Riflessioni sulla meccanica del leader 
		di Dino Cofrancesco 
		
        
      
        da Ideazione, luglio-agosto 2004 
		 
		Luciano Cavalli appartiene a quell’esiguo gruppo di sociologi e 
		scienziati della politica che si richiamano alla lezione dei grandi 
		realisti, da Machiavelli a Morgenthau, passando per Michels, Mosca, 
		Weber (soprattutto). In tempi di dilagante democraticismo umanitario non 
		è piccolo merito. Oggi, aveva scritto nel Primato della politica, “in 
		nome della comune umanità, si vorrebbero introdurre democrazia e 
		solidarietà, considerate inseparabili, in ogni rapporto sociale e in 
		ogni istituzione e fra le istituzioni, ivi comprendendo gli Stati. E chi 
		non condivide questa visione, e l’etica relativa, è senz’altro un 
		reprobo”. Questa filosofia – alla quale aveva dato un contributo non 
		trascurabile il compianto Norberto Bobbio, allorché lamentava l’assenza 
		di democrazia nei rapporti aziendali – sembra essere ormai diventata il 
		vero “pensiero unico” dell’alba del terzo millennio. Si consideri 
		l’impatto psicologico che, specialmente sulle masse giovanili, ha uno 
		slogan come “no alla guerra per il petrolio”. Accanto al persistere di 
		una mentalità anti-industrialista – se, invece dell’oro nero, gli arabi 
		controllassero più della metà della produzione mondiale di frumento, non 
		attiverebbe alcuna risonanza emotiva l’invito a opporsi alla “guerra per 
		il pane” – esso rivela una totale mancanza di immaginazione nel 
		prefigurare gli effetti di un aumento eventuale del prezzo del petrolio 
		a 100 dollari al barile in luogo degli attuali 40 (aumento tutt’altro 
		che impossibile qualora al Qaeda riuscisse a far crollare i regimi 
		politici filo-occidentali dell’Arabia Saudita e del Kuwait) sulle nostre 
		economie, sulla tenuta delle democrazie euro-atlantiche, sulla qualità 
		della vita, sulle nostre stesse culture dei diritti. 
		 
		Nel suo più recente lavoro, Il leader e il dittatore. Uomini e 
		istituzioni di governo nel “realismo radicale” (Ideazione) – non solo 
		una sintesi brillante e appassionata di precedenti lavori ma, altresì, 
		un ulteriore passo avanti in direzione di una sempre più articolata 
		riflessione sulla Realpolitik – Cavalli, procedendo a vele spiegate 
		contro il pigro conformismo degli intellettuali e la marmellata del 
		pacifismo no global (l’espressione è di uno dei più pensosi analisti 
		della sinistra italiana, Biagio de Giovanni), fa rilevare che “le 
		emotive manifestazioni contro la guerra irachena, e in sostanza contro 
		gli Usa, hanno [...] conclusivamente dimostrato come l’influenza 
		pervasiva del democraticismo umanitario abbia obnubilato ogni 
		disposizione propriamente politica in larga parte della popolazione – in 
		Italia esemplarmente”. Ebbene proprio nel recupero dell’autonomia e del 
		primato della politica stanno il fascino e l’interesse del libro, 
		coraggioso e controcorrente, che Cavalli lancia come un sasso nella 
		piccionaia di un mondo accademico e mediatico che sembra ormai perduto 
		nella deriva delle proprie comode illusioni sulla prossima chiusura del 
		tempio di Giano, ancora aperto per colpa di biechi interessi (delle 
		grandi potenze capitalistiche, ovviamente) e di persistenti atavismi 
		etici e culturali. 
		 
