Riflessioni sulla meccanica del leader
di Dino Cofrancesco
da Ideazione, luglio-agosto 2004
Luciano Cavalli appartiene a quell’esiguo gruppo di sociologi e
scienziati della politica che si richiamano alla lezione dei grandi
realisti, da Machiavelli a Morgenthau, passando per Michels, Mosca,
Weber (soprattutto). In tempi di dilagante democraticismo umanitario non
è piccolo merito. Oggi, aveva scritto nel Primato della politica, “in
nome della comune umanità, si vorrebbero introdurre democrazia e
solidarietà, considerate inseparabili, in ogni rapporto sociale e in
ogni istituzione e fra le istituzioni, ivi comprendendo gli Stati. E chi
non condivide questa visione, e l’etica relativa, è senz’altro un
reprobo”. Questa filosofia – alla quale aveva dato un contributo non
trascurabile il compianto Norberto Bobbio, allorché lamentava l’assenza
di democrazia nei rapporti aziendali – sembra essere ormai diventata il
vero “pensiero unico” dell’alba del terzo millennio. Si consideri
l’impatto psicologico che, specialmente sulle masse giovanili, ha uno
slogan come “no alla guerra per il petrolio”. Accanto al persistere di
una mentalità anti-industrialista – se, invece dell’oro nero, gli arabi
controllassero più della metà della produzione mondiale di frumento, non
attiverebbe alcuna risonanza emotiva l’invito a opporsi alla “guerra per
il pane” – esso rivela una totale mancanza di immaginazione nel
prefigurare gli effetti di un aumento eventuale del prezzo del petrolio
a 100 dollari al barile in luogo degli attuali 40 (aumento tutt’altro
che impossibile qualora al Qaeda riuscisse a far crollare i regimi
politici filo-occidentali dell’Arabia Saudita e del Kuwait) sulle nostre
economie, sulla tenuta delle democrazie euro-atlantiche, sulla qualità
della vita, sulle nostre stesse culture dei diritti.
Nel suo più recente lavoro, Il leader e il dittatore. Uomini e
istituzioni di governo nel “realismo radicale” (Ideazione) – non solo
una sintesi brillante e appassionata di precedenti lavori ma, altresì,
un ulteriore passo avanti in direzione di una sempre più articolata
riflessione sulla Realpolitik – Cavalli, procedendo a vele spiegate
contro il pigro conformismo degli intellettuali e la marmellata del
pacifismo no global (l’espressione è di uno dei più pensosi analisti
della sinistra italiana, Biagio de Giovanni), fa rilevare che “le
emotive manifestazioni contro la guerra irachena, e in sostanza contro
gli Usa, hanno [...] conclusivamente dimostrato come l’influenza
pervasiva del democraticismo umanitario abbia obnubilato ogni
disposizione propriamente politica in larga parte della popolazione – in
Italia esemplarmente”. Ebbene proprio nel recupero dell’autonomia e del
primato della politica stanno il fascino e l’interesse del libro,
coraggioso e controcorrente, che Cavalli lancia come un sasso nella
piccionaia di un mondo accademico e mediatico che sembra ormai perduto
nella deriva delle proprie comode illusioni sulla prossima chiusura del
tempio di Giano, ancora aperto per colpa di biechi interessi (delle
grandi potenze capitalistiche, ovviamente) e di persistenti atavismi
etici e culturali.
“Tipica” di questo costume della mente, annota Cavalli, è “la proposta
di fondare la cittadinanza sulla pura e semplice accettazione della
Costituzione e dei suoi valori. Proposta che della concezione
organicistica della nazione tende a porre tra parentesi gli elementi
della stirpe e del territorio, della storia e della cultura, d’un
destino comune al di là delle forme di Stato e di governo e delle
costituzioni succedutesi nel tempo. Posto in atto, quel progetto
renderebbe labile e largamente opportunistica l’appartenenza; e,
liberando gli individui da ogni stabile lealtà collettiva, promuoverebbe
appunto la disgregazione”. Basta leggersi qualcuno dei numerosi prodotti
intellettuali del liberalismo razionalistico contemporaneo – parente sì,
ma non troppo stretto, del liberalismo classico della linea
Locke/Constant/Berlin – per rendersi conto del tramonto della politica
in una società in cui i diritti di prima, seconda e terza generazione,
vengono garantiti a ogni individuo per il solo fatto di essere venuto al
mondo sicché, da un lato, ne risultano sostanzialmente delegittimati gli
Stati e i loro confini (in base a quale principio ideale si esigono
passaporti e si vietano gli accessi?), dall’altro, non c’è dimensione
esistenziale che si sottragga ormai alla regolamentazione giuridica né
conflitto di interessi e di valori che non possa venir risolto dalla
sentenza del magistrato.
