Leader versus coalizione di partiti 
		di Luciano Cavalli 
		
        
      
        da Ideazione, luglio-agosto 2004 
		 
		I partiti vecchia maniera volentieri condannano la personalizzazione 
		della leadership di governo. La esorcizzano. Spesso affermando che è un 
		fenomeno non propriamente democratico, e “di destra”. Perché insidia il 
		loro dominio assoluto, realizzato nel “regime dei partiti”. Nonostante 
		gli anatemi, però, la tendenza verso la personalizzazione avanza, in 
		Italia e nel resto dell’Occidente. In vari paesi già da tempo 
		istituzionalizzata. Si manifesta in due modi. Come concentrazione del 
		potere nel ruolo del capo dell’esecutivo (che può coincidere con quello 
		di capo dello Stato). E come fiducia di massa, espressa nella scelta e 
		nel sostegno a chi ricopre quel ruolo. Anzi, la tendenza si afferma 
		anche nei partiti: che, al limite, diventano “partito del leader”. Come, 
		nel nostro paese, Forza Italia. Anche chi la condanna, in qualche 
		maniera si adegua. Vedi la lista Prodi. Anche da noi, d’altronde, essa 
		investe direttamente il processo elettorale. L’attenzione 
		dell’elettorato si sposta dal partito, a lungo soggetto collettivo della 
		politica. Privilegia il leader. La sua personalità e il suo progetto, il 
		progetto da lui impersonato. Con relativa “spettacolarizzazione”, 
		condotta da lui e dal seguito. 
		 
		Le scienze dell’uomo e della società hanno messo in evidenza cause 
		vicine, lontane e profonde di questo fenomeno. Antropologiche: la storia 
		testimonia d’un antico bisogno di personalizzazione. Sociologiche: la 
		crisi delle classi sociali e delle comunità locali che erano alla base 
		del soggetto collettivo partito. Culturali: la crisi delle ideologie 
		connesse alle strutture sociologiche di cui si è appena detto. In 
		sintesi: la “individualizzazione” di massa. Ma la personalizzazione 
		corrisponde in primo luogo ad esigenze politiche del nostro tempo, 
		caratterizzato da rapidi e insidiosi processi di mutamento in un 
		contesto globalizzato. Studiosi come Weber e statisti come De Gaulle 
		hanno messo in evidenza come ciò richieda un potere centrale 
		personalizzato, in grado di governare secondo un progetto, con decisioni 
		rapide. Che possa prendere decisioni impopolari. E contare sulla 
		disciplina interna. Che possa fronteggiare ogni insidia dall’esterno. E, 
		d’altra parte, sia portatore di “responsabilità univoca” verso 
		l’elettorato, la nazione. Tutto ciò, secondo Weber, determina una 
		«tendenza verso la monocrazia», destinata a prevalere nel nostro tempo. 
		Così intesa, la monocrazia è complementare alla democrazia. «Democrazia 
		(allude) alla facoltà di scelta e controllo effettivo (del popolo) sui 
		governanti; monocrazia al modo di strutturare il potere dello Stato per 
		meglio servire» gli interessi pubblici. È però da mettere in risalto la 
		connessione fra mutamento, conseguenti situazioni critiche e 
		personalizzazione. Quest’ultima emerge con più forza nella crisi. E 
		nella crisi manifesta le sue potenzialità positive.  
		 
		Nei rapporti esterni, come all’interno. Il portatore di leadership 
		personalizzata può definire la situazione, l’obiettivo, la via. Anzi, li 
		impersona. Così, per esempio, è stato per Churchill in guerra. O per la 
		signora Thatcher, che ha modernizzato il Regno Unito. Sviluppo reso 
		possibile, innanzi tutto, da un sistema politico che istituzionalizza 
		una forte leadership personale nel governo del paese. Ma anche dalla 
		coesione nazionale, sorretta dall’orgoglio della propria cultura e dal 
		senso di un comune destino storico. Per cui il leader che opera 
		nell’interesse pubblico, è più facilmente riconosciuto, rispettato, 
		appoggiato nel suo sforzo. Spirito di fazione, ideologia, interessi 
		particolaristici, sono posti in subordine. 
		Queste considerazioni costituiscono un’utile premessa al caso italiano. 
		L’Italia si trova di fronte a sfide critiche di immenso impegno. La 
		globalizzazione, principalmente nella dimensione economica. E il 
		terrorismo islamico (in prospettiva, saldato con terrorismi indigeni). 
		Ma il paese è manifestamente incapace d’una risposta adeguata. E lo è 
		innanzitutto lo Stato, che della risposta alla sfida dovrebbe essere il 
		vero protagonista. Anche nella dimensione economica. Perché è evidente 
		che per varie ragioni, tra cui la prevalenza numerica di piccole e medie 
		aziende, lo Stato ha la responsabilità di pensare, orientare, sorreggere 
		l’economia (nel quadro d’un progetto-paese). Un compito ormai urgente, 
		per giunta.  
		 