		“Tipica” di questo costume della mente, annota Cavalli, è “la proposta 
		di fondare la cittadinanza sulla pura e semplice accettazione della 
		Costituzione e dei suoi valori. Proposta che della concezione 
		organicistica della nazione tende a porre tra parentesi gli elementi 
		della stirpe e del territorio, della storia e della cultura, d’un 
		destino comune al di là delle forme di Stato e di governo e delle 
		costituzioni succedutesi nel tempo. Posto in atto, quel progetto 
		renderebbe labile e largamente opportunistica l’appartenenza; e, 
		liberando gli individui da ogni stabile lealtà collettiva, promuoverebbe 
		appunto la disgregazione”. Basta leggersi qualcuno dei numerosi prodotti 
		intellettuali del liberalismo razionalistico contemporaneo – parente sì, 
		ma non troppo stretto, del liberalismo classico della linea 
		Locke/Constant/Berlin – per rendersi conto del tramonto della politica 
		in una società in cui i diritti di prima, seconda e terza generazione, 
		vengono garantiti a ogni individuo per il solo fatto di essere venuto al 
		mondo sicché, da un lato, ne risultano sostanzialmente delegittimati gli 
		Stati e i loro confini (in base a quale principio ideale si esigono 
		passaporti e si vietano gli accessi?), dall’altro, non c’è dimensione 
		esistenziale che si sottragga ormai alla regolamentazione giuridica né 
		conflitto di interessi e di valori che non possa venir risolto dalla 
		sentenza del magistrato. 
		 
		A questa vie en rose e alla sua morale edulcorata, che alla tragedia 
		delle Twin Towers reagisce con qualche sit in (nella fattispecie, però, 
		se ne videro ben pochi all’indomani dell’11 settembre e quei pochi non 
		mobilitarono più di un centinaio di persone) e con migliaia di vagoni 
		postali che recano alle famiglie delle vittime coraggiosi messaggi di 
		solidarietà e di pace, Cavalli contrappone una saggezza antica e 
		dimenticata. 
		“Secondo il realista, l’esistenza è lotta per la vita, in senso esteso. 
		Sia per l’individuo che per i gruppi, per gli Stati in particolare – 
		che, d’altronde, hanno proprio origine dall’unione intesa a quel fine. 
		Tuttavia lo Stato nel suo sviluppo storico è portatore degli interessi 
		di sopravvivenza, in senso non soltanto primordiale, ma anche latamente 
		culturale – cioè di tutti i beni (dalla lingua all’ethos) di un popolo. 
		Perciò lo Stato diventa esso stesso un valore, e, a ben guardare, il 
		massimo bene. Il “bene pubblico”. La sopravvivenza dello Stato, e la sua 
		fortuna fra gli uomini usciti dalla condizione primitiva, pre-politica. 
		L’utile dello Stato diventa – per un realista come Tucidide o 
		Machiavelli – la stella polare dell’agire politico”. 
		 
		Personalizzazione della leadership 
		 
		Nel libro, come promette il titolo, il tema della politica come “lotta 
		per il potere” viene trattato in relazione alla leadership nelle odierne 
		società di massa. Utilizzando, ancora una volta, la lezione weberiana 
		del carisma – opportunamente integrata con la psicanalisi freudiana e 
		con le indicazioni della storiografia della “nazionalizzazione delle 
		masse” – Cavalli enuclea le ragioni antropologiche, culturali, 
		politiche, economiche in senso lato, che nelle suddette società portano 
		alla personalizzazione della leadership. “La generalità degli uomini – 
		scrive – per scarsa capacità di pensare e agire in base a riferimenti 
		astratti, cerca la rassicurante concretezza che può venire soltanto 
		dalla identificazione di essi con chi ne è più credibilmente portatore. 
		Onde la forte tendenza a identificare ogni causa, ogni speranza, la 
		comunità stessa e il potere pubblico che ne è la prima espressione, con 
		il leader”. Questa tendenza, che è anche “tra le cause della prevalenza 
		storica del principio monocratico”, spiega la “necessità di un capo che 
		istituzionalmente risponda al bisogno di partecipazione collettiva nelle 
		grandi scelte, comunicando direttamente con il popolo e mobilitandolo 
		eventualmente per l’interesse pubblico”. E, a livelli più alti di 
		generalizzazione, “l’uomo è comunemente incapace di vivere in società 
		sulla base di pure astrazioni, anzi ha bisogno che esse vengano 
		impersonate perché abbiano per lui concretezza e valore; e l’operazione 
		è tanto più efficace, se egli prende attivamente parte alla scelta 
		(ritualizzata) della persona.” 
		 
