L'allegro libertario 
        di Murray N. Rothbard 
        
        
        
      
        da Ideazione, maggio-giugno 2004 
         
        È tipico della Kultur americana non essere riuscita a capire H. L. 
        Mencken. E fu tipico di H. L. Mencken non preoccuparsene affatto, al 
        contrario, poiché ciò non faceva che confermare il suo giudizio sui 
        propri connazionali. Gli americani fanno fatica a concepire una fusione 
        di vivacità di spirito e attaccamento ai principi: o sei un umorista che 
        in maniera pungente o garbata mette in ridicolo le debolezze di 
        un’epoca, o sei un pensatore serio e austero. Pochi arrivano a 
        comprendere che un uomo di grande spirito possa essere, per certi versi, 
        ancor più attaccato alle idee e ai principi positivi; quasi sempre, lo 
        si etichetta semplicemente come cinico e nichilista. Questo fu, ed è 
        tuttora, il destino di H. L. Menchen, che però non si sarebbe aspettato 
        niente di diverso. 
         
        Oggigiorno qualsiasi individualista e libertario ha davanti a sé un duro 
        compito. In un mondo segnato, se non dominato, dalla follia, l’inganno e 
        la tirannide, egli può scegliere, se è dotato di capacità riflessive, 
        fra tre possibili linee di azione: 1) può ritirarsi dal mondo sociale e 
        politico per dedicarsi alle sue occupazioni o, come fece il primo socio 
        di Mencken, George Jean Nathan, rifugiarsi in un mondo di contemplazione 
        puramente estetica; 2) può cercare di migliorare il mondo, o quantomeno 
        formulare e diffondere le sue opinioni avendo in mente quella suprema 
        speranza; oppure, 3) può decidere di stare nel mondo divertendosi 
        immensamente allo spettacolo della sua follia. Colui che intraprende la 
        terza strada deve avere una personalità particolare e un particolare 
        giudizio del mondo. Deve essere innanzitutto un individualista con una 
        serena e inesauribile fiducia in se stesso, un “anticonformista” estremo 
        che non si vergogni né tremi all’idea di andare contro il giudizio del 
        branco. In secondo luogo, deve essere un amante della vita e dello 
        spettacolo che essa offre, un individualista con un grande attaccamento 
        per la libertà e l’eccellenza individuale che tuttavia può – in virtù 
        del medesimo attaccamento alla verità e alla libertà – apprezzare e 
        satireggiare una società che ha voltato le spalle a quanto di meglio 
        possa raggiungere. Deve essere, infine, profondamente pessimista sulla 
        possibilità di cambiare e riformare le idee e le azioni della grande 
        maggioranza dei suoi simili; deve credere che il boobus Americanus sia 
        destinato a restare boobus Americanus per sempre. Sommiamo insieme 
        queste caratteristiche, e non siamo molto lontani dallo spiegare la 
        strada intrapresa da Henry Louis Mencken. 
         
        Mencken aveva, ovviamente, anche altre qualità: un gusto sconfinato, un 
        umorismo brillante, una conoscenza dotta e sensibile di molti campi del 
        sapere, un entusiasmo per gli eventi salienti del mondo di ogni giorno 
        che faceva di lui un giornalista nato. Nonostante questa sua passione 
        onnivora per le discipline intellettuali, non era tagliato per elaborare 
        rigorosi sistemi di pensiero – ma in fin dei conti, quanti lo sono? 
         
        Individualista sereno e fiducioso, dedito alla competenza e 
        all’eccellenza e profondamente attaccato alla libertà – pur essendo 
        convinto che la maggior parte dei suoi simili fosse ridotta male – Henry 
        Louis Mencken si ritagliò un ruolo unico nella storia americana: 
        lanciandosi allegramente nella mischia, stroncava la falsità e 
        l’ottusità da cui si vedeva circondato, scoppiava i palloni della 
        pomposità, puliva le stalle di Augia dall’ipocrisia, l’assurdità e i 
        cliché, «gettava», come egli stesso affermò una volta, «il gatto morto 
        nel tempio» per mostrare agli sconcertati veneratori del vacuo che non 
        sarebbe morto fulminato. E nell’assolvere a questo compito, raramente 
        intrapreso in qualsivoglia epoca – e svolto esclusivamente per il suo 
        divertimento – egli esercitò un’immensa forza liberatoria sulle menti 
        più brillanti di un’intera generazione. 
         
        Una delle cose che più piacevano a Mencken e alle quali riusciva a non 
        mancare quasi mai, erano le assemblee presidenziali. Qui, in maniche di 
        camicia, tracannando birra, si tuffava tra la folla rauca e brulicante, 
        nell’allegria, la vacuità e l’eccitazione del grande processo politico 
        americano, prendendo parte al divertimento pur vedendone tutta 
        l’assurdità. Dopodiché scriveva ciò a cui aveva assistito, stroncando la 
        falsità, l’ipocrisia e la totale insensatezza dei governanti in azione. 
        Chiunque si immergesse realmente in Mencken non poteva più essere lo 
        stesso; non poteva conservare la fiducia negli “statisti” o nel processo 
        politico democratico; non poteva più credere ciecamente a ogni sorta di 
        impostura politica, sociale o ideologica, e neppure tornare a ignorare 
        il nonsenso dilagante. 
         
        La minoranza della minoranza 
         
        La forza liberatoria di Mencken non si esercitava ovviamente sulla 
        massa, bensì sui rari e isolati individui intelligenti in grado di 
        apprezzare il suo messaggio ed esserne influenzati; insomma, come il suo 
        vecchio amico e collega libertario Albert Jay Nock, Mencken scriveva per 
        (e affrancava) la “minoranza” in grado di capire. Se lo stile esprime 
        l’uomo, l’impatto deflagrante della scrittura di Mencken non fu l’ultimo 
        degli atti liberatori da lui compiuti. Studioso della lingua inglese – o 
        meglio americana – aveva un amore per il linguaggio, la precisione e la 
        chiarezza della parola, e un attaccamento al proprio mestiere, di cui 
        pochi scrittori hanno dato prova. Il celebre critico e saggista Joseph 
        Wood Krutch non utilizzò un’iperbole quando definì Mencken «il più 
        grande prosatore del Ventesimo secolo»; anche questo aspetto, tuttavia, 
        è stato misconosciuto, essendo gli americani generalmente incapaci di 
        prendere sul serio uno scrittore brillante. 
         