		La necessità di una riforma 
		 
		Perciò dare al paese una nuova forma di governo con forte rafforzamento 
		del ruolo di vertice appare – a un puro osservatore, del tutto estraneo 
		alle forze politiche presenti in Italia – come la più ovvia ed urgente 
		riforma di cui c’è bisogno. La riforma-chiave. Qui, però, viene in 
		evidenza il radicale contrasto tra il bene pubblico rappresentato dallo 
		Stato e il particolarismo dei partiti del regime dei partiti, ciascuno 
		dei quali è necessariamente portato a considerare se stesso come il 
		massimo bene. I governi di coalizione non possono esprimere quella guida 
		lungimirante, coerente, rapida e incisiva che è richiesta dai tempi, 
		perché ciò potrebbe avvenire soltanto sacrificando gli interessi 
		particolari rappresentati ora da questo ora da quel partito della 
		coalizione. D’altra parte, è difficile per quei partiti giungere ad un 
		accordo effettivo per una riforma “presidenzialista”, perché un 
		presidente (governante) o un premier istituzionalmente forte 
		sacrificherebbero, all’occorrenza, i loro particolarismi. Peggio: 
		potrebbero oscurarne la presenza, renderla insignificante agli occhi 
		degli elettori. Accade anche oggi, in Italia. Berlusconi vede l’azione 
		del suo governo ritardata e indebolita dalla difesa, da parte dei 
		partiti alleati, della propria visibilità e degli interessi dei propri 
		elettori. Il progetto della Casa delle Libertà sulla forma di governo è 
		stato reso più debole del dovuto, in particolare per le istanze 
		leghiste, ed è inoltre contraddetto dalle levate di scudi ora di questo 
		ora di quel partito della coalizione, in ragione di quella visibilità e 
		di quei particolarismi. Anche da An, da sempre portatrice dell’idea 
		presidenzialista. D’altronde l’opposizione di centrosinistra s’oppone ad 
		ogni riforma che rafforzi il capo dell’esecutivo. Teme che faciliti la 
		campagna fortemente personalizzata di Berlusconi nel 2006, e che gli dia 
		maggiore forza di governo da quella data. A scapito dell’opposizione. 
		Perciò propone progetti di riforma alternativi, che renderebbero il 
		paese mal governabile, anche dal centrosinistra, se vincesse le 
		elezioni.  
		 
		Qual è la riflessione ultima, suggerita da tutto ciò? La riforma di 
		ispirazione monocratica, “presidenzialista”, può essere decisa soltanto 
		da un Parlamento che, peraltro, è espressione del regime dei partiti. Ma 
		essa segnerebbe la fine di quel regime. Perciò è molto, molto difficile 
		da fare. Anche se corrisponde al pubblico interesse. E chi riuscisse a 
		compierla, farebbe al paese uno dei servizi più grandi della sua storia. 
		Ma tanto la riforma quanto l’eventuale esercizio di leadership di fronte 
		a prove che richiederebbero disciplina, anzi impegno unitario, sono resi 
		molto difficili da un’ulteriore circostanza: il senso deficiente di 
		“noità” e le differenti visioni del mondo, con pertinenti etiche, che 
		dividono il paese. Convergenti influenze culturali, di carattere 
		marxista o religioso, hanno predisposto masse intere e, in primo luogo, 
		i loro capi a orientarsi secondo astratti principi “universalistici” 
		(come la “fratellanza”, e la conseguente “solidarietà universale”) e, 
		semmai, verso entità altrettanto astratte e vaghe (come “l’umanità”), a 
		scapito della responsabilità verso la propria comunità storica e verso 
		la civiltà che ci accomuna ad altri paesi. Il macroscopico esempio più 
		recente è fornito dalla scelta del centrosinistra di pretendere il 
		ritiro degli occidentali dall’Iraq. Nonostante il probabile estendersi 
		dell’area dominata dall’islamismo. E il conseguente ricatto economico e 
		bellico-terroristico nei confronti di un’Europa sola e debole, poiché i 
		nostri fondamentalisti puntano anche sulla rottura con l’America, 
		indispensabile alla nostra difesa. 
		 