A questa vie en rose e alla sua morale edulcorata, che alla tragedia
delle Twin Towers reagisce con qualche sit in (nella fattispecie, però,
se ne videro ben pochi all’indomani dell’11 settembre e quei pochi non
mobilitarono più di un centinaio di persone) e con migliaia di vagoni
postali che recano alle famiglie delle vittime coraggiosi messaggi di
solidarietà e di pace, Cavalli contrappone una saggezza antica e
dimenticata.
“Secondo il realista, l’esistenza è lotta per la vita, in senso esteso.
Sia per l’individuo che per i gruppi, per gli Stati in particolare –
che, d’altronde, hanno proprio origine dall’unione intesa a quel fine.
Tuttavia lo Stato nel suo sviluppo storico è portatore degli interessi
di sopravvivenza, in senso non soltanto primordiale, ma anche latamente
culturale – cioè di tutti i beni (dalla lingua all’ethos) di un popolo.
Perciò lo Stato diventa esso stesso un valore, e, a ben guardare, il
massimo bene. Il “bene pubblico”. La sopravvivenza dello Stato, e la sua
fortuna fra gli uomini usciti dalla condizione primitiva, pre-politica.
L’utile dello Stato diventa – per un realista come Tucidide o
Machiavelli – la stella polare dell’agire politico”.
Personalizzazione della leadership
Nel libro, come promette il titolo, il tema della politica come “lotta
per il potere” viene trattato in relazione alla leadership nelle odierne
società di massa. Utilizzando, ancora una volta, la lezione weberiana
del carisma – opportunamente integrata con la psicanalisi freudiana e
con le indicazioni della storiografia della “nazionalizzazione delle
masse” – Cavalli enuclea le ragioni antropologiche, culturali,
politiche, economiche in senso lato, che nelle suddette società portano
alla personalizzazione della leadership. “La generalità degli uomini –
scrive – per scarsa capacità di pensare e agire in base a riferimenti
astratti, cerca la rassicurante concretezza che può venire soltanto
dalla identificazione di essi con chi ne è più credibilmente portatore.
Onde la forte tendenza a identificare ogni causa, ogni speranza, la
comunità stessa e il potere pubblico che ne è la prima espressione, con
il leader”. Questa tendenza, che è anche “tra le cause della prevalenza
storica del principio monocratico”, spiega la “necessità di un capo che
istituzionalmente risponda al bisogno di partecipazione collettiva nelle
grandi scelte, comunicando direttamente con il popolo e mobilitandolo
eventualmente per l’interesse pubblico”. E, a livelli più alti di
generalizzazione, “l’uomo è comunemente incapace di vivere in società
sulla base di pure astrazioni, anzi ha bisogno che esse vengano
impersonate perché abbiano per lui concretezza e valore; e l’operazione
è tanto più efficace, se egli prende attivamente parte alla scelta
(ritualizzata) della persona.”
Il volume propone una tipologia abbastanza semplice formata dalla
diversa combinazione di democrazia – intesa genericamente come facoltà
di scelta dei governanti – e di monocrazia – “tendenza alla
concentrazione del potere nelle mani di uno solo” – da cui derivano,
sostanzialmente, tre forme di governo: la democrazia con leader, ovvero
la “monocrazia elettiva dei moderni”; la democrazia senza monocrazia,
cioè “senza leader” – “fondamentalmente caratterizzata dal governo di
molti (poliarchia)”; e, infine, la dittatura totalitaria, che sarebbe
una monocrazia senza democrazia, meglio definita come autocratica, “al
fine di evidenziarne il carattere personale assoluto” (arbitrio e
onnipotenza del detentore del potere). Si tratta di temi di grande
attualità non solo per quanto riguarda la vexata quaestio delle origini
del totalitarismo, ma soprattutto – ed è l’aspetto più intriguing in
questa sede – per quel che concerne la riflessione sulla crisi (vera o
presunta) di quelle libere istituzioni che, con la sconfitta di nazismo
e comunismo, sembravano “avere con sé l’eterno”.