        La tragedia – per noi, non per Mencken – è che neanche la “minoranza” 
        capiva; la maggior parte dei suoi presunti sostenitori cadeva nello 
        stesso errore che facevano tutti gli altri ritenendo che umorismo e 
        serietà di intenti non potessero andare di pari passo; abbagliati 
        dall’arguzia dello scrittore, essi non coglievano i valori positivi che 
        sarebbero dovuti emergere in maniera evidente dalla sua opera. E così 
        quelli che si unirono allegramente a Mencken nel mettere in ridicolo la 
        bigotteria, il proibizionismo e la “lega anti-saloon”, i puritani e la 
        moralizzazione degli anni Venti, lo abbandonarono in seguito per 
        appoggiare la rafforzata moralizzazione e i più esaltati puritani degli 
        anni Trenta. Quelli che avevano dileggiato i rimedi miracolosi della 
        politica degli anni Venti approvarono con prontezza e coraggio le ben 
        più perniciose ricette delle politiche del New Deal. Quegli stessi 
        menckeniani che avevano visto con chiarezza l’assurdità del 
        coinvolgimento americano nella prima guerra mondiale, senza alcuna 
        esitazione né traccia di umorismo battevano chiassosamente la grancassa 
        per l’ugualmente o ancor più insensato intervento nella seconda. 
        L’incapacità dimostrata dai sedicenti seguaci di Mencken di comprendere 
        il suo “messaggio” (concetto che egli avrebbe aborrito), lungi dal 
        rattristarlo, non fece che confermare il suo giudizio sulla diffusione 
        della “booboisie”, che, tuttavia, era una calamità per il paese. 
         
        Se Mencken non era un nichilista, quali erano allora i valori positivi 
        in cui credeva? Mencken aveva un’enorme dedizione per il suo mestiere di 
        redattore, giornalista e linguista, che si rifletteva a sua volta in un 
        profondo individualismo e nella conseguente passione per l’eccellenza 
        individuale e la libertà personale. Amava molto la musica. Nutriva un 
        interesse, forse eccessivo, per la scienza, il metodo scientifico e 
        l’ortodossia medica; l’interesse per la scienza aprì la strada a un tipo 
        di determinismo meccanicistico che contribuì senz’altro a forgiare il 
        suo pessimismo sulla possibilità di cambiare le idee e l’agire degli 
        uomini. 
         
        L’individualismo diffuso che caratterizzava la Weltanshauung di Mencken 
        conferiva una coerenza – misconosciuta – alle sue opinioni, 
        sistematizzando le sue scorrerie frammentarie e superficiali in numerosi 
        campi. Prendiamo ad esempio un ambito all’apparenza “non politico” come 
        quello della musica folk. Non è un caso che, nel nostro secolo, sia la 
        sinistra socialista che la destra nazionalista – entrambe nemiche 
        dell’individualismo – abbiano fatto di questo genere “popolare” una 
        sorta di feticcio. L’ineguagliabile recensione del libro Poetic Origins 
        and the Ballad, scritto da Louise Pound, offrì a Mencken l’occasione di 
        entrare nel vivo dell’argomento: «Il libro della dottoressa Pound 
        demolisce completamente la teoria su cui si basano i nove decimi delle 
        discussioni pedagogiche sulla ballata e le sue origini. Secondo tale 
        teoria, le ballate a noi tutti note […] sarebbero prodotte non già da 
        singoli autori, ma da orde di minnesinger riuniti insieme […] in 
        sintesi, i primi compositori di ballate si unirono dapprima in una goffa 
        danza, poi intonarono un motivetto e infine ci aggiunsero le parole. È 
        difficile immaginare qualcosa di più insensato, eppure intere torme di 
        professori considerano questa dottrina pressoché sacra e la inculcano 
        ogni anno nella testa di innumerevoli dottorandi. La dottoressa Pound 
        dimostra […] che le ballate non avevano affatto tale origine, ma erano 
        scritte, al contrario, da singoli poeti di talento […] e che la maggior 
        parte di esse non videro la luce in volgari banchetti organizzati nel 
        parco del paese, bensì in eventi alla moda e persino intellettuali come 
        le feste della birra tenute nei saloni dei castelli. 
         
        Il concetto secondo cui qualsiasi opera d’arte rispettabile può avere 
        un’origine collettiva è completamente insensato. La gente comune, 
        nell’insieme, non è capace di un impulso estetico coerente, come non lo 
        è di coraggio, onestà o onore. Le cattedrali medioevali non furono 
        progettate e costruite da intere comunità bensì da singoli individui; e 
        l’unico contributo fornito dalle comunità era il lavoro duro, eseguito 
        malvolentieri e in modo spesso scadente. Lo stesso vale per le canzoni 
        folk, il mito folk, le ballate folk. […] La canzone popolare tedesca […] 
        è stata generalmente ricondotta a un misterioso talento innato dei 
        contadini tedeschi, ma gli studi hanno rivelato che alcuni dei brani 
        considerati particolarmente rappresentativi dello spirito folk furono 
        scritti in realtà dal direttore musicale dell’Università di Tubingen, il 
        professor Friedrich Silcher […]. 
         
        Lo stesso ragionamento si applica alle ballate inglesi. La dottoressa 
        Pound mostra come alcune tra le più famose, nelle loro forme originarie, 
        siano dense di frasi e concetti che ai contadini inglesi dell’epoca 
        elisabettiana sarebbero risultati incomprensibili quanto la teoria di 
        Ehrlich sull’immunità; sarebbe del tutto assurdo, insomma, immaginare 
        che a comporle sia stata una banda di zotici urlanti impegnati a 
        galoppare attorno al Maypole o solennemente riuniti in un Eisteddfod o 
        in una Allgemeinesagerfest. [La studiosa] spiega inoltre l’attuale 
        processo compositivo della ballata, ovvero come una canzone di Paul 
        Dresser o Stephen Foster sia presa a prestito dal popolo e poi 
        gradualmente svilita». 
         
        Il mito di Mencken come nichilista dissacratore ha pervaso la critica 
        letteraria; fu quindi con sorpresa e ammirazione che il celebre critico 
        Samuel Putnam lesse la grande raccolta di composizioni brevi, scelte e 
        curate dallo stesso Mencken, intitolata The Mencken Chrestomathy. In una 
        acuta recensione, Putnam scrisse che Mencken era evidentemente un 
        “anarchico tory”, definizione che riassume egregiamente la visione del 
        mondo da lui sostenuta per tutta la vita. 
         
        Mencken era spinto dalla passione per la libertà individuale. Una volta 
        dichiarò solennemente al suo buon amico Hamilton Owens: «Io credo in una 
        sola cosa: la libertà umana. L’uomo può sperare di conquistare una 
        parvenza di dignità solo se agli uomini superiori viene data la libertà 
        assoluta di pensare e dire ciò che vogliono. Sono contrario a qualsiasi 
        uomo e organizzazione cerchi di limitare o negare quella libertà […] [e] 
        l’uomo superiore può essere certo della libertà solo se essa viene 
        concessa a tutti gli uomini». In un’altra occasione, Mencken affermò di 
        credere nella libertà individuale assoluta «fino al limite 
        dell’insostenibile, e anche oltre». In Addendum on Aims, mai dato alle 
        stampe, si espresse nei seguenti termini: «Sono un libertario estremo e 
        credo nella libertà di parola assoluta. […] Sono contrario a 
        imprigionare gli uomini per le loro opinioni o, in quanto a ciò, per 
        qualsiasi altro motivo». E in una lettera a uno dei suoi biografi, 
        Ernest Boyd, Mencken scrisse: «Per quanto mi riguarda, credo in una sola 
        cosa: la libertà. Ma non credo abbastanza nella pari libertà da volerla 
        imporre a chiunque. Insomma, non sono affatto un riformatore, per quanto 
        possa sbraitare contro questo malessere o quella grande sciagura. Nel 
        mio sbraitare c’è in genere molto più diletto che indignazione». 
         