		In una democrazia parlamentare multipartitica con le divaricazioni 
		culturali di cui si è detto alla base della lotta politica, la tendenza 
		alla personalizzazione della leadership di vertice si è ovviamente 
		manifestata innanzitutto al livello della tribù partitica, con Craxi, 
		Bossi, Pannella, per citare gli esempi forse più tipici. All’inizio 
		degli anni Novanta la sua influenza si è invece estesa, con Berlusconi, 
		a un vasto elettorato reso politicamente orfano dalla crisi dei partiti 
		e fortemente connotato dall’anticomunismo. Su Craxi e Berlusconi si 
		concentrerà dunque l’attenzione. Selettivamente, ossia soltanto per gli 
		insegnamenti durevoli che concernono la questione considerata in questo 
		articolo. 
		 
		Leader all’italiana/1: l’era di Craxi 
		 
		Il caso Craxi è il più interessante della prima fase di cui si è detto, 
		e va studiato a partire dagli intenti di fondo. Qui va innanzitutto 
		ricordato il progetto socialista d’una grande riforma, che – nel momento 
		di maggior fortuna, e ambizione – s’incentrava nell’idea della 
		repubblica presidenziale. Esso era ispirato da due intenti. Da un lato, 
		dare al paese un governo finalmente in grado di governarlo con efficacia 
		in aderenza alla qualità dei tempi. Dall’altro, portare al potere una 
		sinistra dominata da Craxi e dal suo partito, con relativa 
		subordinazione del partito comunista. 
		 
		L’aspirazione ad un grande ruolo nazionale per il Psi presupponeva una 
		leadership personale nel partito, cosa affatto estranea alla tradizione 
		socialista. A quello scopo Craxi si costruì un solido sistema di 
		consenso e supporto al livello delle federazioni, riservandosi lo spazio 
		nazionale in cambio delle autonomie sul territorio. E cambiò, a poco a 
		poco, sia le regole sia la cultura e l’atteggiamento di fondo nel 
		partito. Il congresso di Verona del 1984 appare, per questo aspetto, 
		come una svolta significativa. Un nuovo statuto sostituiva il ristretto 
		comitato centrale, già sede di difficili battaglie, con una vastissima, 
		composita e manovrabile assemblea nazionale, che eleggeva la direzione. 
		Il segretario doveva essere eletto direttamente dal congresso. Ma la 
		rielezione di Craxi, quell’anno, ebbe luogo addirittura per 
		acclamazione, ossia in pura forma “plebiscitaria”. Ciò provocò 
		l’indignata reazione pubblica di Norberto Bobbio, appoggiato da De 
		Martino ed altri “vecchi” socialisti. Ma la nuova élite stretta intorno 
		al capo proclamò che quell’elezione rispondeva all’esigenza di alta 
		governabilità (personalizzata) del partito mentre analoga esigenza 
		s’imponeva al vertice del paese. 
		 
		Va detto, tuttavia, che Craxi, come personalità, fu il principale autore 
		di quel mutamento diffuso che coinvolgeva nell’intimo i socialisti. La 
		sua “immagine pubblica” era ben definita, e costante. Craxi mostrava 
		stabilmente un atteggiamento sicuro, autorevole, spregiudicato e duro. 
		D’uomo che persegue la sua meta inarrestabilmente. Con una punta di 
		sprezzo per gli avversari, anche. E questo atteggiamento appunto egli – 
		sempre con l’aiuto di dirigenti anch’essi coinvolti – trasfuse nella 
		“base” stessa del partito. Liberando il partito dal “complesso di 
		inferiorità” nei confronti dei comunisti. «Restituendo l’orgoglio ai 
		socialisti», come si andava ripetendo. E, quindi, infondendo in ogni 
		istanza del partito intenti di rivalsa, volontà d’esser presenti e 
		contare in ogni ambito decisionale e presso l’opinione pubblica. Fino 
		all’eccesso, per riprendere un antico concetto greco. 
		 