		Il volume propone una tipologia abbastanza semplice formata dalla 
		diversa combinazione di democrazia – intesa genericamente come facoltà 
		di scelta dei governanti – e di monocrazia – “tendenza alla 
		concentrazione del potere nelle mani di uno solo” – da cui derivano, 
		sostanzialmente, tre forme di governo: la democrazia con leader, ovvero 
		la “monocrazia elettiva dei moderni”; la democrazia senza monocrazia, 
		cioè “senza leader” – “fondamentalmente caratterizzata dal governo di 
		molti (poliarchia)”; e, infine, la dittatura totalitaria, che sarebbe 
		una monocrazia senza democrazia, meglio definita come autocratica, “al 
		fine di evidenziarne il carattere personale assoluto” (arbitrio e 
		onnipotenza del detentore del potere). Si tratta di temi di grande 
		attualità non solo per quanto riguarda la vexata quaestio delle origini 
		del totalitarismo, ma soprattutto – ed è l’aspetto più intriguing in 
		questa sede – per quel che concerne la riflessione sulla crisi (vera o 
		presunta) di quelle libere istituzioni che, con la sconfitta di nazismo 
		e comunismo, sembravano “avere con sé l’eterno”. 
		 
		Da qualche anno, come si sa, si sta svolgendo, sulle due rive 
		dell’Atlantico, un dibattito sempre più impegnativo, sotto il profilo 
		teorico, sulla salute della democrazia, sui pericoli che la insidiano, 
		sulla sua capacità di venire “esportata” in società le cui culture sono 
		diverse, se non molto distanti, dalla nostra, segnata dall’eredità 
		greco-romana e da quella ebraico-cristiana, ricongiunte nella tradizione 
		umanistica, alle origini, a sua volta, della moderna civiltà laica e 
		liberale. 
		Quel che sembra prevalere, specialmente nell’Italia del Polo ma anche in 
		altri paesi europei e negli stessi Stati Uniti, è un atteggiamento 
		ispirato a una profonda diffidenza nei confronti delle masse e dei suoi 
		“capi”. Si teme, dappertutto, una deriva populistico-plebiscitaria 
		destinata a rimettere un enorme potere (innanzitutto mass-mediatico) 
		nelle mani di spregiudicati demagoghi, spesso improvvisati, privi di 
		professionalità politica e di spessore etico. Paradossalmente – come ho 
		fatto rilevare in altra sede: vedi il mio recente La democrazia liberale 
		(e le altre), edito da Rubbettino – quel “primato del liberalismo sulla 
		democrazia”, che definiva un pensiero se non di destra, certo liberale e 
		liberalconservatore, sta diventando il cavallo di battaglia di quello 
		stesso schieramento progressista che s’identificava ieri nel “primato 
		della democrazia sul liberalismo”. Le masse che, nell’Ottocento e nel 
		Novecento, rendevano inquieti i sogni dei moderati sono diventate il 
		nightmare di una consistente parte della sinistra che pare voler 
		affidare ai giudici il compito di salvaguardare il diritto, definito 
		dalla Costituzione, contro la legge fatta da Parlamenti sempre più 
		ridotti a specchio di elettori volubili, manipolati da ben riconoscibili 
		demagoghi. 
		 
