Leader versus coalizione di partiti
di Luciano Cavalli
da Ideazione, luglio-agosto 2004
I partiti vecchia maniera volentieri condannano la personalizzazione
della leadership di governo. La esorcizzano. Spesso affermando che è un
fenomeno non propriamente democratico, e “di destra”. Perché insidia il
loro dominio assoluto, realizzato nel “regime dei partiti”. Nonostante
gli anatemi, però, la tendenza verso la personalizzazione avanza, in
Italia e nel resto dell’Occidente. In vari paesi già da tempo
istituzionalizzata. Si manifesta in due modi. Come concentrazione del
potere nel ruolo del capo dell’esecutivo (che può coincidere con quello
di capo dello Stato). E come fiducia di massa, espressa nella scelta e
nel sostegno a chi ricopre quel ruolo. Anzi, la tendenza si afferma
anche nei partiti: che, al limite, diventano “partito del leader”. Come,
nel nostro paese, Forza Italia. Anche chi la condanna, in qualche
maniera si adegua. Vedi la lista Prodi. Anche da noi, d’altronde, essa
investe direttamente il processo elettorale. L’attenzione
dell’elettorato si sposta dal partito, a lungo soggetto collettivo della
politica. Privilegia il leader. La sua personalità e il suo progetto, il
progetto da lui impersonato. Con relativa “spettacolarizzazione”,
condotta da lui e dal seguito.
Le scienze dell’uomo e della società hanno messo in evidenza cause
vicine, lontane e profonde di questo fenomeno. Antropologiche: la storia
testimonia d’un antico bisogno di personalizzazione. Sociologiche: la
crisi delle classi sociali e delle comunità locali che erano alla base
del soggetto collettivo partito. Culturali: la crisi delle ideologie
connesse alle strutture sociologiche di cui si è appena detto. In
sintesi: la “individualizzazione” di massa. Ma la personalizzazione
corrisponde in primo luogo ad esigenze politiche del nostro tempo,
caratterizzato da rapidi e insidiosi processi di mutamento in un
contesto globalizzato. Studiosi come Weber e statisti come De Gaulle
hanno messo in evidenza come ciò richieda un potere centrale
personalizzato, in grado di governare secondo un progetto, con decisioni
rapide. Che possa prendere decisioni impopolari. E contare sulla
disciplina interna. Che possa fronteggiare ogni insidia dall’esterno. E,
d’altra parte, sia portatore di “responsabilità univoca” verso
l’elettorato, la nazione. Tutto ciò, secondo Weber, determina una
«tendenza verso la monocrazia», destinata a prevalere nel nostro tempo.
Così intesa, la monocrazia è complementare alla democrazia. «Democrazia
(allude) alla facoltà di scelta e controllo effettivo (del popolo) sui
governanti; monocrazia al modo di strutturare il potere dello Stato per
meglio servire» gli interessi pubblici. È però da mettere in risalto la
connessione fra mutamento, conseguenti situazioni critiche e
personalizzazione. Quest’ultima emerge con più forza nella crisi. E
nella crisi manifesta le sue potenzialità positive.
Nei rapporti esterni, come all’interno. Il portatore di leadership
personalizzata può definire la situazione, l’obiettivo, la via. Anzi, li
impersona. Così, per esempio, è stato per Churchill in guerra. O per la
signora Thatcher, che ha modernizzato il Regno Unito. Sviluppo reso
possibile, innanzi tutto, da un sistema politico che istituzionalizza
una forte leadership personale nel governo del paese. Ma anche dalla
coesione nazionale, sorretta dall’orgoglio della propria cultura e dal
senso di un comune destino storico. Per cui il leader che opera
nell’interesse pubblico, è più facilmente riconosciuto, rispettato,
appoggiato nel suo sforzo. Spirito di fazione, ideologia, interessi
particolaristici, sono posti in subordine.
Queste considerazioni costituiscono un’utile premessa al caso italiano.
