La Lega, Bossi e il dopo
di Adalberto Signore
da Ideazione, marzo-aprile 2004
«Tornerà presto. E allora saranno dolori per tutti». Sulle scale che
portano al quinto piano dell’ospedale di Varese, la cravatta verde
allentata e l’ennesima sigaretta da fumare, Roberto Calderoli cerca di
scacciare i fantasmi. Dopo quella tragica mattina dell’11 marzo, la
corsa in ambulanza al presidio medico di Cittiglio, la concitazione
della prima diagnosi e la paura di non farcela, c’è tutto un partito che
vive nell’ansia di non esserci più. Perché ormai da molti giorni al
cuore “stanco” di Umberto Bossi sono legati – come fossero una lunga
fila di perline – tutti i cuori della Lega. E la malattia tutta privata
del Senatùr è diventata una sorta di pena collettiva per l’intero popolo
padano, per tutti i militanti che in questi anni lo hanno seguito,
ascoltato e acclamato. Sono loro, e non solo, a vivere con lo spettro di
una campagna elettorale per la prima volta senza Bossi dopo un quarto di
secolo.
Tutto iniziò quasi per caso un giorno di febbraio del 1979. Davanti
all’Università di Pavia, il giovane Umberto incontra Bruno Salvadori,
dirigente dell’Union valdotaine, il più solido movimento autonomista
nato in Italia nel secondo dopoguerra. I due chiacchierano una decina di
minuti, poi si mettono comodi al tavolino di un bar e infine si salutano
scambiandosi i numeri di telefono. Passano due mesi e Salvadori lo
chiama chiedendogli un impegno come attivista. Bossi dice no, poi si fa
convincere. Più tardi ammetterà: «Se un giorno di aprile Salvadori non
mi avesse telefonato, oggi sarei quasi certamente un tranquillo medico
di paese». In qualche notte di lavoro Umberto attacca per il Varesotto i
cinquecento manifesti dell’Union valdotaine. La sua carriera politica –
volendo tralasciare una certa vicinanza al Pci alla metà degli anni
Settanta – è a tutti gli effetti iniziata. Ma sarà nell’estate del 1980
che – con la morte di Salvadori in un incidente stradale – Bossi si
concentrerà sull’autonomia a lui più cara, quella della Lombardia.
Passano due anni e tutto è pronto per il battesimo della Lega
autonomista lombarda. La base del neonato movimento, ovviamente, è a
Varese, nel monolocale di una certa Manuela Marrone. Piccolina, bruna,
occhi luminosi, quell’insegnante appassionata di dialetti locali diventa
presto la seconda compagna di vita di Umberto. Senza di lei, forse, il
talento creativo e disorganico di Bossi non avrebbe mai trovato un
ancoraggio certo. «Un momento difficile – ammette Manuela nell’unica
intervista “privata” che si sia concessa – c’è stato. La nostra
relazione era già cominciata e venni a sapere che era sposato e,
soprattutto, che aveva un bambino piccolo. Lì per lì, ammetto, ero
tentata di mollare tutto». Ma fu l’esatto contrario: Manuela diventerà
la seconda moglie di Bossi, gli darà tre figli (Renzo, Roberto Libertà e
Sirio Eridano) e sarà una delle colonne della Lega. E con Roberto
Maroni, Dino Daverio, Sandro Ambrosetti e Giuseppe Leoni (oggi uno degli
amici più intimi di Bossi) darà vita alla prima campagna elettorale
lumbard, fatta a colpi di lettere su carta intestata con tanto di
disegno stilizzato dell’Alberto da Giussano che troneggia nella piazza
centrale di Legnano.
Dopo un primo e disastroso tentativo elettorale sotto il simbolo della
Lista per Trieste, il 12 aprile 1984 davanti ad un notaio di Varese
nasce ufficialmente la Lega. Che conquista subito simpatizzanti e
militanti un po’ in tutta la Lombardia e che presto cerca alleanze
strategiche con i cugini veneti (la Liga) e piemontesi (l’Arnassita).