		Che questi spiriti abbiano portato ad atti spregiudicati oltre il 
		limite, e gli avversari – in primo luogo il Pci – abbiano potuto 
		approfittarne per ordire la distruzione di Craxi e del suo partito, non 
		toglie certo originalità e rilevanza all’esperimento socialista. Per un 
		giudizio politico su quelle deviazioni, d’altronde, bisogna considerare 
		che il disegno di conquistare forte e stabile potere – forse come capo 
		d’una repubblica presidenziale – sulla base d’un partito del 10 per 
		cento e di mediocre qualità, richiedeva necessariamente spregiudicatezza 
		ed azzardo in buona dose. 
		 
		Si deve inoltre riconoscere che quell’ambizione era sorretta da un forte 
		sentimento nazionale. Craxi era un socialista erede della tradizione 
		riformista e, pertanto, del grande lascito risorgimentale. L’omaggio 
		alla tomba di Garibaldi e di altri eroi e martiri dell’indipendenza 
		italiana, e la collezione di cimeli, dichiaravano quella devozione. In 
		modo coerente egli aveva articolato la visione dei tempi e il progetto 
		politico. In funzione del pubblico interesse. Quest’uomo, assurto al 
		potere attraverso la lotta nel partito e a nome del partito, governò 
		come statista italiano, con la lungimiranza e il coraggio del vero 
		leader. La battaglia contro la scala mobile, con l’inflazione che ne 
		derivava, e la storica decisione di accogliere i missili americani 
		contro la minaccia d’una finlandizzazione dell’Europa ne sono prova. 
		Alla stessa stregua è stata generalmente valutata la ferma resistenza 
		alle richieste americane nell’episodio di Sigonella, discutibile da 
		altri punti di vista. Lo stesso si può dire del nuovo Concordato, che ha 
		rappacificato Chiesa e Stato, ma con conseguenze inintenzionali non 
		opportune dal punto di vista della tradizione laica, in cui il Psi si 
		collocava. Qui – sia detto per inciso – viene in evidenza una debolezza 
		di Craxi: non fu sempre capace di scegliersi i consiglieri e tantomeno 
		di costruirsi gruppi di studio e, al limite, think-tanks: necessari, i 
		primi come i secondi, a una moderna leadership, e tanto più quando essa 
		sia, come in questo caso, essenzialmente monocratica. E, forse, lui 
		stesso non studiò abbastanza certi grandi problemi della vita nazionale, 
		come appunto il rapporto Stato-Chiesa. 
		 
		La tragica caduta di Craxi mostra invece come, nel regime dei partiti, 
		il capo d’un partito che assurga al ruolo di vero leader nazionale sia, 
		proprio per questo, destinato ad incontrare guerra a morte da parte 
		delle altre forze politiche, e specialmente, s’intende, da quelle più 
		minacciate. In quella guerra è venuta in evidenza, ancora una volta, la 
		frattura culturale e politica nel paese. Sezioni importanti della 
		popolazione sono consegnate al culto di astratti principi 
		“universalistici”. Un lungo predominio culturale, comunista e cattolico, 
		ha formato delle “mentalità” su cui ragione e buon senso difficilmente 
		incidono. Ne è parte essenziale il dogma che la verità (politica) 
		esiste, ormai rivelata, tutti la possono conoscere, chi afferma un’altra 
		verità è in malafede, è nemico del progresso verso la giusta società; e 
		come tale va trattato e, se possibile, messo in condizione di non 
		nuocere. Avere idee diverse, diventa dunque una colpa morale. Un 
		crimine. Su questo terreno culturale, crescono naturalmente la 
		denigrazione e la demonizzazione. Che, d’altronde, hanno radici 
		antichissime, addirittura nelle credenze animistiche rinverdite da 
		secolari credenze religiose e poi politiche, totalitarie.  
		 