L’Italia si trova di fronte a sfide critiche di immenso impegno. La
globalizzazione, principalmente nella dimensione economica. E il
terrorismo islamico (in prospettiva, saldato con terrorismi indigeni).
Ma il paese è manifestamente incapace d’una risposta adeguata. E lo è
innanzitutto lo Stato, che della risposta alla sfida dovrebbe essere il
vero protagonista. Anche nella dimensione economica. Perché è evidente
che per varie ragioni, tra cui la prevalenza numerica di piccole e medie
aziende, lo Stato ha la responsabilità di pensare, orientare, sorreggere
l’economia (nel quadro d’un progetto-paese). Un compito ormai urgente,
per giunta.
La necessità di una riforma
Perciò dare al paese una nuova forma di governo con forte rafforzamento
del ruolo di vertice appare – a un puro osservatore, del tutto estraneo
alle forze politiche presenti in Italia – come la più ovvia ed urgente
riforma di cui c’è bisogno. La riforma-chiave. Qui, però, viene in
evidenza il radicale contrasto tra il bene pubblico rappresentato dallo
Stato e il particolarismo dei partiti del regime dei partiti, ciascuno
dei quali è necessariamente portato a considerare se stesso come il
massimo bene. I governi di coalizione non possono esprimere quella guida
lungimirante, coerente, rapida e incisiva che è richiesta dai tempi,
perché ciò potrebbe avvenire soltanto sacrificando gli interessi
particolari rappresentati ora da questo ora da quel partito della
coalizione. D’altra parte, è difficile per quei partiti giungere ad un
accordo effettivo per una riforma “presidenzialista”, perché un
presidente (governante) o un premier istituzionalmente forte
sacrificherebbero, all’occorrenza, i loro particolarismi. Peggio:
potrebbero oscurarne la presenza, renderla insignificante agli occhi
degli elettori. Accade anche oggi, in Italia. Berlusconi vede l’azione
del suo governo ritardata e indebolita dalla difesa, da parte dei
partiti alleati, della propria visibilità e degli interessi dei propri
elettori. Il progetto della Casa delle Libertà sulla forma di governo è
stato reso più debole del dovuto, in particolare per le istanze
leghiste, ed è inoltre contraddetto dalle levate di scudi ora di questo
ora di quel partito della coalizione, in ragione di quella visibilità e
di quei particolarismi. Anche da An, da sempre portatrice dell’idea
presidenzialista. D’altronde l’opposizione di centrosinistra s’oppone ad
ogni riforma che rafforzi il capo dell’esecutivo. Teme che faciliti la
campagna fortemente personalizzata di Berlusconi nel 2006, e che gli dia
maggiore forza di governo da quella data. A scapito dell’opposizione.
Perciò propone progetti di riforma alternativi, che renderebbero il
paese mal governabile, anche dal centrosinistra, se vincesse le
elezioni.
Qual è la riflessione ultima, suggerita da tutto ciò? La riforma di
ispirazione monocratica, “presidenzialista”, può essere decisa soltanto
da un Parlamento che, peraltro, è espressione del regime dei partiti. Ma
essa segnerebbe la fine di quel regime. Perciò è molto, molto difficile
da fare. Anche se corrisponde al pubblico interesse. E chi riuscisse a
compierla, farebbe al paese uno dei servizi più grandi della sua storia.