        La Chrestomathy contiene alcune brillanti osservazioni su quella che 
        Mencken definiva “l’intima natura” del governo: «Qualsiasi governo, 
        nella sua essenza, è una cospirazione contro l’uomo superiore; il suo 
        obiettivo costante è quello di opprimerlo e paralizzarlo. Se è un 
        governo aristocratico, cerca di proteggere l’uomo che è superiore solo 
        per la legge dall’uomo che è superiore nei fatti; se è un governo 
        democratico, allora cerca di proteggere l’uomo che è inferiore sotto 
        ogni aspetto da entrambi. Una delle sue funzioni primarie è quella di 
        irreggimentare gli uomini con la forza, di renderli più simili e più 
        reciprocamente dipendenti possibile, cercando di rintracciare e 
        combattere qualsiasi elemento di originalità tra di essi. In un’idea 
        originale vede solo un cambiamento potenziale, e quindi una violazione 
        delle sue prerogative. L’uomo più pericoloso, per qualsiasi governo, è 
        quello che è in grado di pensare con la propria testa, senza tener conto 
        delle superstizioni e dei tabù dominanti. Quasi inevitabilmente, costui 
        giunge alla conclusione che il governo sotto il quale vive è sleale, 
        insensato e intollerabile e pertanto, se è un sognatore, cerca di 
        cambiarlo. E anche se non è personalmente un sognatore, è proclive a 
        diffondere il malcontento tra coloro che lo sono […]». 
         
        «L’uomo comune, nonostante i suoi errori, vede quantomeno con chiarezza 
        che il governo è qualcosa che sta al di fuori di lui e della maggioranza 
        dei suoi simili – un potere distinto, separato e spesso ostile, che solo 
        in parte controlla e da cui può essere gravemente danneggiato. Nei 
        momenti romantici, può considerarlo un padre benevolo o persino una 
        sorta di jinn o di divinità, ma non lo sente mai come una parte di sé. 
        Nei momenti difficili si rivolge a esso affinché compia miracoli a suo 
        beneficio; altre volte lo vede come un nemico con cui deve lottare 
        costantemente. Non è forse significativo che derubare il governo sia 
        considerato ovunque meno grave che derubare un individuo? […]». 
         
        «Dietro tutto questo, credo, si nasconde la profonda consapevolezza del 
        fondamentale antagonismo tra il governo e il popolo che esso guida. Il 
        governo non è visto come un comitato di cittadini scelti per gestire gli 
        affari comuni di tutta la popolazione, bensì come una corporazione 
        distinta e autonoma, interessata soprattutto a sfruttare la popolazione 
        a vantaggio dei propri membri. Rubare al governo è quindi un atto quasi 
        privo di infamia [...]. Quando un privato cittadino viene derubato, un 
        individuo meritevole viene privato dei frutti del suo lavoro e 
        risparmio; quando il governo viene derubato, il peggio che possa 
        accadere è che certi furfanti e perdigiorno abbiano meno soldi da 
        maneggiare rispetto a prima. Il concetto che abbiano guadagnato quel 
        denaro non viene mai preso in considerazione: ai più intelligenti 
        apparirebbe grottesco. Essi sono semplici mascalzoni che, per 
        circostanze di legge, hanno un diritto per certi versi dubbio a una 
        quota dei guadagni dei loro simili. Quando quella quota viene diminuita 
        dall’impresa privata, l’attività è, complessivamente, di gran lunga più 
        meritevole».
        «Questo clan 
        è pressoché esente da punizioni. Le sue peggiori estorsioni, anche 
        laddove siano compiute esplicitamente a vantaggio privato, non 
        comportano pene certe secondo le nostre leggi. Da quando è nata la 
        Repubblica, meno di una dozzina dei suoi membri sono stati messi in 
        stato di accusa, e solo qualche oscuro sottoposto è stato condannato al 
        carcere. Il numero di uomini rinchiusi ad Atlanta e Leavenworth per aver 
        protestato contro le estorsioni del governo è sempre dieci volte 
        maggiore del numero di funzionari governativi condannati per aver 
        oppresso i contribuenti a loro profitto. […] Nel mondo non ci sono più 
        cittadini, ma solo sudditi che lavorano ogni santo giorno per i padroni 
        e sono destinati a morire per loro in servizio. […] In un futuro 
        luminoso, tra un’era geologica o due, essi arriveranno al limite della 
        sopportazione […]». 
         
        Mencken aveva scarsa fiducia nella capacità delle rivoluzioni di attuare 
        un sovvertimento nell’interesse della libertà: «Le rivoluzioni politiche 
        realizzano raramente qualcosa di realmente valido; il loro effetto 
        indiscusso è semplicemente quello di buttare fuori una banda di ladri e 
        metterne dentro un’altra. Dopo una rivoluzione, naturalmente, i 
        rivoluzionari vittoriosi cercano sempre di convincere gli scettici di 
        aver compiuto grandi cose, e di solito impiccano chiunque lo neghi. Ma 
        questo non conferma di certo la loro tesi». Questa combinazione di 
        dottrina libertaria e scarsa fiducia nella possibilità di realizzarla fu 
        sintetizzata da Mencken nei seguenti termini: «Il governo ideale di 
        tutti gli uomini pensanti […] è quello che lascia in pace l’individuo, è 
        un governo che quasi non è un governo. Questo ideale, credo, si 
        realizzerà nel mondo venti o trenta secoli dopo che io sarò uscito di 
        scena e avrò assunto le mie funzioni pubbliche all’Inferno». 
         
        Benessere pubblico e interessi privati 
         
        Mencken vedeva con chiarezza la fallacia insita nel credere che i 
        funzionari governativi fossero motivati unicamente dal benessere 
        pubblico: «Raramente, per non dire mai, costoro sono davvero animati da 
        qualcosa di razionalmente descrivibile come spirito pubblico; in loro 
        non vi è più spirito pubblico di quanto non ve ne sia in tanti ladri di 
        appartamenti o passeggiatrici. Il primo, ultimo e costante obiettivo che 
        si prefiggono è quello di promuovere il loro interesse privato e a 
        questo fine – e a questo fine soltanto – esercitano i vasti poteri che 
        detengono. […] Qualsiasi cosa cerchino – sicurezza, maggiore agiatezza, 
        più denaro o più potere – deve provenire dal patrimonio comune, il che 
        diminuisce la quota di tutti gli altri. Dare lavoro a un nuovo impiegato 
        riduce il salario di ogni salariato del paese. […] Dare più potere a un 
        impiegato toglie qualcosa alla libertà di tutti noi […]». 
         
        Mencken continua a commentare la natura del governo cercando di porre un 
        freno alle sue intrusioni: «Provoca forse un riso amaro il fatto che il 
        Bill of Rights sia stato fiduciosamente ideato per proibire per sempre 
        due dei reati preferiti da tutti i governi noti: la confisca della 
        proprietà privata senza adeguato compenso e l’invasione della libertà 
        dei cittadini senza giusta causa. […] Provoca un riso ancor più amaro il 
        fatto che l’attuazione di queste proibizioni sia stata messa in mano ai 
        tribunali, ovvero in mano agli avvocati, ovvero in mano a uomini 
        istruiti appositamente per individuare le giustificazioni legali ad atti 
        antisociali, disonorevoli e disonesti». 
         