		I limiti della democrazia senza leader 
		 
		Anche Cavalli porta il suo contributo alla critica delle degenerazioni 
		del sistema politico ma la novità del suo approccio consiste nel fatto 
		che quelle degenerazioni non vengono attribuite al rafforzamento di un 
		esecutivo irresponsabile bensì all’assenza di un autentico progetto di 
		governo dovuta al vicendevole impacciarsi di gruppi di pressione, di 
		partiti, di sindacati, di chiese, che non permette a nessuno di assumere 
		il timone dello Stato e di dirigersi verso mete ben definite e 
		condivise. Semplificando alquanto i termini del discorso, per lui, il 
		nemico da battere non è il populismo ma il pluralismo acefalo, non è 
		Cesare Borgia ma Pier Soderini, il gonfaloniere che Machiavelli 
		scaraventava nel Limbo, la dimora dei bambini senza colpa perché 
		incoscienti. A suo avviso, l’esperienza drammatica delle dittature – 
		fascista, nazista e comunista – se, da una parte, è stata salutare in 
		quanto ci ha messo (o avrebbe dovuto metterci) in guardia contro ogni 
		concessione ai portatori di visioni del mondo assolute ed esigenti, 
		dall’altra, ha appannato la lucidità dello sguardo, precludendoci la 
		comprensione delle malattie mortali che minacciano le nostre libertà 
		civili e politiche.  
		 
		Riprendendo una tesi del grande Giuseppe Maranini – un autore 
		stranamente mai citato eppure fondamentale per chi, non meno 
		severamente, critica la partitocrazia – Cavalli ribalta il vecchio e 
		consunto luogo comune in base al quale è il quantum di potere accumulato 
		nelle mani del governo che, spinto oltre certi limiti, porta alla 
		tirannide dei moderni. Per lui, è vero il contrario: è la debolezza dei 
		regimi democratici che, negli anni tra le due guerre mondiali, ha 
		spianato la via ai terribles simplificateurs tanto temuti dal pensiero 
		liberale e liberalconservatore dell’Ottocento. 
		“L’esame delle esperienze moderne suggerisce la conclusione che la 
		democrazia “senza leader” sia – come già la democrazia in genere 
		appariva agli antichi – inetta davanti al mutamento, alla crisi, 
		all’emergenza; e perciò destinata a produrre, alla lunga, effetti di 
		decadenza e anche disgregazione, con la possibilità di sviluppi 
		autoritari all’interno e di dipendenza, diretta o meno, dall’esterno”. 
		Si avvertono, nelle pagine del libro, non pochi e forti echi della prima 
		scienza politica italiana, quella che affilava le sue armi nella critica 
		del parlamentarismo e nella denuncia delle sue ricadute sul piano della 
		convivenza civile e dei costumi. Mutatis mutandis, l’Italia umbertina e 
		poi giolittiana presenta, a livello di sistema politico, tratti 
		degenerativi che l’accomunano alla “democrazia senza leader”, almeno 
		sotto un aspetto “di decisiva importanza”. 
		 
		“I centri decisionali che danno l’input a tutto il sistema politico si 
		collocano al di fuori dello Stato, nella sfera privata. Sicché lo Stato 
		nazionale manca [della] condizione di autonomia [...] essenziale alla 
		sua stessa definizione. I partiti, infatti, sono veramente i “principi” 
		della democrazia senza leader. Anzi, le oligarchie che li controllano 
		(Michels). Ma i partiti sono portatori di interessi particolari, cioè 
		privati (Schmitt). Il governo e il parlamento, dominati dai partiti, 
		diventano perciò gli organi in cui la volontà dello Stato si definisce, 
		non in base all’interesse pubblico, ma per il prevalere di un interesse 
		particolare (privato) su altri, o, più spesso, per mezzo di un 
		compromesso”.E il risultato è che si finisce per togliere allo Stato “la 
		facoltà piena di decidere su materie di pubblico interesse, che al 
		limite vengono sottoposte a procedure negoziali in cui lo Stato figura 
		come una delle parti – tipicamente nelle trattative fra governo, 
		sindacato e padronato. Specialmente nelle deboli democrazie parlamentari 
		multipartitiche, la concezione e la prassi pluraliste possono comportare 
		che le controparti impongano allo Stato le loro scelte 
		particolaristiche, con l’eventuale ausilio della piazza”. 
		 