Ma tanto la riforma quanto l’eventuale esercizio di leadership di fronte
a prove che richiederebbero disciplina, anzi impegno unitario, sono resi
molto difficili da un’ulteriore circostanza: il senso deficiente di
“noità” e le differenti visioni del mondo, con pertinenti etiche, che
dividono il paese. Convergenti influenze culturali, di carattere
marxista o religioso, hanno predisposto masse intere e, in primo luogo,
i loro capi a orientarsi secondo astratti principi “universalistici”
(come la “fratellanza”, e la conseguente “solidarietà universale”) e,
semmai, verso entità altrettanto astratte e vaghe (come “l’umanità”), a
scapito della responsabilità verso la propria comunità storica e verso
la civiltà che ci accomuna ad altri paesi. Il macroscopico esempio più
recente è fornito dalla scelta del centrosinistra di pretendere il
ritiro degli occidentali dall’Iraq. Nonostante il probabile estendersi
dell’area dominata dall’islamismo. E il conseguente ricatto economico e
bellico-terroristico nei confronti di un’Europa sola e debole, poiché i
nostri fondamentalisti puntano anche sulla rottura con l’America,
indispensabile alla nostra difesa.
In una democrazia parlamentare multipartitica con le divaricazioni
culturali di cui si è detto alla base della lotta politica, la tendenza
alla personalizzazione della leadership di vertice si è ovviamente
manifestata innanzitutto al livello della tribù partitica, con Craxi,
Bossi, Pannella, per citare gli esempi forse più tipici. All’inizio
degli anni Novanta la sua influenza si è invece estesa, con Berlusconi,
a un vasto elettorato reso politicamente orfano dalla crisi dei partiti
e fortemente connotato dall’anticomunismo. Su Craxi e Berlusconi si
concentrerà dunque l’attenzione. Selettivamente, ossia soltanto per gli
insegnamenti durevoli che concernono la questione considerata in questo
articolo.
Leader all’italiana/1: l’era di Craxi
Il caso Craxi è il più interessante della prima fase di cui si è detto,
e va studiato a partire dagli intenti di fondo. Qui va innanzitutto
ricordato il progetto socialista d’una grande riforma, che – nel momento
di maggior fortuna, e ambizione – s’incentrava nell’idea della
repubblica presidenziale. Esso era ispirato da due intenti. Da un lato,
dare al paese un governo finalmente in grado di governarlo con efficacia
in aderenza alla qualità dei tempi. Dall’altro, portare al potere una
sinistra dominata da Craxi e dal suo partito, con relativa
subordinazione del partito comunista.
L’aspirazione ad un grande ruolo nazionale per il Psi presupponeva una
leadership personale nel partito, cosa affatto estranea alla tradizione
socialista. A quello scopo Craxi si costruì un solido sistema di
consenso e supporto al livello delle federazioni, riservandosi lo spazio
nazionale in cambio delle autonomie sul territorio. E cambiò, a poco a
poco, sia le regole sia la cultura e l’atteggiamento di fondo nel
partito. Il congresso di Verona del 1984 appare, per questo aspetto,
come una svolta significativa. Un nuovo statuto sostituiva il ristretto
comitato centrale, già sede di difficili battaglie, con una vastissima,
composita e manovrabile assemblea nazionale, che eleggeva la direzione.
Il segretario doveva essere eletto direttamente dal congresso. Ma la
rielezione di Craxi, quell’anno, ebbe luogo addirittura per
acclamazione, ossia in pura forma “plebiscitaria”. Ciò provocò
l’indignata reazione pubblica di Norberto Bobbio, appoggiato da De
Martino ed altri “vecchi” socialisti. Ma la nuova élite stretta intorno
al capo proclamò che quell’elezione rispondeva all’esigenza di alta
governabilità (personalizzata) del partito mentre analoga esigenza
s’imponeva al vertice del paese.
Va detto, tuttavia, che Craxi, come personalità, fu il principale autore
di quel mutamento diffuso che coinvolgeva nell’intimo i socialisti. La
sua “immagine pubblica” era ben definita, e costante. Craxi mostrava
stabilmente un atteggiamento sicuro, autorevole, spregiudicato e duro.