Da qualche anno, come si sa, si sta svolgendo, sulle due rive
dell’Atlantico, un dibattito sempre più impegnativo, sotto il profilo
teorico, sulla salute della democrazia, sui pericoli che la insidiano,
sulla sua capacità di venire “esportata” in società le cui culture sono
diverse, se non molto distanti, dalla nostra, segnata dall’eredità
greco-romana e da quella ebraico-cristiana, ricongiunte nella tradizione
umanistica, alle origini, a sua volta, della moderna civiltà laica e
liberale.
Quel che sembra prevalere, specialmente nell’Italia del Polo ma anche in
altri paesi europei e negli stessi Stati Uniti, è un atteggiamento
ispirato a una profonda diffidenza nei confronti delle masse e dei suoi
“capi”. Si teme, dappertutto, una deriva populistico-plebiscitaria
destinata a rimettere un enorme potere (innanzitutto mass-mediatico)
nelle mani di spregiudicati demagoghi, spesso improvvisati, privi di
professionalità politica e di spessore etico. Paradossalmente – come ho
fatto rilevare in altra sede: vedi il mio recente La democrazia liberale
(e le altre), edito da Rubbettino – quel “primato del liberalismo sulla
democrazia”, che definiva un pensiero se non di destra, certo liberale e
liberalconservatore, sta diventando il cavallo di battaglia di quello
stesso schieramento progressista che s’identificava ieri nel “primato
della democrazia sul liberalismo”. Le masse che, nell’Ottocento e nel
Novecento, rendevano inquieti i sogni dei moderati sono diventate il
nightmare di una consistente parte della sinistra che pare voler
affidare ai giudici il compito di salvaguardare il diritto, definito
dalla Costituzione, contro la legge fatta da Parlamenti sempre più
ridotti a specchio di elettori volubili, manipolati da ben riconoscibili
demagoghi.
I limiti della democrazia senza leader
Anche Cavalli porta il suo contributo alla critica delle degenerazioni
del sistema politico ma la novità del suo approccio consiste nel fatto
che quelle degenerazioni non vengono attribuite al rafforzamento di un
esecutivo irresponsabile bensì all’assenza di un autentico progetto di
governo dovuta al vicendevole impacciarsi di gruppi di pressione, di
partiti, di sindacati, di chiese, che non permette a nessuno di assumere
il timone dello Stato e di dirigersi verso mete ben definite e
condivise. Semplificando alquanto i termini del discorso, per lui, il
nemico da battere non è il populismo ma il pluralismo acefalo, non è
Cesare Borgia ma Pier Soderini, il gonfaloniere che Machiavelli
scaraventava nel Limbo, la dimora dei bambini senza colpa perché
incoscienti. A suo avviso, l’esperienza drammatica delle dittature –
fascista, nazista e comunista – se, da una parte, è stata salutare in
quanto ci ha messo (o avrebbe dovuto metterci) in guardia contro ogni
concessione ai portatori di visioni del mondo assolute ed esigenti,
dall’altra, ha appannato la lucidità dello sguardo, precludendoci la
comprensione delle malattie mortali che minacciano le nostre libertà
civili e politiche.
Riprendendo una tesi del grande Giuseppe Maranini – un autore
stranamente mai citato eppure fondamentale per chi, non meno
severamente, critica la partitocrazia – Cavalli ribalta il vecchio e
consunto luogo comune in base al quale è il quantum di potere accumulato
nelle mani del governo che, spinto oltre certi limiti, porta alla
tirannide dei moderni. Per lui, è vero il contrario: è la debolezza dei
regimi democratici che, negli anni tra le due guerre mondiali, ha
spianato la via ai terribles simplificateurs tanto temuti dal pensiero
liberale e liberalconservatore dell’Ottocento.
“L’esame delle esperienze moderne suggerisce la conclusione che la
democrazia “senza leader” sia – come già la democrazia in genere
appariva agli antichi – inetta davanti al mutamento, alla crisi,
all’emergenza; e perciò destinata a produrre, alla lunga, effetti di
decadenza e anche disgregazione, con la possibilità di sviluppi
autoritari all’interno e di dipendenza, diretta o meno, dall’esterno”.