		Per tutte queste ragioni, conclude Cavalli, “nella tipica democrazia 
		senza leader, il sistema politico sta in bilico fra la discussione che 
		non sbocca mai nella decisione e il compromesso fra partiti per 
		definizione portatori di interessi particolari (ed eventualmente 
		estranei al bene pubblico)”. Alle ombre di questa forma di governo, 
		chiaramente così poco congeniale (e non da ora) a uno studioso 
		innegabilmente affascinato dal decisionismo, si contrappongono le luci 
		della “democrazia con leader”, in cui un esecutivo forte e responsabile 
		“viene eletto e giudicato dal popolo in libere elezioni, gode di 
		definiti poteri sotto il controllo di altre istituzioni indipendenti, in 
		un quadro invariato di libertà e legalità. E, d’altra parte, ogni 
		cittadino trova riconoscimento del suo diritto politico e, 
		correlativamente, della sua dignità. La democrazia con leader appare 
		dunque come sviluppo dialettico della democrazia “moderna” dello scorso 
		secolo: realizzazione più compiuta e aderente a interessi essenziali, 
		dello Stato e del cittadino”. 
		 
		Cavalli non sembra aver dubbi sul fatto che “nel nostro tempo, il 
		modello dell’elezione popolare di un capo dello Stato con poteri di 
		governo e la possibilità di percorsi più selettivi per i candidati” 
		possano garantire sufficientemente, nei grandi Stati occidentali, “tre 
		requisiti imprescindibili: personalizzazione della leadership (sia per 
		la concentrazione di potere nel ruolo di vertice, sia per la fiducia di 
		massa nel leader), alta qualità dell’uomo prescelto e successione 
		ordinata dei leader al vertice. E ciò nell’ambito d’un sistema politico 
		e di un ordinamento legale che assicurino al cittadino il godimento dei 
		diritti davvero fondamentali”. Ma è proprio così, ci si chiede? E, alla 
		fine della storia, i conti tornano poi tutti? In realtà, se sono 
		innegabili le benemerenze acquisite dalle democrazie con leader – a 
		cominciare dalla dimostrata capacità di soffocare in sul nascere l’idra 
		totalitaria – va riconosciuto che esse, lungi dall’essere una variabile 
		indipendente del (e con effetti positivi sul) sistema politico, sono il 
		prodotto complesso di fattori istituzionali e culturali, che non sempre 
		il “realismo radicale” mette a fuoco, pur se in teoria dichiara di 
		volerne tener conto.  
		 
		Del resto lo stesso Cavalli ne è consapevole allorché scrive che “quel 
		tipo di democrazia è fondato sulla libera scelta dei governanti e da 
		istituzioni e regole che garantiscono per tutti le libertà fondamentali, 
		opponendo per tale aspetto limiti definiti e sicuri al potere di chi 
		governa”. E ancora: “la democrazia con leader risulta efficace nel suo 
		operare soltanto se c’è un valido sistema di selezione degli uomini e di 
		controllo del loro operato”.Sono le istituzioni, allora, che consentono 
		alla monocrazia elettiva dei moderni di produrre i suoi benefici 
		effetti: le istituzioni rappresentano il corpo sano che un buon cibo, la 
		monocrazia elettiva, mantiene efficiente e vitale. è vero, per restare 
		nella metafora, che un corpo sano, alla lunga, può essere rovinato da un 
		cibo cattivo (la democrazia senza leader) ma è altrettanto certo che 
		un’alimentazione corretta non solo non risana un corpo malato (uno Stato 
		premoderno, privo di istituzioni in grado di garantire l’ordine e la 
		legge) ma può, persino, comprometterlo definitivamente (com’è il caso 
		dei sistemi presidenziali del Sud e del Centro America in cui la 
		monocrazia diventa autocrazia golpista). 
		 