		La demonizzazione dell’avversario ha avuto in Italia precedenti di 
		rilievo, da Federico II a Garibaldi. Ma essa corrisponde naturalmente 
		alla composita cultura di cui si è detto, divenuta mentalità. E quindi 
		si è scatenata con la massima intensità contro Craxi. A darle impeto, 
		molto contribuiva l’immagine pubblica che si è evocata, l’atteggiamento 
		sicuro, aggressivo, un po’ sprezzante. “Arrogante”, secondo la versione 
		di chi l’odiava. Com’è proprio della dinamica politica in questione, 
		quelle stesse caratteristiche amate dai seguaci, che avevano 
		“risvegliato l’orgoglio socialista” e lo spirito socialista di 
		conquista, divennero il riferimento principale della demonizzazione di 
		Craxi da parte dei comunisti e di numerosi altri partecipi della 
		mentalità dominante. Nei fenomeni collettivi di quella natura via via la 
		capacità critica diminuisce e cresce violentemente la passione, in un 
		continuo processo dialettico: sicché il segretario socialista venne ad 
		incarnare letteralmente il Male, o il Maligno. Il solo suo nome 
		scatenava furie “morali”, senza bisogno di precise accuse, documentate, 
		e abbatterlo parve opera santa, da perseguire con qualunque mezzo. La 
		potenza della demonizzazione è dimostrata dal fatto che ancor oggi 
		persiste. Dai giornalisti di Repubblica, per esempio, lo stereotipo 
		tutto nero di Craxi è ancora aggressivamente riproposto, a ogni 
		occasione. E viene accanitamente contrastato ogni tentativo di 
		rivendicare i suoi meriti (contro la scala mobile, per lo schieramento 
		dei missili), o di rispolverare i progetti più interessanti. Come 
		quello, non attuato, del “partito aperto”, con struttura duale per far 
		posto ai single-issue movements e alle associazioni; o quello, mal 
		realizzato, d’una assemblea nazionale dei rappresentanti degli 
		“interessi sociali, culturali ed economici”. Che, insieme, anticipavano 
		il disegno razionale del partito moderno e, in specie, l’appropriato 
		sfruttamento delle intelligenze e delle competenze. 
		 
		Leader all’italiana/2: il “fenomeno” Berlusconi 
		 
		Analoghi fenomeni di denigrazione e demonizzazione si manifesteranno 
		d’altronde con altri leader di forte personalità e vasto seguito, 
		percepiti come minaccia radicale per gli interessi ideali e materiali di 
		forze culturali e politiche storicamente predisposte a quelle pratiche: 
		contro Bossi e Berlusconi, tipicamente. 
		 
		Il Berlusconi che nel 1994 fonda ex novo un partito e vince le elezioni, 
		sbaragliando il solo grande sopravvissuto alla crisi del regime dei 
		partiti dominante dalla fine del conflitto, ossia il Pci divenuto Pds, 
		costituisce un fenomeno nuovo, che come tale da allora è stato ed è al 
		centro dell’attenzione da parte degli studiosi della politica, non solo 
		italiani, ma occidentali in genere. Trattando qui selettivamente del 
		“fenomeno Berlusconi” nella prospettiva della personalizzazione della 
		leadership, e con il senno di poi, si deve mettere a fuoco il primo, 
		fondamentale momento della sua storia. Ciò consente innanzitutto di 
		individuare nettamente il carattere base della sua novità nella sfera 
		politica. Che richiama, a livello teorico, l’analogia sviluppata da 
		Bertrand Russell tra potere e energia. Per la prima volta, nella 
		democrazia contemporanea, il potere e l’influenza accumulati in altra 
		sfera furono direttamente trasferiti nella sfera politica, come base di 
		una nuova forza di governo, altamente personalizzata. Non soltanto i 
		mezzi finanziari, ma anche le risorse organizzative, umane e tecniche 
		dell’impero economico di Berlusconi; e, last but not least, il suo 
		prestigio di grande imprenditore. 
		 