D’uomo che persegue la sua meta inarrestabilmente. Con una punta di
sprezzo per gli avversari, anche. E questo atteggiamento appunto egli –
sempre con l’aiuto di dirigenti anch’essi coinvolti – trasfuse nella
“base” stessa del partito. Liberando il partito dal “complesso di
inferiorità” nei confronti dei comunisti. «Restituendo l’orgoglio ai
socialisti», come si andava ripetendo. E, quindi, infondendo in ogni
istanza del partito intenti di rivalsa, volontà d’esser presenti e
contare in ogni ambito decisionale e presso l’opinione pubblica. Fino
all’eccesso, per riprendere un antico concetto greco.
Che questi spiriti abbiano portato ad atti spregiudicati oltre il
limite, e gli avversari – in primo luogo il Pci – abbiano potuto
approfittarne per ordire la distruzione di Craxi e del suo partito, non
toglie certo originalità e rilevanza all’esperimento socialista. Per un
giudizio politico su quelle deviazioni, d’altronde, bisogna considerare
che il disegno di conquistare forte e stabile potere – forse come capo
d’una repubblica presidenziale – sulla base d’un partito del 10 per
cento e di mediocre qualità, richiedeva necessariamente spregiudicatezza
ed azzardo in buona dose.
Si deve inoltre riconoscere che quell’ambizione era sorretta da un forte
sentimento nazionale. Craxi era un socialista erede della tradizione
riformista e, pertanto, del grande lascito risorgimentale. L’omaggio
alla tomba di Garibaldi e di altri eroi e martiri dell’indipendenza
italiana, e la collezione di cimeli, dichiaravano quella devozione. In
modo coerente egli aveva articolato la visione dei tempi e il progetto
politico. In funzione del pubblico interesse. Quest’uomo, assurto al
potere attraverso la lotta nel partito e a nome del partito, governò
come statista italiano, con la lungimiranza e il coraggio del vero
leader. La battaglia contro la scala mobile, con l’inflazione che ne
derivava, e la storica decisione di accogliere i missili americani
contro la minaccia d’una finlandizzazione dell’Europa ne sono prova.
Alla stessa stregua è stata generalmente valutata la ferma resistenza
alle richieste americane nell’episodio di Sigonella, discutibile da
altri punti di vista. Lo stesso si può dire del nuovo Concordato, che ha
rappacificato Chiesa e Stato, ma con conseguenze inintenzionali non
opportune dal punto di vista della tradizione laica, in cui il Psi si
collocava. Qui – sia detto per inciso – viene in evidenza una debolezza
di Craxi: non fu sempre capace di scegliersi i consiglieri e tantomeno
di costruirsi gruppi di studio e, al limite, think-tanks: necessari, i
primi come i secondi, a una moderna leadership, e tanto più quando essa
sia, come in questo caso, essenzialmente monocratica. E, forse, lui
stesso non studiò abbastanza certi grandi problemi della vita nazionale,
come appunto il rapporto Stato-Chiesa.
La tragica caduta di Craxi mostra invece come, nel regime dei partiti,
il capo d’un partito che assurga al ruolo di vero leader nazionale sia,
proprio per questo, destinato ad incontrare guerra a morte da parte
delle altre forze politiche, e specialmente, s’intende, da quelle più
minacciate. In quella guerra è venuta in evidenza, ancora una volta, la
frattura culturale e politica nel paese. Sezioni importanti della
popolazione sono consegnate al culto di astratti principi
“universalistici”. Un lungo predominio culturale, comunista e cattolico,
ha formato delle “mentalità” su cui ragione e buon senso difficilmente
incidono. Ne è parte essenziale il dogma che la verità (politica)
esiste, ormai rivelata, tutti la possono conoscere, chi afferma un’altra
verità è in malafede, è nemico del progresso verso la giusta società; e
come tale va trattato e, se possibile, messo in condizione di non
nuocere. Avere idee diverse, diventa dunque una colpa morale. Un
crimine. Su questo terreno culturale, crescono naturalmente la
denigrazione e la demonizzazione. Che, d’altronde, hanno radici
antichissime, addirittura nelle credenze animistiche rinverdite da
secolari credenze religiose e poi politiche, totalitarie.
