Leader versus mass media 
		di Angelo Mellone 
		
        
      
        da Ideazione, luglio-agosto 2004 
		 
		Dire che la televisione dà forma alla leadership politica contemporanea 
		può apparire banale. Ma è da qui che si deve partire, se vogliamo 
		discutere della “qualità” delle democrazie o dell’ancestrale questione 
		della “verità” nello spazio pubblico. Come dire: il gioco democratico 
		mediatizzato è comparativamente superiore alla politica senza schermi? 
		La televisione e i media in generale stimolano o annichiliscono il 
		dibattito ideale e la ricerca dell’arendtiano bene comune? Oggi la 
		politica è mediatizzata. Gran parte della vita delle polis si situa nel 
		video, o quantomeno viene resa disponibile alle masse grazie ad esso, 
		alle sue figure catodiche che superano barriere geografiche, 
		linguistiche, temporali, cognitive, per divenire “senso condiviso”. Ciò 
		vale per l’intero scibile umano e per quanto di più umano esiste al 
		mondo, la politica. Lo insegnano i politologi, gli studiosi di 
		comunicazione e i giornalisti che si occupano del “circuito 
		politico-mediale”, come è stato definito. Un circuito veloce, dove 
		informazioni, volti e immagini girano e si consumano scontando 
		l’onnipresente rischio della biodegradabilità. Un circuito impervio, 
		dove la concorrenza (digitale permettendo) per occupare canali e 
		visibilità macina i suoi protagonisti. Un circuito circolare dove 
		l’informazione si autoalimenta, fagocita il passato e lo ripropone in 
		nuove forme trasformandosi ora in teatro ove si scontrano le abilità 
		oratorie e la capacità persuasiva dei leader, come sostiene Luciano 
		Cavalli, ora in “teatrone”, come insinua la penna corrosiva di Filippo 
		Ceccarelli, dove “lo spettacolo ha messo sotto scacco il potere e lo 
		tiene prigioniero”. 
		 
		E dalla considerazione ceccarelliana – che scatta un flash impietoso 
		sulla paradossale condizione odierna del potere – dobbiamo prendere le 
		mosse, inserendo il problema della leadership al tempo della politica 
		mediatizzata in un ragionamento attorno al quale ricostruire la storia 
		di un dibattito più che ventennale. Esiste una lunga catena di analisi, 
		osservazioni, reportage, che denunciano lo strapotere della televisione 
		nella politica contemporanea. La televisione, si postula, impone i suoi 
		formati ed i suoi linguaggi, ispirati a quella che David L. Altheide e 
		Robert P. Snow definiscono media logic: scarsità dei tempi, ossessione 
		per la chiarezza, primato della persona sui concetti, degli eventi sui 
		temi e così via. Addirittura Jean Baudrillard ha accusato la televisione 
		di aver assassinato la realtà. Più prosaicamente Giovanni Sartori ha 
		denunciato a più riprese l’effetto annichilente dell’homo videns, 
		schiavo della banalizzazione televisiva della “videopolitica”. Sartori, 
		da un po’ di tempo obnubilato da una irresistibile furia berlusconiana 
		non se ne accorge, ma incappa in quella che Barry Axford e Richard 
		Huggins definiscono una posizione “retronostalgica”, sorta di rimpianto 
		di un’ipotetica età dell’oro in cui la politica era questione razionale 
		per pochi e non rito emotivo-mediatico di massa.  
		 
