato dall’attuale testo della riforma è
invece destinato a produrre paralisi decisionale e incertezza del
diritto che si tradurrebbero in costi economico-sociali assolutamente
intollerabili in un mondo in cui gli ordinamenti nazionali sono posti in
concorrenza tra loro. Una paralisi decisionale del circuito democratico
elettori-parlamento-governo che, oltretutto, andrebbe inevitabilmente ad
accrescere il ruolo di supplenza dei cosiddetti poteri forti (Corte
costituzionale, Banca d’Italia, autorità indipendenti, magistratura…).
Che interesse abbiano a conseguire questo risultato proprio la Casa
delle Libertà e la Lega che animano ogni giorno la polemica contro la
politicizzazione e lo sconfinamento dei poteri forti, non è proprio dato
di comprendere.
Rendere funzionale il nuovo sistema
Certamente la CdL paga lo scotto della competizione che si è scatenata
al suo interno e che ha trasformato la riforma in un terreno di
contrattazione per interessi di parte (la devolution alla Lega, il
premierato ad An, la proporzionale all’Udc), mentre il partito di
maggioranza relativa è sembrato preoccuparsi finora solo di trovare una
mediazione purchessia tra gli opposti egoismi, senza riuscire ad
avanzare una proposta che abbia come obiettivo il buon funzionamento e
l’effettiva modernizzazione delle istituzioni. Un obiettivo che ha
sempre costituito la missione principale della CdL e sulla quale,
pertanto, il centrodestra, come ha osservato di recente Gaetano
Quagliariello sul Messaggero, gioca la sua più grande sfida: quella di
fondare una nuova legittimità costituzionale e, con essa, la propria
stessa legittimità.
Occorre ricordare che a conclusione dell’iter di revisione della
Costituzione c’è il referendum confermativo ai sensi dell’articolo 138.
Un referendum che si dovrebbe tenere l’anno prossimo, dopo le elezioni
regionali, probabilmente in autunno e comunque prima delle elezioni
politiche del 2006. Un referendum senza obbligo di quorum che
difficilmente potrebbe essere vinto dalla CdL se essa si presentasse
agli elettori con una riforma mal funzionante come quella che scaturisce
dal testo approvato dal Senato e dalla Commissione affari costituzionali
della Camera. Anche perché il centrosinistra, alla Camera, sta
correggendo il tiro, sembra essersi reso conto che sarebbe perdente,
come ha osservato il Riformista, «urlare contro il premier forte che non
c’è, ma che la gente gradirebbe, invece che contro lo Stato debole, che
c’è e che la gente non vuole».
Al riguardo sono emblematiche le pregiudiziali di costituzionalità
presentate dai capigruppo Violante e Castagnetti che saranno votate alla
ripresa dei lavori parlamentari a metà settembre: esse continuano ad
accusare la riforma della CdL di violare “i principi supremi
dell’ordinamento” ma per motivi diametralmente opposti a quelli agitati
da Bassanini, cioè proprio per l’eccesso di poteri attribuiti al Senato
federale che impedirebbero a chiunque di governare. Evidentemente
Violante non è affetto da quella “sindrome dello sconfittismo” che
ancora affligge tanta parte del centrosinistra.
Poche ma significative modifiche
C’è da augurarsi che la CdL riesca a modificare, in seconda lettura, il
testo della riforma. Per correggerla basterebbero, in definitiva, poche
ma significative modifiche già formulate da molti giuristi, sia da
quelli della fondazione Magna Carta che da autorevoli studiosi dell’area
del centrosinistra: 1) rendere il Senato più federale prevedendo la
presenza dei presidenti delle Regioni; 2) semplificare il processo
legislativo rivedendo le competenze del Senato e prevedendo che comunque
spetti alla Camera la decisione finale sulle leggi che riguardano
l’attuazione del programma di governo; 3) modificare l’articolo 117
introducendo una clausola generale e flessibile di competenza statale
(ad esempio, la tutela dell’unità giuridica ed economica della
Repubblica, la stessa clausola presente proprio negli ordinamenti
federali come gli Usa e la Germania) al fine di consentire al Senato
federale di essere la sede di raccordo e di mediazione
politico-istituzionale.
Saprà la CdL operare in questa direzione, superando l’autolesionismo che
da tempo la consuma? Riuscirà a correggere il federalismo e il
bicameralismo che non vanno o, invece, modificherà, in negativo, proprio
il premierato che va bene, magari aggiungendovi un sistema proporzionale
che farebbe a pugni con il bipolarismo? Cosa accadrà al tavolo della
verifica sulla riforma che la CdL ha convocato tra il 2 e il 10
settembre non è dato di sapere al momento in cui viene scritto questo
articolo.
Ma la posta in gioco è veramente alta. Il tema delle riforme
costituzionali è certamente logorato e non suscita il grande interesse
dei cittadini. Ma questa volta da esso dipenderanno non solo le sorti
della legislatura, ma il futuro del nostro sistema
politico-istituzionale e del paese.
18 settembre 2004
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