        Una delle principali forze che impedisce di tenere sotto controllo la 
        tirannide governativa – sottolinea Mencken – è la credulità delle masse: 
        «Lo Stato non è solo forza. Esso dipende tanto dalla credulità dell’uomo 
        quanto dalla sua docilità. Il suo scopo non è semplicemente quello di 
        farlo obbedire, ma anche quello di farlo obbedire volentieri». Qualche 
        volta il governo è utile? Ecco la risposta di Mencken: «Quanto lo è un 
        dottore. Ma cosa accadrebbe se il caro collega rivendicasse il diritto, 
        ogni volta che fosse chiamato a curare un mal di pancia o un fischio 
        nelle orecchie, di razziare l’argento di famiglia, utilizzare gli 
        spazzolini da denti dei suoi membri e applicare il droit de seigneur 
        sulla cameriera?». 
         
        Né, del resto, Mencken preferiva alla burocrazia civile la casta dei 
        militari: «La casta dei militari non ebbe origine da un gruppo di 
        patrioti, bensì da un manipolo di banditi. I primi capi dei banditi 
        finirono col diventare re. Il militare di professione ha mantenuto in 
        parte il carattere del bandito. Egli può battersi in maniera coraggiosa 
        e altruista, ma lo fanno anche i galli da combattimento. Può non essere 
        in cerca di ricompense materiali, ma lo stesso vale per i cani da 
        caccia. Il suo atteggiamento mentale è sciocco e antisociale. Fu un sano 
        istinto dei padri fondatori quello di subordinare i militari 
        all’autorità civile. A onor del vero, l’autorità civile si compone in 
        larga parte di mascalzoni politici, ma almeno loro si distinguono dai 
        militari per l’atteggiamento e gli obiettivi». 
         
        Nessuno era in grado di rivaleggiare con Mencken in quelli che lui 
        definiva “voli utopistici” – esilaranti e imponenti progetti per la 
        riforma libertaria del governo o della società in genere. Così, in un 
        articolo scritto nel 1924, ovvero prima – precisava – «che il New Deal 
        affliggesse il paese con una quantità di nuovi norme amministrative e 
        impiegati supertirannici», Mencken proponeva una penetrante riforma del 
        nostro sistema di diritto amministrativo. Lo scrittore esordisce dicendo 
        che «nelle immorali monarchie del continente europeo, ora fortunatamente 
        abolite per volontà di Dio, c’era, nei giorni del peccato, un modo 
        intelligente ed efficace di trattare i funzionari delinquenti». Essi 
        erano sottoposti, continua, non solo al codice penale ordinario, ma 
        anche a organi giudiziari speciali per «reati […] peculiari ai loro 
        uffici». La Prussia, ad esempio, aveva un tribunale in cui qualsiasi 
        cittadino era libero di denunciare un funzionario. C’erano diversi modi 
        per punire un funzionario colpevole: si poteva costringerlo a risarcire 
        un cittadino perseguitato ingiustamente, rimuoverlo dalla carica e/o 
        mandarlo in prigione. «Se in quella remota epoca di dispotismo un 
        giudice prussiano, sopraffatto da un attacco di passione kaiserliche, 
        avesse compiuto uno qualsiasi degli atti autoritari e irrazionali che i 
        nostri giudici, federali e statali, compiono quasi ogni giorno, un 
        cittadino leso avrebbe potuto convocarlo davanti al tribunale 
        amministrativo e ottenere da lui ingenti risarcimenti […]». La legge, 
        inoltre, «stabiliva esplicitamente che i funzionari responsabili 
        dovessero essere puniti non con più clemenza, bensì con più severità dei 
        trasgressori ordinari o subordinati. Se un poliziotto corrotto prendeva 
        sei mesi, un capo di polizia corrotto veniva condannato a due anni. Per 
        di più, questi statuti venivano applicati con brutalità prussiana; e le 
        prigioni erano costantemente piene di funzionari erranti». 
        Mencken 
        aggiunge di non voler – «ovviamente» – applicare il sistema prussiano 
        agli Stati Uniti: «In effetti, il sistema prussiano si sarebbe 
        probabilmente rivelato inefficace nella Repubblica, se non altro perché 
        comportava la creazione di una banda di impiegati preposta a giudicarne 
        e punirne un’altra. La cosa funzionò alla perfezione in Prussia prima 
        che il paese fosse civilizzato dalla forza delle armi, dato che, come 
        tutti sanno, i funzionari prussiani erano educati nella ferocia fin 
        dall’infanzia e ritenevano ogni persona incriminata, che si trattasse di 
        un collega o meno, colpevole ipso facto; essi rifiutavano il pensiero 
        della possibile innocenza di un prigioniero in quanto si ripercuoteva 
        negativamente sulla Polizei e, per deduzione, sul Trono, sull’idea di 
        monarchia e su Dio. In America, invece […], il giudice e il detenuto 
        sarebbero spesso colleghi democratici o repubblicani, e quindi entrambi 
        interessati a proteggere il loro partito dallo scandalo e i suoi membri 
        dalla perdita del posto di lavoro». 
         
        «Quel che serve», concludeva lo scrittore, «è un sistema che a) non 
        affidi il suo funzionamento alla buona volontà degli impiegati e b) che 
        assegni punizioni rapide, certe ed efficaci, nonché perfettamente 
        commisurate al reato». La ricetta proposta da Mencken prevede che «ogni 
        [cittadino] […] che esaminando gli atti di un impiegato l’abbia trovato 
        colpevole, possa punirlo istantaneamente e sul posto, in qualsiasi 
        maniera gli sembri appropriata e conveniente; e che, nel caso in cui la 
        punizione implichi lesioni fisiche all’impiegato, la conseguente 
        inchiesta del gran jury o del coroner debba limitarsi strettamente a 
        stabilire se l’impiegato meritasse ciò che ha ricevuto. In altre parole, 
        propongo che non vi sia malum in se se un cittadino prende a pugni, a 
        calci o a mazzate, frusta, taglia, ferisce, pesta, storpia, brucia, 
        bastona sulla pianta dei piedi, scuoia o persino lincia un impiegato, e 
        che vi sia malum prohibitum solo nella misura in cui la punizione supera 
        ciò che l’impiegato meritava. L’entità di tale eccesso, qualora vi 
        fosse, potrà essere determinata in maniera idonea, come ora avviene per 
        altri reati, da un petit jury. […] Se quest’ultimo decide che 
        l’impiegato merita la punizione inflittagli, il cittadino che l’ha 
        applicata è assolto con onore; se invece stabilisce che la punizione era 
        eccessiva, il cittadino sarà giudicato colpevole di aggressione, grave 
        mutilazione, omicidio o altro, in proporzione alla differenza tra ciò 
        che l’impiegato meritava e ciò che ha avuto, e la punizione per 
        quell’eccesso seguirà il normale corso […]».  
         
