Leader versus classi dirigenti
di Eugenia Roccella
da Ideazione, luglio-agosto 2004

Voglia di proporzionale, voglia di partiti. Le analisi del dopo voto celebrano concordi la fine della monarchia berlusconiana all’interno della Casa delle Libertà, e il trionfale ritorno del piccolo, del cespuglio, di aggregazioni politiche ristrette in cui però l’elettore può riconoscersi e ritrovarsi meglio. La perduta dimensione di “eravamo quattro amici al bar, che volevano cambiare il mondo”, così confortevole per gli italiani, sembra tornare in auge, dopo un appuntamento elettorale che ha messo impietosamente in luce un logoramento, o un’assenza, di leadership unificanti e forti in entrambi i poli. Qualche commentatore si è spinto fino a celebrare il ritorno sulla scena del militante di base: scamiciato, sudato, con il microfono o addirittura il megafono in mano, sempre pronto a sfornare facsimili con il nome del candidato. L’uomo di partito sarebbe il simbolo di un legame di affezione duro a morire, di un rapporto stretto che ha lasciato segni indelebili nel costume e nella mentalità della nazione. Se sia nostalgia di com’erano belli i partiti di un tempo, o solo tendenza ricorrente e passeggera di un paese che non è ancora riuscito a darsi un compiuto sistema maggioritario, si vedrà sul lungo periodo; certo oggi le forze politiche che hanno mantenuto una struttura efficiente sul territorio, un legame solido di appartenenza, hanno avuto la loro rivincita, dopo anni in cui il rapporto diretto tra leadership ed elettorato, anche grazie a una comunicazione innovativa, aveva decisamente preso il sopravvento.

Il “nuovo soggetto” ulivista, che avrebbe dovuto fare il suo clamoroso ingresso in scena, è rimasto un fiacco agglomerato di forze disomogenee, che infatti prenderanno, nel Parlamento europeo, ciascuna un posto diverso. Laddove hanno gareggiato da soli, i singoli partiti hanno fatto meglio, dimostrando di essere ancora gli unici soggetti politici realmente in campo. Si può inventare una leadership e imporla mediaticamente, più difficile inventarsi un partito e pretendere che abbia vita vera. Il partito del presidente del Consiglio si è preso uno schiaffo sonoro. Forse ha pagato per tutti, forse è stato stretto all’angolo dalle abili manovre degli alleati più che degli avversari; bisogna però ammettere che non è mai riuscito ad essere qualcosa di autonomo rispetto al proprio leader, qualcosa in grado di “dare di più”, di produrre una dialettica propria e una propria classe dirigente. Forza Italia, nata come non-partito, nonostante gli sforzi successivi di adeguamento, ha sempre mantenuto tracce evidenti di quella nascita aziendale, che ha buttato nel vivo della lotta politica un ceto sociale che della politica aveva sempre diffidato. Non era un “partito di plastica”, come l’aveva definito, con brutale acutezza, Ernesto Galli della Loggia, perché dentro c’erano passione, vitalità, grande entusiasmo e coinvolgimento; mancava, al contrario, la smaliziata capacità di distanza del politico di professione, la padronanza dei meccanismi e dei linguaggi complessi della politica, che avrebbero consentito di costruire pazientemente una cultura e un partito.

E nonostante gli sforzi in questo senso, nonostante assimilazioni e contaminazioni (i protagonisti che vengono da altre esperienze politiche sono, all’interno di Forza Italia, sempre di più), l’operazione non ha avuto vero successo, le acquisizioni non si sono mai fuse dentro un organismo dotato di una sua coerenza interna. L’antipolitica non è riuscita a convertirsi interamente alla politica, il non-partito non è diventato un partito “normale”. Questa debolezza, secondo molti, è una delle ragioni per cui l’azione di governo è stata meno incisiva di quanto ci si aspettasse: l’area forzista, nel suo complesso, non è stata in grado di esprimere una classe politica e una classe dirigente, non ha saputo farsi istituzionale e governativa, non è riuscita a entrare fino in fondo nel ruolo. L’inadeguatezza salta agli occhi, più che nella compagine di governo, ai livelli intermedi del partito e nelle amministrazioni locali. La straordinaria immediatezza carismatica di Berlusconi, la sua istintiva capacità di scavalcare le vecchie forme, i vecchi linguaggi della Prima Repubblica e di guardare dritto negli occhi il suo possibile elettore, avrebbe dovuto sedimentare, trovare un aggiustamento e consolidarsi attraverso un recupero della tradizione politica italiana. Ma era davvero possibile che avvenisse tutto ciò? La tendenza alla personalizzazione della leadership, così pienamente incarnata da Berlusconi, è più antica di lui.