		Così – e qui tocchiamo una nota dolente ben presente al sistema politico 
		italiano – si finisce per girare ossessivamente attorno all’immenso 
		valore aggiunto che riesce a “succhiare” chi sa controllare il mezzo 
		televisivo e, in generale, il sistema dei media, e questo grazie sia a 
		particolari abilità comunicative sia a leve di ordine economico o 
		finanziario che permettono al leader politico di turno di possedere una 
		quota significativa di controllo ed accesso al mercato mediale. Così un 
		duplice interrogativo rimane posto, in attesa di risposte dal mondo 
		occidentale e, oggi, da tutto il mondo mediatizzato: i media distorcono 
		e consentono la manipolazione del dato politico? E’ il leader che usa i 
		media, trasformando la res publica nel “pieno arbitrio di pochi 
		prepotenti”, come avevano già a scrivere l’anonimo ateniese di La 
		democrazia come violenza o Lucio Sergio Catilina, o viceversa? Tanto per 
		non allontanarci dal nostro paese, l’intero impianto della famigerata 
		legge 28/2000 sulla par condicio è costruita interamente su convinzioni 
		di tipo sartoriano, per cui i mass media altro non sono che una Bestia 
		che deve essere dominata e frenata, per il bene della democrazia. Dagli 
		anni Ottanta, quand’anche in Italia dominava l’allestimento spettacolare 
		e personalistico del potere craxiano, abbiamo conosciuto un grande 
		numero di leader che, nei paesi occidentali e non solo, hanno costruito 
		le proprie fortune politiche grazie ad uno sfruttamento intensivo ed 
		intelligente della “potenza di fuoco” mediatica a disposizione.  
		 
		Hanno cominciato Ronald Reagan, Margaret Thatcher e François Mitterrand 
		– e in Italia, oltre a Craxi, Sandro Pertini, ma anche Giovanni 
		Berlinguer e Giorgio Almirante, abili animali televisivi – per arrivare 
		a Bill Clinton, Silvio Berlusconi, Tony Blair o i diversi leader 
		populisti, dal decano Jean-Marie Le Pen a Jörg Haider ed allo scomparso 
		Pim Fortuyn, le cui performance, improvvise e spesso altalenanti, non 
		possono essere comprese se non tra inquadrature, studi televisivi, 
		piazze e comizi “in onda”, capacità di fiutare i desiderata della media 
		logic. Più di recente, si è scatenata nel mondo dei media e tra gli 
		studiosi una sorta di paranoica caccia alle titaniche figure di 
		retroscena che costruiscono o gestiscono l’immagine dei leader per cui 
		lavorano: dai veterani Jo Napolitan e Dick Morris agli autoctoni Klaus 
		Davi e Claudio Velardi. Esiste ormai un ampio e variegato arcipelago di 
		consulenti politici, nello specifico dei territori di confine tra 
		politica e spazio mediatico, quelli che il linguaggio anglosassone ha 
		definito spin doctors, la cui raffigurazione esemplare rimane l’ex capo 
		ufficio stampa del premier britannico Tony Blair, Alastair Campbell, 
		finito stritolato nella vicenda della morte dello scienziato David 
		Kelly, lo scorso anno, che lo ha portato alle dimissioni con l’accusa di 
		aver “drogato” dossier governativi. Proprio la strana parabola di 
		Campbell, odiatissimo e temutissimo, e comunque considerato potente 
		image maker di Blair, getta uno squarcio di luce non artificiale sul 
		grumo di domande che si addensano attorno al rapporto tra leader, media 
		e democrazia.  
		 
		In primo luogo, da anni gli studiosi americani insegnano che il grande 
		cruccio dei governi personalizzati è quello di saper tradurre la 
		popolarità in consenso. In altre parole: non basta essere simpatici 
		all’opinione pubblica del proprio paese per veder tramutato 
		automaticamente questo sentimento in reale approvazione per la propria 
		azione politica. In secondo luogo, la politica mediatizzata e la 
		continua esposizione del proprio rendimento allo scrutinio di masse di 
		cittadini/spettatori impone che, come scrive Hugo Heclo, “ogni giorno 
		sia il giorno delle elezioni”: una volta eletti, i politici devono 
		continuamente cercare l’approvazione del pubblico a sostegno delle 
		proprie politiche. “Il governare con l’appoggio dell’opinione pubblica 
		richiede una campagna politica continua”: questa osservazione è del 
		1976, e il suo autore è il consulente per la corsa presidenziale di 
		Jimmy Carter, Patrick Caddell, in un memo indirizzato al suo candidato e 
		giustamente passato alla storia per la lucidità con cui Caddell aveva 
		previsto l’evoluzione della democrazia americana. Il rischio di un 
		logoramento dell’immagine del leader, allora, è sempre dietro l’angolo, 
		a meno di non postulare improbabili condizioni di monopolio totalizzante 
		del sistema dei media nemmeno ipotizzabili in un paese come l’odierna 
		Russia putiniana, che pure si ritrova puntualmente sul banco degli 
		imputati quando si vuole trovare un esempio di asfissiante controllo 
		governativo dei mezzi di informazione. 
		 