Dopo un altro tentativo elettorale alle Europee del 1984, questa volta
sotto il simbolo della Lv-Europa federalista, arrivano le Amministrative
del 1985 ad aprire finalmente la strada a Bossi e compagni. Due anni
dopo, alle Politiche del 14 e 15 giugno 1987, la consacrazione: 320.000
preferenze, Leoni eletto alla Camera e Bossi al Senato (da qui il
soprannome di Senatùr). Artigiani, operai, piccoli imprenditori e anche
studenti si lasciano affascinare dalle arringhe di quello che è forse
l’ultimo politico “puro” uscito dalla Prima Repubblica. Molti sono
stanchi di pagare tasse troppo alte, altri intolleranti verso la
partitocrazia dei Palazzi romani. E poi c’è il lassismo meridionale, la
burocrazia centralista e una buona dose d’insofferenza verso
l’immigrazione extracomunitaria. La battaglia per la libertà della
Padania è a tutti gli effetti iniziata. Perché – spiegava già allora
Bossi – «quello leghista non è un voto di protesta generico, ma mirato.
È la richiesta di cambiare la forma dello Stato e il rapporto tra le
Regioni a statuto ordinario e lo Stato».
La cosmogonia
Pian del Re, pendici del Monviso, provincia di Cuneo. È il 13 settembre
1996, pochi minuti prima delle 17.30 il Senatùr solleva al cielo
l’ampolla con l’acqua appena prelevata dalla sorgente del Po. È stata
forgiata per l’occasione da un vetraio di Murano e fino a qualche minuto
prima che inizi lo stravagante rituale viene gelosamente custodita da
due giovani e bionde leghiste in camicia verde, Marisa e Ilaria. Davanti
a circa cinquecento persone, Bossi spiega il mistero di quella
cerimonia: «Questa acqua pura e spumeggiante ha fatto la pianura padana.
I nostri avi ritenevano che l’acqua fosse Dio, immanente a tutte le
cose. Noi la porteremo a Venezia e la libereremo nella laguna, così
libereremo anche noi». Sono passati già nove anni dalla consacrazione
del Senatùr, ma la prima cerimonia dell’ampolla – forse più dei raduni
oceanici sul “sacro” prato di Pontida – dà l’idea di qual è lo spirito
originario della Lega, quello che ha conquistato e appassionato un
elettorato in cerca di qualcosa di più dei soliti comizi un po’
imbalsamati di quegli anni.
È il colpo di genio di Bossi, la nuova politica del dopo Tangentopoli.
Strategia di comunicazione, direbbero gli esperti. L’Umbert ha iniziato
con «la Lega ce l’ha duro» e ha finito per creare un nuovo universo
della politica: c’è una divinità (il Po, appunto), dei rituali (dalla
cerimonia dell’ampolla al tradizionale incontro di Pontida, dove nel
1176 giurarono i Comuni che, uniti nella Compagnia del Carroccio, si
liberarono di Federico Barbarossa), degli antenati (i Celti), una storia
(«furono i padri padani – diceva Bossi qualche anno fa – a fare l’Italia
e i Risorgimenti») e una chimera (l’indipendenza della Padania). Ed è
proprio in virtù di quest’ultima che il Senatùr ha messo su uno
straordinario palcoscenico dove di tanto in tanto porta in scena le sue
rappresentazioni migliori. Non rinuncia a nulla. Istituisce un
Parlamento del Nord (ma poi arriva lo sfratto per morosità), se la
prende con la burocrazia e il lassismo della Capitale («Roma ladrona, la
Lega non perdona»), boicotta le mozzarelle di Caserta, incita la Guardia
padana, minaccia la secessione con l’uso delle armi («ma preferirei la
trattativa») ed indica ai militanti la strada da seguire in fatto di
colori (il verde), musica (Va’ pensiero), cinema (Braveheart), calcio
(Atalanta) e perfino donne (con il concorso Miss Padania).
Prove tecniche di successione
Dieci minuti dieci. Tanto è durato l’incitamento di militanti e
dirigenti che hanno partecipato all’assemblea federale della Lega a
Bergamo il 27 e 28 marzo. «Bo-ssi-bo-ssi-bo-ssi», urlava ritmato la
platea assiepata sotto un tendone su cui troneggiava la scritta «Mai
molà, tègn dur». Da molti giorni il ministro delle Riforme “riposa” in
coma farmacologico in un letto d’ospedale ma i pensieri del popolo
padano sono tutti per lui. Qualche giorno prima dell’appuntamento di
Bergamo, il Senato ha approvato in prima lettura (ma servono altri tre
passaggi parlamentari) la cosiddetta devoluzione. È la prima vittoria
della Lega senza il suo condottiero, un successo che tutti, dai
colonnelli del partito all’ultimo dei militanti, dedicano al cuore
“stanco” di Umberto. Con una domanda che aleggia come uno spettro su
tutto il partito: e ora che si fa? C’è in questi casi un codice d’onore
che impone alla politica di non affrettare giudizi e non anticipare e
precipitare eventi. Ma è inutile girare intorno alla questione: quell’11
marzo la storia della Lega è cambiata. Troppo forte l’identificazione
con il leader, troppo importante il ruolo di battitore libero che il
Senatùr ha saputo costruirsi negli anni. Al punto che sono in molti a
sostenere che «la Lega nasce e muore con Bossi». Insomma, due entità
imprescindibili. Ma se nel lungo periodo è questo probabilmente lo
scenario più realistico, c’è pure da ragionare su quello che sarà oggi,
alla vigilia delle Europee, e soprattutto domani, a seggi chiusi e con
la devoluzione in corsa verso la Camera per il secondo passaggio
parlamentare.