		Il valore delle istituzioni 
		 
		Cavalli vede la politica dal lato dei governanti, in lotta per il potere 
		ovvero, come direbbe Mario Stoppino, dal lato di quanti competono per 
		l’autorità; non la vede dal lato dei governati – che è poi la dimensione 
		classica cui si riferisce il contratto sociale – ovvero di quanti, in 
		cambio del loro sostegno ai contendenti, se ne aspettano la produzione 
		di diritti istituzionalmente garantiti – dove istituzionalmente 
		significa tutela giuridica assicurata dai vari organi e articolazioni 
		dello Stato, dalle caserme ai tribunali, dalla pubblica amministrazione 
		agli enti che erogano benefici sociali. è la dialettica tra governanti e 
		governati, il loro continuo scambio politico – il fatto che i primi 
		debbano dare qualcosa ai secondi e che questo qualcosa, in certi 
		contesti storici e ambientali, si trasformi in sicuro argine 
		istituzionale del processo politico – a rassicurarci sulla leadership 
		monocratica nelle democrazie occidentali e sul suo rimanere “entro i 
		solidi limiti posti dalle leggi e da una coscienza pubblica largamente 
		autonoma, e con il controllo delle verifiche elettorali”. E a questo 
		proposito sia consentito un rapidissimo cenno a un’idea cara a tutti i 
		realisti, e segno del loro pur rispettabile conservatorismo: l’idea che 
		i partiti siano per definizione portatori di interessi, per l’appunto, 
		di parte e che lo Stato sia, sempre per definizione, l’incarnazione del 
		bene comune, dell’interesse collettivo. 
		 
		In realtà, se è innegabile che sull’arena politica arrivano ogni volta 
		interessi e valori di parte, a uno sguardo più attento, restano poi le 
		istituzioni il fattore decisivo: quando sono robuste, rispettate e 
		radicate nella tradizione, il bargaining dei molteplici egoismi (di 
		gruppi, di ceti, di partiti) si trasforma in farina che arricchisce il 
		mulino dello Stato e dal bozzolo del compromesso nasce la farfalla 
		dell’identità comunitaria e dei suoi valori forti; quando sono deboli, 
		incerte, non favorite da un’adeguata political culture né dalle risorse 
		prodotte dal sistema economico, il confronto tra le richieste, che da 
		ogni parte si levano in direzione dei poteri pubblici, attiva spinte 
		centrifughe che delegittimano il sistema e provocano forti tensioni 
		sociali, talora ingovernabili all’interno della comunità politica (e 
		pertanto suscitatrici di sentimenti secessionistici). A ragione Cavalli 
		ammira De Gaulle e vede nel Generale il rifondatore dello Stato francese 
		e, per la prima volta nella sua storia, di una stabile democrazia con 
		leader. Ma la Francia, non va dimenticato, pur nel ridimensionamento 
		seguito alla seconda guerra mondiale, era pur sempre una grande nation, 
		con un’amministrazione esemplare per efficienza, un’identità nazionale 
		consolidata, a onta delle spaccature storiche fra le sue diverse 
		“famiglie spirituali”, un senso orgoglioso del proprio ruolo e della 
		propria missione, un ragguardevole impero afroasiatico di cui gestire la 
		decolonizzazione.  
		 
		Al di là dei suoi innegabili meriti, De Gaulle “veniva da lontano”, era 
		il prodotto di una storia secolare che in lui, uomo di destra e 
		resistente, riconciliava le due tradizionali – e fin ad allora 
		irriducibili – polarità: Giovanna d’Arco e l’albero della libertà, i 
		gigli d’oro del Re Sole e il tricolore dei soldati dell’anno secondo. E 
		un discorso, in parte analogo, vale per Churchill, un concentrato 
		energico e invincibile, della vecchia Inghilterra, un uomo per cui 
		l’idea della patria (“right or wrong, my country”) e il “sistema 
		Westminster” (quella democrazia reale da lui definita il peggiore dei 
		governi, ad eccezione di tutti gli altri) facevano tutt’uno. Un ultimo 
		cenno sulle “masse gregarie” e sui meccanismi psicologici che le 
		portano, comunque, ad affidarsi a un leader, democratico o autocratico, 
		a seconda dei contesti. Cavalli, a mio avviso, giustamente dà importanza 
		agli studi classici di G. Mosse e dei suoi allievi italiani (in primis, 
		Emilio Gentile) ma gliene dà troppa. Simboli, miti, riti e ideologie 
		sono il contorno della pietanza totalitaria ma la bistecca è altra cosa 
		e, con buona pace di chi ha sostenuto il contrario, l’abito seguita a 
		non fare il monaco. Sono le costellazioni istituzionali, in ultima 
		istanza, a tenere in vita il teatro della politica totalitaria: quando 
		gli utili vengono meno, i fondali si rivelano di cartongesso. Gaetano 
		Mosca e Max Weber, se fossero sopravvissuti al fascismo e ne avessero 
		analizzato la natura, non avrebbero dedicato alla messinscena più di 
		qualche paragrafo (comunque significativo). 
		 