        «I vantaggi di questo sistema, credo, sono troppo evidenti per essere 
        oggetto di discussione. In un colpo solo, esso rimuove tutti gli 
        impedimenti legali che ora rendono la punizione di un impiegato sleale 
        un processo impossibile. […] Mettiamo che oggi un cittadino giunga alla 
        conclusione che un certo giudice è un asino, la sua preparazione 
        giuridica carente, il suo senso della giustizia atrofizzato e la 
        conduzione dei suoi casi tirannica e contro ogni decenza. Per come 
        stanno attualmente le cose, non c’è niente che si possa fare. […] Né 
        servirebbe a nulla denunciarlo pubblicamente e sollecitare tutti i 
        cittadini a votare contro di lui quando si presentasse per essere 
        rieletto perché il suo mandato potrebbe durare ancora dieci o quindici 
        anni, e se pure scadesse domani e lui venisse sconfitto, vi sarebbero 
        buone probabilità che il suo successore sia altrettanto pessimo se non 
        addirittura peggiore». 
         
        «Immaginiamo invece che qualsiasi cittadino sia libero di avvicinarlo in 
        pubblica udienza e tirargli il naso. O anche, nei casi più gravi, di 
        tagliargli le orecchie, buttarlo fuori dalla finestra o dargli 
        un’accettata in testa. Quanto sarebbe più immensamente scrupoloso nei 
        suoi compiti! Con quanta diligenza si applicherebbe allo studio del 
        diritto! Quanto sarebbe attento ai diritti dei contendenti che ha di 
        fronte!»11. 
        Mai la preoccupazione di Mencken per la difficile situazione 
        dell’America e per la virtuale immunità concessa ai suoi despoti, venne 
        espressa con l’umorismo e l’amara ironia presente nell’articolo “The 
        Nature of Liberty”, scritto nei primi anni Venti ma tutt’altro che 
        datato. Il tema è quello della polizia contro il singolo cittadino. 
        Mencken esordisce ironicamente: «Ogni volta che un dipendente del corpo 
        di polizia, nell’adempimento dei suoi giusti e grandiosi poteri sotto la 
        legge americana, produce in un cittadino in sua custodia una frattura 
        composta della nuca, con conseguente emorragia, shock, coma e morte, 
        giunge una flebile protesta in falsetto da parte di specialisti della 
        libertà umana». «È forse privo di significato», continua Mencken, «che 
        questa protesta non sia mai supportata dalla grande massa degli uomini 
        liberi americani, lasciando da parte gli eredi e i creditori della 
        vittima? Credo di no». Perché la gente normale sa che i poliziotti sono 
        dotati di manganelli «per rompere il cranio ai recalcitranti, 
        democratici e repubblicani». 
         
        Lo sviluppo della società capitalista 
         
        Risulta quindi evidente, continua a ironizzare Mencken, che questa 
        minoranza di intellettuali preoccupati delle libertà civili e dei 
        diritti individuali ai danni della polizia, è composta di sovversivi e 
        antiamericani: «Gli specialisti sopraccitati sono gli stessi fanatici 
        che riempiono l’aria di singhiozzi ogni volta che il ministro delle 
        Poste americano vieta la corrispondenza di un periodico perché non gli 
        piacciono le sue idee, che un povero russo viene deportato per aver 
        letto Karl Marx, che un funzionario preposto a far applicare la legge 
        sul proibizionismo uccide un contrabbandiere che rifiuta di pagargli la 
        mazzetta, che gli agenti del ministero della Giustizia gettano un 
        italiano fuori della finestra, o che il Ku Klux Klan o la Legione 
        americana cospargono di catrame e poi ricoprono di piume un predicatore 
        evangelico socialista. Insomma, sono radicali, e se uno scortica una 
        persona con un forcone per loro è un bolscevico. Quegli uomini 
        disprezzano le istituzioni americane e sono nemici dell’idealismo a 
        stelle e strisce […]». 
         
        «Ciò che più li tormenta è […] che […] conoscendo a fondo […] i principi 
        teorici espressi nel Bill of Rights, essi sono fermamente convinti che 
        quei principi siano identici alle norme del diritto e della giustizia e 
        debbano essere applicati alla lettera, senza il minimo riguardo per le 
        circostante e l’opportunità».  
         
        Essi non capivano, aggiunge Mencken, che il Bill of Rights 
        originariamente «adottato dai padri della Repubblica […] era semplice, 
        rozzo, idealistico, vagamente fantasioso e metafisico. Specificava i 
        diritti di un cittadino, ma non diceva nulla sui suoi doveri. Da allora, 
        gli ordinati processi della scienza legislativa e gli strumenti ancor 
        più incredibili e raffinati dell’arte giuridica lo hanno modificato, 
        facendolo diventare molto più flessibile e sensato. Da un lato, il 
        cittadino conserva il grande privilegio di essere membro della più 
        splendida nazione libera che sia mai esistita sulla Terra. Dall’altro, 
        le sue brame e appetiti naturali sono tenuti mirabilmente sotto 
        controllo da leggi avvedute e decisioni sagaci, che lo fanno vivere 
        nell’ordine e nel decoro. […] Una volta poliziotto, è protetto dalle 
        armi legislative e giudiziarie relative alle prerogative peculiari che 
        si accompagnano alla sua alta carica, tra cui in particolare il diritto 
        di sbattere in galera i laici a suo piacimento, di sfruttarli e 
        aggredirli, di sottoporli al terzo grado, e di vincere la loro 
        resistenza dandogli una sonora lezione. Chiunque sia all’oscuro di ciò 
        ignora i principi basilari della giurisprudenza americana, esposti 
        innumerevoli volte dai tribunali di prima istanza e ratificati in 
        termini elevati dalla Suprema Corte degli Stati Uniti». 
         
        I devoti servigi resi da Mencken alle libertà civili e il suo opporsi 
        alla censura in qualità di redattore dell’American Mercury sono troppo 
        noti per tornare a parlarne in questa sede. Meno conosciuta è invece la 
        sua penetrante analisi del mito di Justice Holmes come grande libertario 
        civile nelle sue opinioni discordanti. «È impossibile immaginare che […] 
        [le sue idee] possano promuovere la libertà», osservava acutamente 
        Mencken. Considerarlo un sostenitore dei diritti dell’uomo era 
        fuorviante: al contrario, «egli non era che un difensore dei 
        legislatori. Qui sta in effetti la chiave di tutta la sua 
        giurisprudenza. [Secondo Holmes], gli organismi legislativi dovevano 
        essere liberi di sperimentare quasi ad libitum, i tribunali non dovevano 
        interromperli finché non avessero superato gli estremi limiti della 
        ragione, e tutto doveva essere sacrificato alla loro autonomia, 
        compreso, a quanto pare, il Bill of Rights. Se questo è il liberalismo, 
        posso dire soltanto che è cambiato rispetto a quando ero giovane». 
         