La demonizzazione dell’avversario ha avuto in Italia precedenti di
rilievo, da Federico II a Garibaldi. Ma essa corrisponde naturalmente
alla composita cultura di cui si è detto, divenuta mentalità. E quindi
si è scatenata con la massima intensità contro Craxi. A darle impeto,
molto contribuiva l’immagine pubblica che si è evocata, l’atteggiamento
sicuro, aggressivo, un po’ sprezzante. “Arrogante”, secondo la versione
di chi l’odiava. Com’è proprio della dinamica politica in questione,
quelle stesse caratteristiche amate dai seguaci, che avevano
“risvegliato l’orgoglio socialista” e lo spirito socialista di
conquista, divennero il riferimento principale della demonizzazione di
Craxi da parte dei comunisti e di numerosi altri partecipi della
mentalità dominante. Nei fenomeni collettivi di quella natura via via la
capacità critica diminuisce e cresce violentemente la passione, in un
continuo processo dialettico: sicché il segretario socialista venne ad
incarnare letteralmente il Male, o il Maligno. Il solo suo nome
scatenava furie “morali”, senza bisogno di precise accuse, documentate,
e abbatterlo parve opera santa, da perseguire con qualunque mezzo. La
potenza della demonizzazione è dimostrata dal fatto che ancor oggi
persiste. Dai giornalisti di Repubblica, per esempio, lo stereotipo
tutto nero di Craxi è ancora aggressivamente riproposto, a ogni
occasione. E viene accanitamente contrastato ogni tentativo di
rivendicare i suoi meriti (contro la scala mobile, per lo schieramento
dei missili), o di rispolverare i progetti più interessanti. Come
quello, non attuato, del “partito aperto”, con struttura duale per far
posto ai single-issue movements e alle associazioni; o quello, mal
realizzato, d’una assemblea nazionale dei rappresentanti degli
“interessi sociali, culturali ed economici”. Che, insieme, anticipavano
il disegno razionale del partito moderno e, in specie, l’appropriato
sfruttamento delle intelligenze e delle competenze.
Leader all’italiana/2: il “fenomeno” Berlusconi
Analoghi fenomeni di denigrazione e demonizzazione si manifesteranno
d’altronde con altri leader di forte personalità e vasto seguito,
percepiti come minaccia radicale per gli interessi ideali e materiali di
forze culturali e politiche storicamente predisposte a quelle pratiche:
contro Bossi e Berlusconi, tipicamente.
Il Berlusconi che nel 1994 fonda ex novo un partito e vince le elezioni,
sbaragliando il solo grande sopravvissuto alla crisi del regime dei
partiti dominante dalla fine del conflitto, ossia il Pci divenuto Pds,
costituisce un fenomeno nuovo, che come tale da allora è stato ed è al
centro dell’attenzione da parte degli studiosi della politica, non solo
italiani, ma occidentali in genere. Trattando qui selettivamente del
“fenomeno Berlusconi” nella prospettiva della personalizzazione della
leadership, e con il senno di poi, si deve mettere a fuoco il primo,
fondamentale momento della sua storia. Ciò consente innanzitutto di
individuare nettamente il carattere base della sua novità nella sfera
politica. Che richiama, a livello teorico, l’analogia sviluppata da
Bertrand Russell tra potere e energia. Per la prima volta, nella
democrazia contemporanea, il potere e l’influenza accumulati in altra
sfera furono direttamente trasferiti nella sfera politica, come base di
una nuova forza di governo, altamente personalizzata. Non soltanto i
mezzi finanziari, ma anche le risorse organizzative, umane e tecniche
dell’impero economico di Berlusconi; e, last but not least, il suo
prestigio di grande imprenditore.