Ogni volta che è apparso sulla scena un leader di questo tipo, non espresso dalle burocrazie di partito, come Marco Pannella o Umberto Bossi, l’eccesso di personalizzazione è servito a veicolare contenuti e linguaggi fortemente innovativi, a trainare un progetto politico anomalo, che non proveniva dall’interno del sistema dei partiti e dalle culture politiche tradizionali. Queste esperienze sono state programmaticamente di rottura: sia Pannella che Bossi volevano far saltare alla base gli equilibri esistenti, e non a caso proponevano decise riforme elettorali e istituzionali, come l’uninominale “secco” o il federalismo. Nessuno dei due ha mai tentato di costruire un partito: Pannella si è rifugiato nell’ambiguità del transnazionale, Bossi nella proclamata limitatezza nordista. Diverso il caso di Craxi, che nel partito c’era nato. Anche Craxi, però, non è stato, alla fine, un leader espresso da un comitato centrale: destinato a essere un segretario di passaggio, impose la sua leadership impadronendosi a sorpresa del Psi. Il progetto craxiano appare oggi una sorta di traslazione in politica del manierismo letterario: come i manieristi forzavano dall’interno le regole retoriche, le forme, il verso, senza osare una esplicita rivoluzione, ma portando la norma fino all’estremo limite della rottura, così il segretario socialista forzava dall’interno il sistema dei partiti.

Anche lui avrebbe voluto la riforma istituzionale, ma sapeva di non poter imporre un presidenzialismo che non piaceva a nessuno; scelse dunque di prendersi più spazio, magari battendo i pugni sul tavolo, spiazzando alleati e avversari con nuove interpretazioni delle vecchie regole di spartizione. Bettino Craxi è stato un caso di leadership frenata, di personalizzazione a metà, che si imponeva nell’agone politico ma non aveva il coraggio, o la possibilità, di saltare le mediazioni partitiche e mirare decisamente a un bacino d’utenza più vasto. I suoi interlocutori erano i potenti della Prima Repubblica, la scena in cui si muoveva a suo agio era quella; mai Craxi ha tentato una comunicazione diretta con l’elettorato, prendendolo in considerazione come pubblico; mai, nonostante le magniloquenti architetture congressuali costruite da Filippo Panseca, ha provato a imporre il suo personaggio fuori dai confini che il teatro (o il “teatrino”) della politica ufficiale consentiva. Il suo progetto riformista soffriva degli stessi limiti, condizionato com’era dall’effetto frenante del vecchio sistema dei partiti. La personalizzazione della leadership, oltre che essere ormai una tendenza diffusa, connessa, come scrive Luciano Cavalli, all’individualizzazione di massa e ad altri ben noti fenomeni della contemporaneità, è forse il solo modo per proporre con la necessaria forza, in un momento di crisi, un progetto politico radicale e innovativo.

Sembra, almeno in Italia, che un partito in grado di esprimere classe dirigente non sia assolutamente capace di far crescere una leadership a forte carica personale, di grande impatto comunicativo, e nemmeno, di conseguenza, un progetto politico dirompente. I partiti “consolidati” sfornano in abbondanza consumati politici, dirigenti di buon livello e buona cultura, bravi amministratori, manager pubblici, intellettuali organici e disorganici, ma non leader di questo tipo. Così assistiamo ad affannose ricerche di candidati credibili, a leadership inventate, concordate a tavolino, che si disfano miseramente a contatto con la prova dei fatti e dei voti, o che non hanno la forza personale per resistere alle congiure di palazzo. Leader magari bravi, ma privi di appeal popolare, appiattiti in un grigiore che allontana i cittadini dalla politica. La sinistra è ridotta a infiammarsi per il rosso finto delle chiome di Lilli Gruber, personaggio televisivo in grado di alimentare illusoriamente un bisogno negato di personalizzazione e di immagine pubblica. Una leadership come quella che abbiamo tratteggiato è sempre stata, da noi, priva di partito. Al contrario i Ds, per esempio, possono tirare fuori sempre nuove leve, e contare su una struttura organizzativa che si autoalimenta e sopravvive in modo quasi indipendente rispetto al proprio segretario.

I partiti non possono amare (e tantomeno produrre) leader che agiscano fuori dal loro controllo, che ne indeboliscano le gerarchie e ne inficino le decisioni. Ma nello stesso tempo, è difficile chiedere oggi ai partiti italiani di mettere in campo riforme sostanziali senza l’aiuto di una leadership davvero trainante. Il caso di Berlusconi non ha precedenti nella nostra storia democratica: è la prima volta che un progetto politico concepito fuori dal sistema dei partiti, arriva a tradursi in attività di governo. è chiaro che oggi, al presidente del Consiglio, sarebbe utile poter disporre di un partito radicato e autonomo, capace di affiancare e sostenere politicamente sul territorio (e sui mezzi di comunicazione) la sua azione di governo. Ma il dubbio se le due cose, un partito strutturato e una leadership di impatto diretto, possano coesistere, è forte. Per adesso, l’attività dei partiti nelle due coalizioni ha preso direzioni opposte: a sinistra, dove il leader manca, la lotta politica sembra centrata tutta sulla scelta e la valorizzazione del leader; a destra invece, dove ci sarebbe già, sul suo indebolimento.

8 settembre 2004
 

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