        Mencken non aveva un particolare interesse per i temi economici, ma 
        vedeva con chiarezza che il capitalismo, conseguenza della libertà 
        individuale nella sfera economica, costituiva il sistema economico più 
        razionale e produttivo. Egli osteggiava accanitamente il New Deal in 
        quanto anticapitalista e antilibertario. Del capitalismo, Mencken 
        scrisse: «Gli dobbiamo quasi tutto ciò che oggi va generalmente sotto il 
        nome di civiltà. Lo straordinario progresso che il mondo ha conosciuto 
        dopo il Medioevo non è dovuto al mero dispendio di energie umane e 
        neppure alla capacità di volare propria del genio umano, giacché gli 
        uomini hanno lavorato duro sin dai tempi più remoti e alcuni di loro 
        erano dotati di una intelligenza superiore. No, esso è dovuto 
        all’accumulo di capitale. Quell’accumulo […] ha fornito le macchine che 
        gradualmente hanno diminuito il lavoro ingrato e liberato lo spirito del 
        lavoratore, in precedenza quasi indistinguibile da un mulo». 
         
        L’inefficienza della burocrazia 
         
        Il suo vecchio amico, Hamilton Owens, descrive la rabbia violenta 
        provata da Mencken quando Roosevelt tolse l’America dal sistema 
        monetario aureo. «Continuava a ripetere con tutta la veemenza di cui era 
        capace che si trattava di una rapina bella e buona. Diceva di voler 
        denunciare personalmente la cosa». In un carteggio con il famoso 
        socialista Upton Sinclair, che evidentemente gli aveva riproposto i 
        soliti luoghi comuni sulla presunta inefficienza degli uffici postali, 
        dei vigili del fuoco, della sanità pubblica, eccetera, Mencken, anziché 
        mettere le mani avanti e mediare, come fa la maggior parte dei 
        conservatori quando si trova di fronte a simili sfide, ribatté: «Non mi 
        è difficile rispondere alle sue domande. Il governo è restio a 
        consegnarle la mia rivista. Ha cercato di mandare all’aria la mia 
        attività [The American Mercury] e non ci è riuscito solo per un pelo. Fa 
        pagare eccessivamente cari i vaglia postali e ne perde troppi. Una 
        società di cinesi beoti saprebbe fare meglio. I suoi dispositivi per 
        spegnere gli incendi sono intollerabilmente costosi e inefficienti. A 
        dire il vero, non accade spesso che riesca a spegnerli: si estinguono da 
        soli. […] L’esercito non aveva nulla a che vedere con la scoperta della 
        causa della febbre gialla. I suoi burocrati perseguitavano le persone 
        che svolgevano il lavoro. Avrebbero potuto farlo molto più rapidamente 
        se non fossero stati nell’esercito. Ci sono voluti anni di impegno per 
        indurre il governo a combattere le zanzare, e oggi lo fa in maniera 
        pessima». 
         
        E, in una significativa ma dimenticata recensione di The Confession of a 
        Capitalist, scritto dall’individualista Sir Ernest Benn, Mencken affermò 
        che l’autore «dedica gran parte del libro a dimostrare ciò che la 
        maggior parte degli americani considera assiomatico: ovvero che il 
        sistema capitalista, nonostante i suoi difetti, funziona meglio di 
        qualsiasi altro sistema finora ideato dall’uomo. Nello spazio che gli 
        resta mostra come il governo sia inevitabilmente sprecone e dissipatore, 
        e come nulla di ciò che fa venga mai realizzato con l’efficienza e 
        l’oculatezza che utilizzerebbe un’impresa privata. Non vedo nulla da 
        obiettare in questo». 
         
        E subito dopo aggiunge: «Anche le funzioni di governo preferite – come 
        riscuotere tasse o eseguire impiccagioni – sarebbero svolte in modo più 
        efficiente se fossero affidate alla Ford». Il grande individualista 
        Albert Jay Nock ha scritto che, nonostante l’avessero generalmente 
        considerato un “radicale” acceso negli anni Venti e un accanito 
        “reazionario” negli anni Trenta, la sua filosofia politica era rimasta, 
        nel corso di questi decenni, praticamente immutata. Lo stesso può dirsi 
        dell’amico Mencken, che a sua volta restò sempre un individualista e un 
        libertario. Negli anni Venti, Mencken si scagliò contro le tariffe 
        doganali e gli altri privilegi speciali accordati ai gruppi economici 
        favoriti, criticò le leggi e gli editti contro la libertà di parola e 
        altre libertà personali, ma si accanì soprattutto contro la mostruosa 
        tirannide del proibizionismo. Negli anni Trenta, diresse i suoi attacchi 
        più feroci contro la più grave minaccia alla libertà dell’epoca: il New 
        Deal. Nel credere che fosse passato da sinistra a destra, gli ex 
        menckeniani degli anni Venti e i nuovi conservatori degli anni Trenta 
        mostravano di non capire Mencken né i principi di libertà. Il suo 
        presunto anticapitalismo era in realtà un’avversione estetica e 
        culturale per la maggior parte degli imprenditori economici (i 
        “Babbitts”) in quanto individui – avversione che essi avevano per la 
        gente comune – “gli uomini-massa” – impegnata in altre occupazioni. 
        L’antipatia di Mencken per i gusti culturali di singoli capitalisti non 
        va tuttavia confusa – ed egli non incorse mai in questo errore – con 
        l’opposizione al capitalismo in quanto tale». 
         
        Ripercorrendo, già nel 1934, quelle due fasi storiche, Mencken scriveva 
        a un amico: «Se credessi realmente di aver lasciato una traccia sulla 
        mia epoca, mi getterei nell’oceano più vicino. Non lo dico tanto per 
        dire. Mi baso sul fatto che gli americani mi sembrano più pazzi oggi di 
        quando iniziai a scrivere. Neanche i peggiori rotariani idearono mai 
        nulla di così insensato come alcune invenzioni del Brain Trust. Erano 
        dei pazzi innocui, alla ricerca di un surrogato del cristianesimo che 
        gli stava sfuggendo di mano. Ma i Brain Trusters, quantomeno in larga 
        parte, sono dei pazzi esaltati, e ci porteranno alla rovina se non 
        verranno soppressi al più presto».  
         
        La coerenza delle opinioni è, in effetti, uno degli aspetti più notevoli 
        di Mencken. Come scrisse scherzosamente a un amico quando aveva 
        sessant’anni: «Su tutti gli argomenti possibili, dall’aviazione all’uso 
        dello xilofono, ho idee fisse e invariabili. Non cambiano da quando 
        avevo quattro o cinque anni». Nell’affascinante, maturo, intenso e 
        brillante libro dedicato alla sua infanzia, Happy Days, Mencken ricorda 
        di aver acquisito le sue opinioni “reazionarie” sulle ginocchia del 
        padre: «Il suo sistema morale, per come posso ricostruirlo dopo tanti 
        anni, doveva essere stato prevalentemente cinese. L’umanità, dal suo 
        punto di vista, si divideva in due grandi razze: quelli che pagavano i 
        conti e quelli che non lo facevano. I primi erano virtuosi, nonostante 
        tutte le prove del contrario, mentre i secondi erano inguaribili 
        mascalzoni». 
         