Gli studi generalmente concordano nel giudizio che la personalizzazione
fu l’idea chiave di tutta l’operazione, e del suo successo. In una prima
fase, Berlusconi e i suoi consiglieri studiarono la possibilità di un
nuovo partito, le sue eventuali caratteristiche, le strategie e (con
l’aiuto di polls) l’elettorato potenziale. Seguì la “discesa in campo”,
nettamente imperniata nell’uomo e nel suo messaggio, che lo diceva
portatore di “missione”: sconfiggere l’impendente minaccia del dominio
comunista e produrre una grande, moderna crescita del paese (garantita,
psicologicamente, dalla sua fortunata carriera di capitalista). Nel
contempo, elementi del complesso aziendale di Berlusconi procedevano
alla costruzione del partito (o “movimento”), secondo i piani. Migliaia
di “club”, ovunque nella penisola. Con tutta la necessaria struttura
simbolica. Il nome, “Forza Italia”, già carico di suggestione per la sua
storia sportiva. L’inno. I simboli. Gli slogan. E i riti: in primo luogo
la “convenzione” nazionale del partito, nella quale scenografia e regia
esaltarono iperbolicamente la personale leadership assoluta di
Berlusconi, presidente acclamato di quella nuova formazione politica
largamente innovatrice e dipendente, fin nei nomi usati, dalle
esperienze dell’azienda moderna. A Publitalia furono d’altronde affidate
anche la selezione e la preparazione dei candidati alle elezioni, in
gran parte gente nuova alla politica (il 95 per cento degli eletti
risultarono tali per la prima volta).
Dalla posizione di dominus del “movimento”, Berlusconi trasse due
vantaggi fondamentali. Primo, impersonò agli occhi dell’elettorato il
messaggio di cui si è detto. Con effetti di semplificazione, concretezza
e responsabilizzazione, che alimentarono la fiducia del vasto elettorato
potenziale. La sua speranza era ora investita in quell’uomo. Secondo,
grazie al suo potere monocratico nel nuovo movimento, riccamente dotato
e efficacemente strutturato, Berlusconi poté proporre, trattare e in
breve concludere un’alleanza elettorale (il “Polo”) con due formazioni
fin’allora incomunicanti, anzi in contrasto: la Lega di Bossi e Alleanza
nazionale, anch’esse, d’altronde, con un forte potere di vertice. Un
risultato strategico quasi impossibile per i tradizionali partiti dal
potere policefalo e dalle complesse liturgie deliberative. Nella
campagna elettorale, poi, Berlusconi impersonò Forza Italia e, anzi, –
disponendo di superiori mezzi e influenza tra il pubblico – l’intera
alleanza del Polo, che comprendeva le formazioni menzionate e altre
minori. La sua posizione di leader del Polo fu poi pubblicamente
legittimata dal primo dibattito – nella storia democratica d’Italia –
fra i capi dei due opposti schieramenti maggiori. Berlusconi contro
Occhetto (per i Progressisti). Ma la campagna di Forza Italia fu
caratterizzata, oltre che dalla altissima personalizzazione in
Berlusconi, anche da una drastica innovazione metodologica, grazie ai
mezzi, alle tecnologie e alle professionalità del patrimonio aziendale e
para-aziendale. Una campagna paradigmaticamente moderna, in cui ebbero
un ruolo essenziale i media, per far conoscere il volto del capo e il
nuovo “marchio” elettorale, e i polls, usati non solo per conoscere ma
anche per influenzare l’opinione pubblica (mediante esiti fortemente
favorevoli a FI e al leader). Al confronto, la campagna dei Progressisti
figurò come le vecchie “guerre delle fanterie”. Incentrata sul soggetto
collettivo, era principalmente affidata alla propaganda diretta di
migliaia di attivisti sul territorio, in supporto ai tradizionali
comizi, e all’abuso smaccatamente partigiano di alcuni canali della
radio-televisione pubblica. Abuso che, insieme alla violenza verbale,
minacciosa e demonizzante, di alcuni leader ex comunisti, provocò
effetti contrari alle intenzioni: accrescendo tra i ceti medi
l’avversione. Anzi, qualche leader (vedi D’Alema) ne uscì con
un’impronta addosso di demonizzazione da rimbalzo, che non è svanita.