		Conclusioni 
		 
		Questi rilievi, beninteso, non intendono ridimensionare la validità di 
		una ricerca sociologica e politologica che, ripetiamo, è acqua di fonte 
		se confrontata alla morta gora dell’ideologia italiana di questi ultimi 
		anni. Segnalare il rischio dell’approccio realistico di convertirsi in 
		ideologia o meglio in una filosofia politica ispirata a un radicale 
		pessimismo antropologico, potrebbe invece contribuire a farne uno 
		strumento conoscitivo e pedagogico imprescindibile proprio grazie alla 
		rimozione di certe tentazioni “reazionarie”. A cominciare dal “giudizio 
		di incapacità politica della massa, dovuta alla condizione di 
		segregazione e alla estrema manipolabilità cognitiva ed emotiva” per 
		finire alla critica – che richiama alla mente antiche tesi platoniche – 
		rivolta al “criterio dell’uguaglianza” che “opera anche al fine di 
		escludere la ricerca dell’eccellenza. Rifiuta ogni riconoscimento di 
		superiorità e, quindi, ogni spazio istituzionale alle élite. E agli 
		autentici leader. Privando così lo Stato della preziosa risorsa del 
		comando unico e della leadership personale”. Al primo pregiudizio viene 
		spontaneo obiettare che i comportamenti gregari delle masse hanno, in 
		realtà, una loro ratio giacché, a ben vedere, si traducono in sostegni 
		enfatizzati e sentimentalizzati a regimi politici totalitari che, per 
		quanto spietati, non erogano solo gratificazioni simboliche e 
		organizzazioni spettacolari dell’entusiasmo comunitario ma appagano, 
		almeno in parte, bisogni reali, concreti: fascismo, nazismo e comunismo 
		furono, ciascuno a suo modo, stati sociali, produttori di un welfare che 
		a tutti garantiva un minimo vitale; per quanto riguarda il secondo 
		pregiudizio, si rileva che la competenza richiesta ai governati è assai 
		poca cosa ma non per questo è irrilevante: essa non consiste nel 
		conoscere le varie qualità di cuoio o i modi di fabbricazione delle 
		tomaie ma nel sentire se la scarpa calza bene al piede oppure no. 
		 
		Questi “pregiudizi del conservatore”, tuttavia, non hanno alcun rapporto 
		cogente con le acute analisi del populismo, del ruolo dell’Europa, del 
		destino di Grosse Macht riservato agli Stati Uniti d’America o con le 
		congetture sulla assai probabile sopravvivenza dello stato nazionale. 
		Quando Cavalli osserva che “senza il detestato “gendarme planetario”, la 
		guerra (quella vera, tra pari, non le operazioni Usa “di polizia” contro 
		i paesi canaglia) ritornerebbe verosimilmente ad abitare il pianeta. Le 
		armi di distruzione di massa diventerebbero patrimonio di molti Stati, 
		canaglia o no, e anche delle organizzazioni terroristiche. Mentre 
		crescerebbe la minacciosa pressione dei popoli diseredati 
		sull’Occidente, e della componente islamica in specie”, ci dà una 
		lezione di realismo della quale non si può non essergli grati. I fatti 
		sono quelli che sono e hanno la durezza del diamante. Non c’è bisogno di 
		condirli con discorsi sull’ineguaglianza degli uomini in cui, 
		oltretutto, ci si espone al rischio di sovrapporre ineguaglianza e 
		diversità. La tesi opposta della radicale eguaglianza degli uomini, in 
		fondo, non aveva impedito a Hobbes di descrivere i rapporti umani nei 
		termini crudamente realistici che sappiamo! 
		
        8 settembre 2004 
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