        «Di tutti gli altri atti illeciti e infrazioni, aveva una visione molto 
        tollerante. Credeva che in democrazia la corruzione politica fosse 
        inevitabile, e sosteneva persino, sulla base della propria esperienza, 
        che avesse i suoi vantaggi. Uno dei suoi aneddoti preferiti raccontava 
        di una grande insegna oscillante appesa fuori del suo ufficio, in Paca 
        Street. Nel 1885, quando l’edificio venne costruito, egli attaccò 
        l’insegna, chiamò il consigliere distrettuale e gli diede venti dollari, 
        a saldo completo di qualsiasi pagamento di permessi e privilegi, diritti 
        di servitù e altri costi e canoni del genere. In cambio del denaro 
        intascato, il consigliere avrebbe dovuto allontanare qualsiasi 
        poliziotto, ispettore edile o funzionario che avesse un interesse 
        legittimo nella questione o cercasse di intromettersi per trarne un 
        utile personale. Essendo – secondo i suoi principi – un uomo d’onore, 
        egli mantenne il patto, e l’insegna sbatacchiò e scricchiolò nel vento 
        per dieci anni. Ma poi, nel 1895, Baltimora fu scossa da un’ondata di 
        riforme, il consigliere non fu rieletto e gli idealisti del comune 
        comunicarono che mantenere l’insegna sarebbe costato 62,75 dollari 
        l’anno: essa venne tolta il giorno successivo».  
         
        «Per mio padre, era la prova che le riforme sono essenzialmente una 
        cospirazione messa in atto da ciarlatani per estorcere denaro ai 
        contribuenti. Ho assorbito da lui questa idea e la ritengo tuttora 
        valida. Ho anche adottato la sua teoria secondo cui è meglio non 
        investigare troppo sulla condotta privata - tranne, ovviamente, quando 
        si prenda a bastonate un creditore». 
         
        Individualismo e dittatura democratica 
         
        La solidità dell’individualismo di Henry Louis Mencken si misura anche 
        dalle numerose citazioni di libertari e oscuri anarchici presenti nel 
        suo New Dictionary of Quotations. Nella sezione sullo Stato, la maggior 
        parte delle citazioni è contro quest’ultimo, mentre le restanti sono 
        così esageratamente a favore – ad esempio: «Il partito 
        nazionalsocialista è lo Stato - Adolf Hitler» – da creare un effetto di 
        forte ironia. Le citazioni contro lo Stato, poi, sono tratte in larga 
        parte da fonti individualiste o anarchiche: Emerson, Max Stirner, 
        Thoreau, Bakunin, William Graham Sumner, Kropotkin, Tolstoj e Benjamin 
        R. Tucker. Se Mencken non avesse avuto grande simpatia per questi 
        autori, non avrebbe potuto conoscerne così a fondo gli scritti né 
        colmare le sezioni di loro citazioni. Il capitolo sulla libertà di 
        parola è, a sua volta, denso di frasi in favore di quest’ultima, tratte 
        non solo da Macaulay, Jefferson, James Mill e vari giudici, ma anche 
        dall’individualista inglese quasi anarchico Auberon Herbert». Il ben 
        noto disprezzo di Mencken per la democrazia derivava in larga parte dal 
        suo fondamentale attaccamento alla libertà individuale e dalla 
        convinzione che la maggior parte delle persone – la maggioranza 
        democratica – è generalmente incline a sopprimere la libertà 
        dell’individuo anziché a difenderla. Mencken sintetizzò la sua opinione 
        sulla natura della democrazia, l’uomo comune e lo Stato nella seguente 
        definizione: «La democrazia è l’adorazione degli sciacalli da parte dei 
        somari».  
         
        Altre definizioni menckeniane: «La democrazia è la teoria secondo cui la 
        gente comune sa cosa vuole e merita di ottenerlo fino in fondo». «Se x è 
        la popolazione degli Stati Uniti e y il grado di imbecillità 
        dell’americano medio, la democrazia è la teoria secondo cui x 
        moltiplicato per y fa meno di y». Tutti gli assiomi sulla democrazia «si 
        riducono a colossali paradossi, molti dei quali equivalenti a vere e 
        proprie contraddizioni in termini. La plebe è capace di governare tutti 
        noi, ma deve essere a sua volta rigorosamente controllata. Esiste un 
        governo, non di uomini, ma di leggi – ma sono gli uomini a sedere in 
        Parlamento per decidere cos’è e cosa può essere la legge». Sull’innata 
        tendenza della democrazia a sopprimere la libertà, Mencken scrisse in 
        una lettera privata: «È vano appellarsi a un intrinseco amore per la 
        libertà di parola. Il popolo non conosce una simile passione. Solo 
        l’aristocrazia è sempre tollerante. Le masse sono invariabilmente 
        arroganti, sospettose, inferocite e tiranniche. La principale obiezione 
        alla democrazia è che in effetti ostacola il progresso penalizzando 
        l’innovazione e l’anticonformismo». 
         
        L’ateismo di Mencken è altrettanto noto, ma la sua ferocia era riservata 
        a quei gruppi religiosi che persistevano nell’imporre i propri codici 
        morali al resto della popolazione. Il proibizionismo ne era, all’epoca, 
        l’esempio più lampante, e per questo Mencken si scagliava essenzialmente 
        contro metodisti e battisti. Non aveva invece particolare antipatia per 
        i cattolici romani (soprattutto le sezioni non irlandesi): «I cattolici 
        non sono proibizionisti e hanno più umorismo dei metodisti», avrebbe 
        affermato una volta Mencken, che a quanto pare era in rapporti 
        amichevoli con diversi membri del clero cattolico. 
         
        Il nesso, nel pensiero di Mencken, tra costrizione religiosa della 
        morale, democrazia, uomo comune e tirannide sull’individuo, emerge 
        chiaramente in uno dei suoi articoli più spassosi, in cui attacca 
        ferocemente il contadino americano: «Gli stessi ciarlatani che arrivano 
        a Washington promettendo di aumentare i suoi [del contadino] guadagni e 
        compensare le sue perdite, dedicano tutto il resto del tempo a far 
        gravare su noialtri leggi oppressive e idiote, tutte pensate per le 
        aziende agricole. Là dove le mucche muggiscono tutta la notte, il 
        boccale di Peruna è nascosto dietro la stufa e si comincia a fare il 
        bagno, come a Biarritz, con l’equinozio di inverno, si trova il 
        serbatoio di tutte le leggi insensate che rendono l’America un 
        pagliaccio tra le grandi nazioni. Sono stati i metodisti di campagna, 
        praticanti di una teologia degradata quasi al livello di vuduismo, a 
        inventare il proibizionismo e […] a imporlo a noialtri, a danno dei 
        nostri conti in banca, della nostra dignità e delle nostre viscere. 
        Quella, e tutte le altre folli disposizioni del genere, celavano né più 
        né meno che l’odio congenito e incurabile del bifolco per il cittadino – 
        la sua rabbia scimmiesca contro chiunque, ai suoi occhi, si diverta più 
        di lui». 
         