La personalizzazione d’un movimento, tanto più nella campagna
elettorale, richiede l’attenta costruzione e conservazione (evolutiva)
dell’immagine pubblica del leader. A questo fine, la pretesa di una
missione da assolvere è molto importante. Presuppone in genere un’entità
trascendente – Dio, la Storia, il Destino – che la conferiscono. Ma la
certezza soggettiva della missione può a volte prescinderne. Sempre,
comunque, sussistono da parte del leader una “definizione” della
situazione e del da farsi, con il bisogno interiore di realizzarlo.
Da questa ferma convinzione, in qualche caso associata a un “fascino”
radicato nella natura e nella storia personale, derivano facilmente
effetti di suggestione. Anzi, la storia politica mostra come un siffatto
leader venga non di rado trasposto da masse intere in una dimensione
straordinaria, superiore, sicché può ottenere d’esser seguito con
acritica fiducia e ubbidienza. È questo il meccanismo riconosciuto della
leadership carismatica. In qualche modo, Berlusconi l’aveva capito; e,
d’altronde, questa parte gli era evidentemente congeniale. Certo l’ha
saputa giocare bene, con naturalezza, porgendo con suggestiva,
ottimistica e sorridente convinzione il suo messaggio, su sfondi
scenograficamente e simbolicamente del tutto congrui. Rilevando con
forza il carattere del tutto diverso (per personalità, storia e stile)
della sua nuova leadership. Fondata sul rapporto diretto (di
“identificazione”) con il suo elettorato, in opposizione alla tradizione
dei vecchi partiti oligarchici, che chiedevano al popolo un mandato
praticamente in bianco. Questa immagine pubblica è stata forse l’arma
più efficace. Certo la vittoria elettorale del 1994 è stata innanzitutto
una vittoria personale di Berlusconi. Come la vittoria del 2001, dopo
una campagna elettorale fatta con gli stessi schemi e gli stessi mezzi,
in base al “contratto con gli elettori”. Schemi e mezzi che hanno
caratterizzato anche la campagna delle elezioni europee 2004, combattuta
in condizioni assai meno propizie.
Il leader e la dialettica della coalizione
L’attacco demonizzante condotto contro Berlusconi premier dalla sinistra
e da parte della stampa estera, incentrato sul “conflitto di interessi”
e la legislazione ad hoc, o presunta tale, non ha per nulla avuto per il
governo i devastanti effetti previsti dai suoi nemici. Dimenticavano
(ancor oggi è riconosciuto da pochi) che Berlusconi era stato scelto da
un vasto elettorato in quanto impersonava efficacemente una comune
speranza, un progetto di ammodernamento e sviluppo basato
sull’individuo. Contro forze politiche che rappresentavano interessi
immobilistici, corporativistici, ed erano eredi di una tradizione e,
quindi, di una mentalità a dir poco non liberali. Il seguito di
Berlusconi era dunque mosso primariamente da motivi politici. Da
interessi materiali e ideali. A quelli restava fedele. La sorpresa e gli
anatemi degli oppositori, italiani e stranieri, per la tetragona
indifferenza dell’elettorato di Berlusconi alle loro accuse su temi del
tutto secondari rispetto al nocciolo della scelta politica, appaiono
perciò ingenui, anzi affatto impolitici.