Si avvertono, nelle pagine del libro, non pochi e forti echi della prima
scienza politica italiana, quella che affilava le sue armi nella critica
del parlamentarismo e nella denuncia delle sue ricadute sul piano della
convivenza civile e dei costumi. Mutatis mutandis, l’Italia umbertina e
poi giolittiana presenta, a livello di sistema politico, tratti
degenerativi che l’accomunano alla “democrazia senza leader”, almeno
sotto un aspetto “di decisiva importanza”.
“I centri decisionali che danno l’input a tutto il sistema politico si
collocano al di fuori dello Stato, nella sfera privata. Sicché lo Stato
nazionale manca [della] condizione di autonomia [...] essenziale alla
sua stessa definizione. I partiti, infatti, sono veramente i “principi”
della democrazia senza leader. Anzi, le oligarchie che li controllano
(Michels). Ma i partiti sono portatori di interessi particolari, cioè
privati (Schmitt). Il governo e il parlamento, dominati dai partiti,
diventano perciò gli organi in cui la volontà dello Stato si definisce,
non in base all’interesse pubblico, ma per il prevalere di un interesse
particolare (privato) su altri, o, più spesso, per mezzo di un
compromesso”.E il risultato è che si finisce per togliere allo Stato “la
facoltà piena di decidere su materie di pubblico interesse, che al
limite vengono sottoposte a procedure negoziali in cui lo Stato figura
come una delle parti – tipicamente nelle trattative fra governo,
sindacato e padronato. Specialmente nelle deboli democrazie parlamentari
multipartitiche, la concezione e la prassi pluraliste possono comportare
che le controparti impongano allo Stato le loro scelte
particolaristiche, con l’eventuale ausilio della piazza”.
Per tutte queste ragioni, conclude Cavalli, “nella tipica democrazia
senza leader, il sistema politico sta in bilico fra la discussione che
non sbocca mai nella decisione e il compromesso fra partiti per
definizione portatori di interessi particolari (ed eventualmente
estranei al bene pubblico)”. Alle ombre di questa forma di governo,
chiaramente così poco congeniale (e non da ora) a uno studioso
innegabilmente affascinato dal decisionismo, si contrappongono le luci
della “democrazia con leader”, in cui un esecutivo forte e responsabile
“viene eletto e giudicato dal popolo in libere elezioni, gode di
definiti poteri sotto il controllo di altre istituzioni indipendenti, in
un quadro invariato di libertà e legalità. E, d’altra parte, ogni
cittadino trova riconoscimento del suo diritto politico e,
correlativamente, della sua dignità. La democrazia con leader appare
dunque come sviluppo dialettico della democrazia “moderna” dello scorso
secolo: realizzazione più compiuta e aderente a interessi essenziali,
dello Stato e del cittadino”.
Cavalli non sembra aver dubbi sul fatto che “nel nostro tempo, il
modello dell’elezione popolare di un capo dello Stato con poteri di
governo e la possibilità di percorsi più selettivi per i candidati”
possano garantire sufficientemente, nei grandi Stati occidentali, “tre
requisiti imprescindibili: personalizzazione della leadership (sia per
la concentrazione di potere nel ruolo di vertice, sia per la fiducia di
massa nel leader), alta qualità dell’uomo prescelto e successione
ordinata dei leader al vertice. E ciò nell’ambito d’un sistema politico
e di un ordinamento legale che assicurino al cittadino il godimento dei
diritti davvero fondamentali”. Ma è proprio così, ci si chiede? E, alla
fine della storia, i conti tornano poi tutti? In realtà, se sono
innegabili le benemerenze acquisite dalle democrazie con leader – a
cominciare dalla dimostrata capacità di soffocare in sul nascere l’idra
totalitaria – va riconosciuto che esse, lungi dall’essere una variabile
indipendente del (e con effetti positivi sul) sistema politico, sono il
prodotto complesso di fattori istituzionali e culturali, che non sempre
il “realismo radicale” mette a fuoco, pur se in teoria dichiara di
volerne tener conto.