		Gli studi generalmente concordano nel giudizio che la personalizzazione 
		fu l’idea chiave di tutta l’operazione, e del suo successo. In una prima 
		fase, Berlusconi e i suoi consiglieri studiarono la possibilità di un 
		nuovo partito, le sue eventuali caratteristiche, le strategie e (con 
		l’aiuto di polls) l’elettorato potenziale. Seguì la “discesa in campo”, 
		nettamente imperniata nell’uomo e nel suo messaggio, che lo diceva 
		portatore di “missione”: sconfiggere l’impendente minaccia del dominio 
		comunista e produrre una grande, moderna crescita del paese (garantita, 
		psicologicamente, dalla sua fortunata carriera di capitalista). Nel 
		contempo, elementi del complesso aziendale di Berlusconi procedevano 
		alla costruzione del partito (o “movimento”), secondo i piani. Migliaia 
		di “club”, ovunque nella penisola. Con tutta la necessaria struttura 
		simbolica. Il nome, “Forza Italia”, già carico di suggestione per la sua 
		storia sportiva. L’inno. I simboli. Gli slogan. E i riti: in primo luogo 
		la “convenzione” nazionale del partito, nella quale scenografia e regia 
		esaltarono iperbolicamente la personale leadership assoluta di 
		Berlusconi, presidente acclamato di quella nuova formazione politica 
		largamente innovatrice e dipendente, fin nei nomi usati, dalle 
		esperienze dell’azienda moderna. A Publitalia furono d’altronde affidate 
		anche la selezione e la preparazione dei candidati alle elezioni, in 
		gran parte gente nuova alla politica (il 95 per cento degli eletti 
		risultarono tali per la prima volta).  
		 
		Dalla posizione di dominus del “movimento”, Berlusconi trasse due 
		vantaggi fondamentali. Primo, impersonò agli occhi dell’elettorato il 
		messaggio di cui si è detto. Con effetti di semplificazione, concretezza 
		e responsabilizzazione, che alimentarono la fiducia del vasto elettorato 
		potenziale. La sua speranza era ora investita in quell’uomo. Secondo, 
		grazie al suo potere monocratico nel nuovo movimento, riccamente dotato 
		e efficacemente strutturato, Berlusconi poté proporre, trattare e in 
		breve concludere un’alleanza elettorale (il “Polo”) con due formazioni 
		fin’allora incomunicanti, anzi in contrasto: la Lega di Bossi e Alleanza 
		nazionale, anch’esse, d’altronde, con un forte potere di vertice. Un 
		risultato strategico quasi impossibile per i tradizionali partiti dal 
		potere policefalo e dalle complesse liturgie deliberative. Nella 
		campagna elettorale, poi, Berlusconi impersonò Forza Italia e, anzi, – 
		disponendo di superiori mezzi e influenza tra il pubblico – l’intera 
		alleanza del Polo, che comprendeva le formazioni menzionate e altre 
		minori. La sua posizione di leader del Polo fu poi pubblicamente 
		legittimata dal primo dibattito – nella storia democratica d’Italia – 
		fra i capi dei due opposti schieramenti maggiori. Berlusconi contro 
		Occhetto (per i Progressisti). Ma la campagna di Forza Italia fu 
		caratterizzata, oltre che dalla altissima personalizzazione in 
		Berlusconi, anche da una drastica innovazione metodologica, grazie ai 
		mezzi, alle tecnologie e alle professionalità del patrimonio aziendale e 
		para-aziendale. Una campagna paradigmaticamente moderna, in cui ebbero 
		un ruolo essenziale i media, per far conoscere il volto del capo e il 
		nuovo “marchio” elettorale, e i polls, usati non solo per conoscere ma 
		anche per influenzare l’opinione pubblica (mediante esiti fortemente 
		favorevoli a FI e al leader). Al confronto, la campagna dei Progressisti 
		figurò come le vecchie “guerre delle fanterie”. Incentrata sul soggetto 
		collettivo, era principalmente affidata alla propaganda diretta di 
		migliaia di attivisti sul territorio, in supporto ai tradizionali 
		comizi, e all’abuso smaccatamente partigiano di alcuni canali della 
		radio-televisione pubblica. Abuso che, insieme alla violenza verbale, 
		minacciosa e demonizzante, di alcuni leader ex comunisti, provocò 
		effetti contrari alle intenzioni: accrescendo tra i ceti medi 
		l’avversione. Anzi, qualche leader (vedi D’Alema) ne uscì con 
		un’impronta addosso di demonizzazione da rimbalzo, che non è svanita. 
		 