Un leader portatore forte di una speranza, d’un progetto comune,
giungendo al governo può essere messo in difficoltà, ed anche abbattuto,
solo dall’insuccesso. Che, nel nostro caso, può essere prodotto da
fattori meramente strutturali. Cioè, da un sistema politico
contraddittorio. Accade infatti che il sistema italiano consenta la
personalizzazione della leadership al vertice del partito e il formarsi
di un vero “partito del leader”. Consente anche la personalizzazione
della campagna elettorale. Come si è visto con Berlusconi, appunto. Ma
il sistema (la legge elettorale, in primo luogo) permette una vera
personalizzazione della leadership di governo soltanto alla condizione,
molto improbabile, che il partito del leader ottenga la maggioranza
assoluta dei seggi. Cioè, impone governi di coalizione. Formati, oltre
che dal partito del leader, da altri partiti fatalmente soggetti a
quella che in una democrazia non compiutamente “con leader” è legge per
tutti i soggetti collettivi: garantire, in primo luogo, la propria
esistenza, favorendo le clientele elettorali e cercando costante
“visibilità”. A queste esigenze il progetto del leader a capo del
governo dev’essere fin dall’inizio adeguato, perdendo rigore; e, lungo
la via, ritardi e deviazioni sono imposti dalla “dialettica della
coalizione”. Ne deriva, per esempio, che corporazioni le quali
rappresentano un grave ostacolo all’ammodernamento del paese (come la
burocrazia pubblica o certi ordini professionali) non possono essere
ridisciplinate, e comunque non in tempi congrui con le esigenze dello
sviluppo e, perfino, della sicurezza nazionale. Insomma, la forza
innovativa della leadership personalizzata, al livello decisivo del
governo nazionale, viene resa vana dalla “dialettica della coalizione”.
A meno che la coalizione diventi fusione; ma anche questo superamento è
reso improbabile dallo spirito di conservazione che anima i partiti
tradizionali. Questo fenomeno, in tempi medi, viene inevitabilmente
percepito dal seguito elettorale come insuccesso. E perciò logora la
pubblica fiducia nel leader, logora la sua leadership. È questo il nodo
gordiano che Berlusconi deve tentare di sciogliere, per non perdere la
scommessa del potere. La logica della situazione induce ovviamente a
puntare sulla prospettiva d’una riforma costituzionale che assicuri al
paese un capo del governo che, con il suo esecutivo, possa veramente
governare in un tempo di grandi prove.
E qui bisogna riprendere brevemente il discorso sull’ostilità
dell’opposizione, che s’esprime – al di là dei controprogetti
costituzionali che renderebbero ancora più debole lo Stato – nelle
strategie adottate per le elezioni europee, in vista però delle
politiche del 2006. La scelta di Prodi come leader è stata un finto
adeguamento alla tendenza verso la personalizzazione: ossia alla
comprovata volontà dell’elettorato di arrogarsi la scelta di chi
governerà, togliendola ai partiti. Finto adeguamento, che realizzerebbe
l’intento di conservare ai partiti quel decisivo potere. Perché Prodi
non ha un suo “esercito”, anzi, ha alle spalle uno schieramento
composito e diviso su questioni essenziali per il paese. Sarebbe dunque
debole davanti ai partiti. Ai più forti, in specie. Inoltre Prodi ha
certo dei pregi personali, ma non sembra avere grandi qualità di
leadership. I sostenitori stessi, d’altronde, lamentano l’assenza di
“carisma”. E gli riconoscono vari shortcomings. L’equilibrismo
sconcertante tra carica europea e impegno politico in Italia.
L’incertezza e la contraddittorietà delle sue prese di posizione davanti
a questioni gravissime, come l’eventuale ritiro dei nostri soldati
dall’Iraq. Con la finale scelta elettoralistica per il “sì”, di cui si è
subito mezzo-pentito.
D’altronde esponenti diessini ammettono che l’adozione di Prodi come
leader del centrosinistra è dovuta al fatto che dietro a un loro leader
la coalizione verrebbe sconfitta, e invece con Prodi, cattolico e
quant’altro, si può sperare. Sperare di andare al potere. E, grazie a
lui, sconfiggere la personalizzazione della leadership mediante la sua
contraffazione. Poi affondare la riforma-chiave, di cui il paese ha
assoluto bisogno.
8 settembre 2004
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