Del resto lo stesso Cavalli ne è consapevole allorché scrive che “quel
tipo di democrazia è fondato sulla libera scelta dei governanti e da
istituzioni e regole che garantiscono per tutti le libertà fondamentali,
opponendo per tale aspetto limiti definiti e sicuri al potere di chi
governa”. E ancora: “la democrazia con leader risulta efficace nel suo
operare soltanto se c’è un valido sistema di selezione degli uomini e di
controllo del loro operato”.Sono le istituzioni, allora, che consentono
alla monocrazia elettiva dei moderni di produrre i suoi benefici
effetti: le istituzioni rappresentano il corpo sano che un buon cibo, la
monocrazia elettiva, mantiene efficiente e vitale. è vero, per restare
nella metafora, che un corpo sano, alla lunga, può essere rovinato da un
cibo cattivo (la democrazia senza leader) ma è altrettanto certo che
un’alimentazione corretta non solo non risana un corpo malato (uno Stato
premoderno, privo di istituzioni in grado di garantire l’ordine e la
legge) ma può, persino, comprometterlo definitivamente (com’è il caso
dei sistemi presidenziali del Sud e del Centro America in cui la
monocrazia diventa autocrazia golpista).
Il valore delle istituzioni
Cavalli vede la politica dal lato dei governanti, in lotta per il potere
ovvero, come direbbe Mario Stoppino, dal lato di quanti competono per
l’autorità; non la vede dal lato dei governati – che è poi la dimensione
classica cui si riferisce il contratto sociale – ovvero di quanti, in
cambio del loro sostegno ai contendenti, se ne aspettano la produzione
di diritti istituzionalmente garantiti – dove istituzionalmente
significa tutela giuridica assicurata dai vari organi e articolazioni
dello Stato, dalle caserme ai tribunali, dalla pubblica amministrazione
agli enti che erogano benefici sociali. è la dialettica tra governanti e
governati, il loro continuo scambio politico – il fatto che i primi
debbano dare qualcosa ai secondi e che questo qualcosa, in certi
contesti storici e ambientali, si trasformi in sicuro argine
istituzionale del processo politico – a rassicurarci sulla leadership
monocratica nelle democrazie occidentali e sul suo rimanere “entro i
solidi limiti posti dalle leggi e da una coscienza pubblica largamente
autonoma, e con il controllo delle verifiche elettorali”. E a questo
proposito sia consentito un rapidissimo cenno a un’idea cara a tutti i
realisti, e segno del loro pur rispettabile conservatorismo: l’idea che
i partiti siano per definizione portatori di interessi, per l’appunto,
di parte e che lo Stato sia, sempre per definizione, l’incarnazione del
bene comune, dell’interesse collettivo.
In realtà, se è innegabile che sull’arena politica arrivano ogni volta
interessi e valori di parte, a uno sguardo più attento, restano poi le
istituzioni il fattore decisivo: quando sono robuste, rispettate e
radicate nella tradizione, il bargaining dei molteplici egoismi (di
gruppi, di ceti, di partiti) si trasforma in farina che arricchisce il
mulino dello Stato e dal bozzolo del compromesso nasce la farfalla
dell’identità comunitaria e dei suoi valori forti; quando sono deboli,
incerte, non favorite da un’adeguata political culture né dalle risorse
prodotte dal sistema economico, il confronto tra le richieste, che da
ogni parte si levano in direzione dei poteri pubblici, attiva spinte
centrifughe che delegittimano il sistema e provocano forti tensioni
sociali, talora ingovernabili all’interno della comunità politica (e
pertanto suscitatrici di sentimenti secessionistici). A ragione Cavalli
ammira De Gaulle e vede nel Generale il rifondatore dello Stato francese
e, per la prima volta nella sua storia, di una stabile democrazia con
leader. Ma la Francia, non va dimenticato, pur nel ridimensionamento
seguito alla seconda guerra mondiale, era pur sempre una grande nation,
con un’amministrazione esemplare per efficienza, un’identità nazionale
consolidata, a onta delle spaccature storiche fra le sue diverse
“famiglie spirituali”, un senso orgoglioso del proprio ruolo e della
propria missione, un ragguardevole impero afroasiatico di cui gestire la
decolonizzazione.