		La personalizzazione d’un movimento, tanto più nella campagna 
		elettorale, richiede l’attenta costruzione e conservazione (evolutiva) 
		dell’immagine pubblica del leader. A questo fine, la pretesa di una 
		missione da assolvere è molto importante. Presuppone in genere un’entità 
		trascendente – Dio, la Storia, il Destino – che la conferiscono. Ma la 
		certezza soggettiva della missione può a volte prescinderne. Sempre, 
		comunque, sussistono da parte del leader una “definizione” della 
		situazione e del da farsi, con il bisogno interiore di realizzarlo.  
		 
		Da questa ferma convinzione, in qualche caso associata a un “fascino” 
		radicato nella natura e nella storia personale, derivano facilmente 
		effetti di suggestione. Anzi, la storia politica mostra come un siffatto 
		leader venga non di rado trasposto da masse intere in una dimensione 
		straordinaria, superiore, sicché può ottenere d’esser seguito con 
		acritica fiducia e ubbidienza. È questo il meccanismo riconosciuto della 
		leadership carismatica. In qualche modo, Berlusconi l’aveva capito; e, 
		d’altronde, questa parte gli era evidentemente congeniale. Certo l’ha 
		saputa giocare bene, con naturalezza, porgendo con suggestiva, 
		ottimistica e sorridente convinzione il suo messaggio, su sfondi 
		scenograficamente e simbolicamente del tutto congrui. Rilevando con 
		forza il carattere del tutto diverso (per personalità, storia e stile) 
		della sua nuova leadership. Fondata sul rapporto diretto (di 
		“identificazione”) con il suo elettorato, in opposizione alla tradizione 
		dei vecchi partiti oligarchici, che chiedevano al popolo un mandato 
		praticamente in bianco. Questa immagine pubblica è stata forse l’arma 
		più efficace. Certo la vittoria elettorale del 1994 è stata innanzitutto 
		una vittoria personale di Berlusconi. Come la vittoria del 2001, dopo 
		una campagna elettorale fatta con gli stessi schemi e gli stessi mezzi, 
		in base al “contratto con gli elettori”. Schemi e mezzi che hanno 
		caratterizzato anche la campagna delle elezioni europee 2004, combattuta 
		in condizioni assai meno propizie.  
		 
		Il leader e la dialettica della coalizione 
		 
		L’attacco demonizzante condotto contro Berlusconi premier dalla sinistra 
		e da parte della stampa estera, incentrato sul “conflitto di interessi” 
		e la legislazione ad hoc, o presunta tale, non ha per nulla avuto per il 
		governo i devastanti effetti previsti dai suoi nemici. Dimenticavano 
		(ancor oggi è riconosciuto da pochi) che Berlusconi era stato scelto da 
		un vasto elettorato in quanto impersonava efficacemente una comune 
		speranza, un progetto di ammodernamento e sviluppo basato 
		sull’individuo. Contro forze politiche che rappresentavano interessi 
		immobilistici, corporativistici, ed erano eredi di una tradizione e, 
		quindi, di una mentalità a dir poco non liberali. Il seguito di 
		Berlusconi era dunque mosso primariamente da motivi politici. Da 
		interessi materiali e ideali. A quelli restava fedele. La sorpresa e gli 
		anatemi degli oppositori, italiani e stranieri, per la tetragona 
		indifferenza dell’elettorato di Berlusconi alle loro accuse su temi del 
		tutto secondari rispetto al nocciolo della scelta politica, appaiono 
		perciò ingenui, anzi affatto impolitici. 
		 