		Anzi, il tanto deprecato news management, il tentativo di agire 
		strategicamente sui media favorendo una copertura positiva del leader e 
		delle sue politiche in funzione del mantenimento e dell’accrescimento 
		del potere, nasce proprio da una serie di constatazioni legate 
		all’estrema volatilità del consenso politico per via mediatica. In 
		generale, il sistema dei mezzi di informazione è pluralistico per 
		costituzione e tendenzialmente indipendente, se non per peso politico 
		almeno per vocazione. Come era solito dire Hugo Young, celebre columnist 
		del Guardian scomparso di recente, convivere con i potenti è un “tic 
		sociale”, non una condizione normale, seppure ogni tanto qualche 
		giornalista (e il caso italiano è maestro) induca a quello che è stato 
		definito “parallelismo” con la parte politica di cui è sostenitore. Non 
		è un caso che tutti i leader politici, anche coloro che dispongono di 
		una quota considerevole di credito presso l’opinione pubblica, devono 
		sempre fare i conti con l’ostilità di una parte dei mezzi di 
		comunicazione, nei cui confronti bisogna costantemente agire per 
		arginare eventuali passi falsi del leader, scoop e notizie sfavorevoli.
		 
		 
		Ne sa qualcosa il primo ministro britannico Tony Blair, che sta ancora 
		scontando la vicenda Kelly, le dimissioni del suo portavoce e l’effetto 
		a spirale di un sistema dei media schierato a stragrande maggioranza 
		contro la partecipazione del Regno Unito alla guerra in Iraq. Ne sa 
		qualcosa l’ex premier popolare spagnolo Josè Maria Aznar, uscito con le 
		ossa rotte dal recente confronto elettorale col socialista Josè Zapatero 
		non per questioni di natura politico-programmatica, quando tutti i 
		sondaggi indicavano una riconferma della maggioranza popolare, ma per la 
		fuga di notizie che aveva rivelato la spedizione di telegrammi alle 
		ambasciate in cui si invitava ad accreditare, relativamente agli 
		attentati che avevano squassato Madrid, la pista Eta e non quella 
		islamica. Ne sa qualcosa anche George W. Bush relativamente alla guerra 
		irachena. Ancora non gli si perdona l’atterraggio trionfale sulla 
		portaerei “Lincoln” per annunciare una troppo imprudente fine del 
		conflitto, o la pessima gestione delle news sulle armi di distruzione di 
		massa o sulle torture inflitte dall’esercito americano ai prigionieri 
		iracheni. Ne sa qualcosa il capo del governo italiano, Silvio 
		Berlusconi, contro cui, a dispetto di un ipotetico controllo del 
		“pacchetto di maggioranza” del sistema italiano dei media, è schierato 
		gran parte del giornalismo politico. Le regole dello spettacolo invocano 
		avvicendamenti, colpi di scena, scandali, perenne instabilità. 
		Impossibile pensare a fantomatici “complessi politico-mediatici” in 
		grado di assicurare una sistematica distorsione della realtà, e della 
		verità, nello spazio pubblico: i leader in video sono simulacri, e il 
		loro consenso volatile come le immagini che li riproducono. Per la 
		videocrazia dobbiamo ancora aspettare l’inveramento delle visioni di 
		qualche film di fantascienza apocalittica. 
		
        8 settembre 2004 
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