        La convinzione di Mencken sull’avversione dell’uomo comune per la 
        libertà emerge anche nel suo modo di considerare la seguente, 
        sconcertante questione: come ha fatto la stragrande maggioranza dei 
        coscritti ad adattarsi così prontamente alla schiavitù della vita 
        militare? «Tranne una esigua minoranza, provenivano tutti da ambienti 
        molto meno accoglienti di un campo militare. […] D’un colpo venivano 
        liberati dall’ossessionante timore della sussistenza, sciagura di tutti 
        i giovani poveri e ignoranti, nonché da qualsiasi bisogno di 
        sperimentare e prendere decisioni. Erano nutriti e vestiti a spese dello 
        Stato […] e si potevano dedicare a sport e altri divertimenti che nei 
        loro luoghi di origine gli erano preclusi. La loro vita, insomma, non 
        era molto diversa da quella dei detenuti di una prigione modello, ma con 
        […] la speranza costante di un rilascio imminente – non come 
        “sorvegliati speciali”, ma come eroi. […] Non solo qualcun altro diceva 
        loro cosa indossare, dove dormire, quando alzarsi e quando andare a 
        letto, cosa mangiare e quando; ma tutte queste comodità gli venivano 
        fornite in quantità e senza nessuna spesa. Insomma, erano sgravati di 
        colpo da qualsiasi responsabilità». 
         
        «Il soldato medio trovava nell’esercito […] la possibilità di condurre 
        una vita notevolmente più libera, con molti dei privilegi di un 
        libertino matricolato. […] Compiere un piccolo furto era uno dei 
        vantaggi di un salvatore dell’umanità; essere rozzo e brutale, un segno 
        del suo spirito combattivo. Egli poteva inoltre aspettarsi onore e 
        rispetto per il resto della vita, con una lunga lista di privilegi 
        speciali. In ogni comunità americana, per quanto piccola, ci sono 
        notabili locali la cui importanza dipende unicamente dall’aver 
        partecipato a qualche guerra. […] La loro intelligenza è dimostrata dal 
        tipo di idee che sostengono. Essi sono essenzialmente acerrimi nemici 
        della libertà dell’individuo e su di loro grava la responsabilità di 
        alcune delle peggiori forme di corruzione della politica. Il più avido 
        di tutti i politici è il veterano di guerra». 
         
        Mencken era in effetti un arci-“isolazionista”, strenuamente contrario 
        all’ingresso degli Stati Uniti sia nella prima che nella seconda guerra 
        mondiale. Più volte dichiarò la sua opposizione all’intervento americano 
        nei due conflitti, precisando tuttavia che se l’America doveva proprio 
        schierarsi, avrebbe dovuto farlo con la parte opposta. Nell’aprile 1942, 
        scrisse scherzosamente a un amico: «L’estate che viene promette di 
        offrire ai cristiani il migliore spettacolo mai visto sulla Terra dopo 
        le crociate. Aspetto con ansia quel momento. Spero solo che se i 
        giapponesi conquistano la California non ti facciano del male». E al 
        vecchio amico Harry Elmer Barnes, Mencken scrisse nel settembre 1943: 
        «Sono fatto così: o dico tutto o sto zitto. In questa guerra, come 
        nell’ultima, mi sembra più razionale tenere per me ciò che ho da dire 
        finché non sarà possibile dirlo liberamente». 
         
        «È meglio essere liberi che schiavi» 
         
        La reazione di Mencken al lancio della bomba atomica fu 
        comprensibilmente dura. Due anni dopo l’evento, scrisse a Julian Boyd: 
        «La bomba atomica – l’ho predicato a lungo – è la più grande invenzione 
        che Geova abbia realizzato dopo la lebbra. Essa ha senz’altro conferito 
        grande gloria ai fisici cristiani di questo paese. Immaginate se a 
        lanciarla su una città piena di donne e bambini fosse stato un onesto 
        cannibale». 
         
        Mencken era particolarmente preoccupato dalla quasi assoluta 
        soppressione delle libertà civili che la partecipazione alla guerra 
        inevitabilmente comporta, e vedeva nella conduzione del primo conflitto 
        mondiale la perfetta concretizzazione della sua visione cinica della 
        democrazia, dello Stato, dell’intervento straniero e dell’uomo della 
        strada. In una delle sue più divertenti “pagliacciate”, proponeva di 
        decorare generosamente gli eroi del “fronte domestico” della prima 
        guerra mondiale: «Propongo una variante della medaglia per servizio 
        meritevole ai civili […] che distingua i vari favori resi alla 
        democrazia […] per il rettore che ha proibito l’insegnamento della 
        lingua del nemico nella sua dotta accademia, ha lanciato le opere di 
        Goethe fuori della biblioteca universitaria, ha radiato tutti i 
        professori che non volevano sostenere Woodrow per il primo posto vacante 
        nella Trinità, ha parlato alla National Security League e tenuto 
        duecento discorsi nei cinema. Per questo colosso della lealtà, qualsiasi 
        americano puro non può volere meno della Gran Croce dell’Ordine, un 
        trofeo d’oro in vetro colorato, una bandoliera con i colori nazionali, 
        un cappello a cilindro viola con una spilla di lato, il diritto di 
        parola al Congresso e una pensione di 10.000 dollari l’anno […]». 
        «Palmer e Burleson se ne vanno per una legge speciale. Se i semplici 
        rettori, come Nicholas Murray Butler, sono degni della Gran Croce, 
        allora Palmer merita di essere rotolato nell’oro dalla testa ai piedi e 
        levigato fino ad abbagliare l’universo […]». 
         
        Non vi è abbastanza spazio per discutere altri rilevanti contributi di 
        Mencken – la sua analisi di Veblen, Wilson e Theodore Roosevelt, i suoi 
        libri (i primi che siano mai stati scritti) su Nietzche o George Bernard 
        Show, ecc. È sufficiente dire che l’America ha un disperato bisogno di 
        un altro Mencken e che l’allettante saggio di menckeniate proposte 
        dovrebbe stimolare il lettore a immergersi nella densa e copiosa 
        produzione di questo autore. In conclusione, riportiamo il nobile e 
        commovente Credo che egli scrisse per la rubrica “What I Believe” di una 
        prestigiosa rivista: «Credo che la scoperta di un fatto, per quanto 
        insignificante, non possa mai essere interamente inutile per la razza e 
        che nessuna falsità sbandierata, per quanto virtuosa negli intenti, 
        possa essere altro che cattiva». «Credo che qualsiasi governo sia 
        dannoso in quanto deve necessariamente fare la guerra alla libertà, e 
        che la democrazia sia negativa quanto qualsiasi altra forma di governo 
        […]». «Credo nella completa libertà di pensiero e di parola, per il più 
        debole e il più potente degli uomini, e nella totale libertà di 
        condotta, purché compatibile con la vita in una società organizzata». 
        «Credo nella capacità dell’uomo di conquistare il suo mondo e di 
        scoprire di cosa è fatto e come è governato. Credo nella realtà del 
        progresso». «Ma dopotutto l’intera faccenda potrebbe essere espressa in 
        parole molto semplici. Credo sia meglio dire la verità che mentire. 
        Credo sia meglio essere liberi che schiavi. E credo sia meglio sapere 
        che ignorare». 
        
        
        18 agosto 2004 
         
        
        Questo 
        articolo è apparso per la prima volta su New Individualist Review, vol. 
        2, estate 1962, pp. 15-27.  
        
        
         
        
        
        Traduzione dall’inglese di Marcella Mancini 
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