		Un leader portatore forte di una speranza, d’un progetto comune, 
		giungendo al governo può essere messo in difficoltà, ed anche abbattuto, 
		solo dall’insuccesso. Che, nel nostro caso, può essere prodotto da 
		fattori meramente strutturali. Cioè, da un sistema politico 
		contraddittorio. Accade infatti che il sistema italiano consenta la 
		personalizzazione della leadership al vertice del partito e il formarsi 
		di un vero “partito del leader”. Consente anche la personalizzazione 
		della campagna elettorale. Come si è visto con Berlusconi, appunto. Ma 
		il sistema (la legge elettorale, in primo luogo) permette una vera 
		personalizzazione della leadership di governo soltanto alla condizione, 
		molto improbabile, che il partito del leader ottenga la maggioranza 
		assoluta dei seggi. Cioè, impone governi di coalizione. Formati, oltre 
		che dal partito del leader, da altri partiti fatalmente soggetti a 
		quella che in una democrazia non compiutamente “con leader” è legge per 
		tutti i soggetti collettivi: garantire, in primo luogo, la propria 
		esistenza, favorendo le clientele elettorali e cercando costante 
		“visibilità”. A queste esigenze il progetto del leader a capo del 
		governo dev’essere fin dall’inizio adeguato, perdendo rigore; e, lungo 
		la via, ritardi e deviazioni sono imposti dalla “dialettica della 
		coalizione”. Ne deriva, per esempio, che corporazioni le quali 
		rappresentano un grave ostacolo all’ammodernamento del paese (come la 
		burocrazia pubblica o certi ordini professionali) non possono essere 
		ridisciplinate, e comunque non in tempi congrui con le esigenze dello 
		sviluppo e, perfino, della sicurezza nazionale. Insomma, la forza 
		innovativa della leadership personalizzata, al livello decisivo del 
		governo nazionale, viene resa vana dalla “dialettica della coalizione”. 
		A meno che la coalizione diventi fusione; ma anche questo superamento è 
		reso improbabile dallo spirito di conservazione che anima i partiti 
		tradizionali. Questo fenomeno, in tempi medi, viene inevitabilmente 
		percepito dal seguito elettorale come insuccesso. E perciò logora la 
		pubblica fiducia nel leader, logora la sua leadership. È questo il nodo 
		gordiano che Berlusconi deve tentare di sciogliere, per non perdere la 
		scommessa del potere. La logica della situazione induce ovviamente a 
		puntare sulla prospettiva d’una riforma costituzionale che assicuri al 
		paese un capo del governo che, con il suo esecutivo, possa veramente 
		governare in un tempo di grandi prove. 
		 
		E qui bisogna riprendere brevemente il discorso sull’ostilità 
		dell’opposizione, che s’esprime – al di là dei controprogetti 
		costituzionali che renderebbero ancora più debole lo Stato – nelle 
		strategie adottate per le elezioni europee, in vista però delle 
		politiche del 2006. La scelta di Prodi come leader è stata un finto 
		adeguamento alla tendenza verso la personalizzazione: ossia alla 
		comprovata volontà dell’elettorato di arrogarsi la scelta di chi 
		governerà, togliendola ai partiti. Finto adeguamento, che realizzerebbe 
		l’intento di conservare ai partiti quel decisivo potere. Perché Prodi 
		non ha un suo “esercito”, anzi, ha alle spalle uno schieramento 
		composito e diviso su questioni essenziali per il paese. Sarebbe dunque 
		debole davanti ai partiti. Ai più forti, in specie. Inoltre Prodi ha 
		certo dei pregi personali, ma non sembra avere grandi qualità di 
		leadership. I sostenitori stessi, d’altronde, lamentano l’assenza di 
		“carisma”. E gli riconoscono vari shortcomings. L’equilibrismo 
		sconcertante tra carica europea e impegno politico in Italia. 
		L’incertezza e la contraddittorietà delle sue prese di posizione davanti 
		a questioni gravissime, come l’eventuale ritiro dei nostri soldati 
		dall’Iraq. Con la finale scelta elettoralistica per il “sì”, di cui si è 
		subito mezzo-pentito. 
		D’altronde esponenti diessini ammettono che l’adozione di Prodi come 
		leader del centrosinistra è dovuta al fatto che dietro a un loro leader 
		la coalizione verrebbe sconfitta, e invece con Prodi, cattolico e 
		quant’altro, si può sperare. Sperare di andare al potere. E, grazie a 
		lui, sconfiggere la personalizzazione della leadership mediante la sua 
		contraffazione. Poi affondare la riforma-chiave, di cui il paese ha 
		assoluto bisogno.
		
        8 settembre 2004 
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