Perché mentre il leader di tante battaglie è alle prese con il suo
«malanno di stagione» (così lo ha definito affettuosamente Leoni in
un’intervista a la Padania), la Lega sta dimostrando di aver imparato la
lezione. E i tre Roberto (Maroni, Calderoli e Castelli) ne hanno dato
prova proprio a Bergamo. “No” al decreto salva-calcio, “no” al pacchetto
Tremonti e “chiarezza” sui tempi di approvazione della riforma
federalista. «Altrimenti – hanno tuonato uno dopo l’altro dal palco –
lasciamo il governo». È l’ennesimo omaggio a Bossi («non faremo
correnti, dobbiamo essere tutti uniti», ha sempre predicato fin dagli
albori il Senatùr), ma anche l’avvio di una corsa di riposizionamento
che avrà fine solo dopo le Europee. E dove ci saranno solo due Roberto a
farla da padrone. Già, perché se è vero da qualche settimana i tre
colonnelli si sono muniti di telefonino supplementare (con tanto di
numero segreto) solo per tenersi in contatto tra loro ventiquattro ore
al giorno, è pur vero che dei tre triumviri Castelli sembra essere
quello politicamente più debole.
Al di là delle smentite ormai quotidiane, infatti, nella Lega ci sono
due correnti di bossiani, entrambe fautrici dell’alleanza di ferro con
Berlusconi. La prima è guidata da Roberto Maroni, la seconda da Roberto
Calderoli. Appassionato di musica, già ministro dell’Interno nel ’94, il
titolare del welfare viene dalla sinistra ed è nato e cresciuto a
Varese, città natale della Lega. Dentista, sposato con rito celtico e
coordinatore delle segreterie “nazionali” della Lega, il vicepresidente
del Senato ha invece militato nell’estrema destra e viene da Bergamo. Al
primo, dunque, andrà l’appoggio della base del Varesotto, mentre il
secondo ha in mano il Bergamasco. Cosa di non poco conto se si analizza
un’eventuale corsa alla successione dal punto di vista geografico.
Per come è strutturata la Lega, infatti, potrebbe essere proprio questo
il fattore determinante. E visto che la Lombardia resta la roccaforte
elettorale del Carroccio, in questa disputa bisognerà pure vedere come
si collocherà Alessandro Cè, capogruppo alla Camera, bresciano. Mentre
Francesco Speroni – l’unico vero bossiano doc al punto che il Senatùr se
l’è portato al ministero delle Riforme come capo di gabinetto – alla
fine dovrebbe correre per Maroni che resta pur sempre uno dei fondatori
della Lega (c’era anche lui in quel monolocale di Varese all’inizio
degli anni Ottanta). E lo stesso, dicono i bene informati, farà
Giancarlo Giorgetti, segretario “nazionale” della Lombardia. Calderoli,
da parte sua, punterà sul resto del nord Italia: dal friulano Edouard
Ballaman al veneto Giancarlo Gentilini, fino al piemontese Mario
Borghezio. Senza dimenticare il rapporto preferenziale con Aldo
Brancher, sottosegretario di Forza Italia alle Riforme e vero e proprio
ufficiale di collegamento tra la Lega e Berlusconi. Resta solo Castelli,
comasco, del quale però nessuno dimentica i forti motivi di frizione con
Maroni. Insomma, la battaglia dei triumviri è ormai iniziata. Con una
sola certezza: non finirà come tra Cesare, Pompeo e Crasso, figli – non
a caso – della Roma “ladrona” che così poco piace ai popoli padani.
25 giugno 2004 |