Al di là dei suoi innegabili meriti, De Gaulle “veniva da lontano”, era
il prodotto di una storia secolare che in lui, uomo di destra e
resistente, riconciliava le due tradizionali – e fin ad allora
irriducibili – polarità: Giovanna d’Arco e l’albero della libertà, i
gigli d’oro del Re Sole e il tricolore dei soldati dell’anno secondo. E
un discorso, in parte analogo, vale per Churchill, un concentrato
energico e invincibile, della vecchia Inghilterra, un uomo per cui
l’idea della patria (“right or wrong, my country”) e il “sistema
Westminster” (quella democrazia reale da lui definita il peggiore dei
governi, ad eccezione di tutti gli altri) facevano tutt’uno. Un ultimo
cenno sulle “masse gregarie” e sui meccanismi psicologici che le
portano, comunque, ad affidarsi a un leader, democratico o autocratico,
a seconda dei contesti. Cavalli, a mio avviso, giustamente dà importanza
agli studi classici di G. Mosse e dei suoi allievi italiani (in primis,
Emilio Gentile) ma gliene dà troppa. Simboli, miti, riti e ideologie
sono il contorno della pietanza totalitaria ma la bistecca è altra cosa
e, con buona pace di chi ha sostenuto il contrario, l’abito seguita a
non fare il monaco. Sono le costellazioni istituzionali, in ultima
istanza, a tenere in vita il teatro della politica totalitaria: quando
gli utili vengono meno, i fondali si rivelano di cartongesso. Gaetano
Mosca e Max Weber, se fossero sopravvissuti al fascismo e ne avessero
analizzato la natura, non avrebbero dedicato alla messinscena più di
qualche paragrafo (comunque significativo).
Conclusioni
Questi rilievi, beninteso, non intendono ridimensionare la validità di
una ricerca sociologica e politologica che, ripetiamo, è acqua di fonte
se confrontata alla morta gora dell’ideologia italiana di questi ultimi
anni. Segnalare il rischio dell’approccio realistico di convertirsi in
ideologia o meglio in una filosofia politica ispirata a un radicale
pessimismo antropologico, potrebbe invece contribuire a farne uno
strumento conoscitivo e pedagogico imprescindibile proprio grazie alla
rimozione di certe tentazioni “reazionarie”. A cominciare dal “giudizio
di incapacità politica della massa, dovuta alla condizione di
segregazione e alla estrema manipolabilità cognitiva ed emotiva” per
finire alla critica – che richiama alla mente antiche tesi platoniche –
rivolta al “criterio dell’uguaglianza” che “opera anche al fine di
escludere la ricerca dell’eccellenza. Rifiuta ogni riconoscimento di
superiorità e, quindi, ogni spazio istituzionale alle élite. E agli
autentici leader. Privando così lo Stato della preziosa risorsa del
comando unico e della leadership personale”. Al primo pregiudizio viene
spontaneo obiettare che i comportamenti gregari delle masse hanno, in
realtà, una loro ratio giacché, a ben vedere, si traducono in sostegni
enfatizzati e sentimentalizzati a regimi politici totalitari che, per
quanto spietati, non erogano solo gratificazioni simboliche e
organizzazioni spettacolari dell’entusiasmo comunitario ma appagano,
almeno in parte, bisogni reali, concreti: fascismo, nazismo e comunismo
furono, ciascuno a suo modo, stati sociali, produttori di un welfare che
a tutti garantiva un minimo vitale; per quanto riguarda il secondo
pregiudizio, si rileva che la competenza richiesta ai governati è assai
poca cosa ma non per questo è irrilevante: essa non consiste nel
conoscere le varie qualità di cuoio o i modi di fabbricazione delle
tomaie ma nel sentire se la scarpa calza bene al piede oppure no.
Questi “pregiudizi del conservatore”, tuttavia, non hanno alcun rapporto
cogente con le acute analisi del populismo, del ruolo dell’Europa, del
destino di Grosse Macht riservato agli Stati Uniti d’America o con le
congetture sulla assai probabile sopravvivenza dello stato nazionale.
Quando Cavalli osserva che “senza il detestato “gendarme planetario”, la
guerra (quella vera, tra pari, non le operazioni Usa “di polizia” contro
i paesi canaglia) ritornerebbe verosimilmente ad abitare il pianeta. Le
armi di distruzione di massa diventerebbero patrimonio di molti Stati,
canaglia o no, e anche delle organizzazioni terroristiche. Mentre
crescerebbe la minacciosa pressione dei popoli diseredati
sull’Occidente, e della componente islamica in specie”, ci dà una
lezione di realismo della quale non si può non essergli grati. I fatti
sono quelli che sono e hanno la durezza del diamante. Non c’è bisogno di
condirli con discorsi sull’ineguaglianza degli uomini in cui,
oltretutto, ci si espone al rischio di sovrapporre ineguaglianza e
diversità. La tesi opposta della radicale eguaglianza degli uomini, in
fondo, non aveva impedito a Hobbes di descrivere i rapporti umani nei
termini crudamente realistici che sappiamo!
8 settembre 2004
|