Io, apolide nel Nord-Est che non c’è
di Giulio Mozzi
da Ideazione, marzo-aprile 2004
No, mi spiace. Il Nord-Est non esiste. Esiste il discorso sul Nord-Est.
Se fossi foucaultiano, potrei mettermi a ricostruire la storia della
nascita e dell’affermazione del discorso sul Nord-Est. Ma non è questo
il mio mestiere, non sono queste le mie competenze. Ho un ricordo
approssimativo della nascita del discorso sul Nord-Est. Dal 1982 al 1989
ho lavorato presso un’organizzazione datoriale: la Confartigianato. Mi
ricordo che quando cominciai a lavorarci, c’erano le Tre Venezie e il
Triveneto. Quando me ne andai, c’era il Nord-Est. Che cos’era successo,
nel frattempo?
Da piccolo volevo fare il sociologo. Con un gruppo di amici, più o meno
negli stessi anni in cui lavoravo in Confartigianato, misi insieme un
gruppo di ricerca. Ci occupammo di comportamenti prepolitici, di
comportamenti elettorali, di apprendistato, di formazione sindacale. Mi
ricordo che in quegli anni spuntavano a ogni piè sospinto nuovi discorsi
interpretativi dell’Italia. Erano gli anni d’oro del Censis, dove
s’inventavano ogni anno una formula nuova: le Tre Italie, il
Metalmezzadro… E se non era il Censis, era qualche altro sociologo. Mi
ricordo un libro, che con gli amici di quel gruppo leggemmo e a lungo
discutemmo, che proponeva qualcosa come Dodici Italie: dodici modelli,
non corrispondenti a dodici aree, ma tutti sparpagliati “a macchia di
leopardo” (anche questa è una formula di quei tempi) lungo la penisola.
Fortunatamente, dopo un po’, decisi che fare il sociologo poteva non
essere il massimo; e mi diedi ad altro. Il Nord-Est, per me, allora, era
una cosa del Brasile. Non significava un modello di sviluppo, semmai un
modello di sottosviluppo o, addirittura, un modello di controsviluppo.
Il Nord-Est era un’area del Brasile piena di contraddizioni. Dove
ricchezza e povertà, occidentalizzazione e ghettizzazione, esplosione
demografica e furto neocoloniale delle risorse, eccetera, facevano
esplodere tutto. Non sembrava una cosa bella, il Nord-Est.
Il discorso italiano del Nord-Est è stato inventato, credo, per
sopprimere altri discorsi. Per sopprimere il primato di Venezia, ad
esempio. Venezia città museo, città vetrina, città milioni di turisti,
città assurda e strana, città buona a tutto fuorché a essere il centro
politico-economico della “macroregione” (e questa parola, di quand’è?)
costituita da Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige. Buona
forse a esserne il centro culturale: ma della cultura-spettacolo, della
cultura-internazionale, non certo della cultura vera: quella che produce
cambiamenti, che innova, che trasforma. Poi il discorso del Nord-Est è
stato inventato per sopprimere i discorsi sul carattere dei veneti: i
veneti polentoni, i veneti tutto fuorché dinamici, i veneti bigotti, i
veneti democristiani-dorotei, per così dire: i veneti veneti.
L’aggettivo “veneto” rimanda a una cultura chiusa, a un modello
imprenditoriale centrato sul padre-padrone-artigiano, alla grappa e ai
radicchi. Nord-Est invece rimanda all’imprenditorialità diffusa, alla
genialità individuale, all’esportazione in Germania, alla ricchezza che
non ha ammazzato le tradizioni ma le ha portate a un livello di
raffinatezza stile El Toulà.
Che poi, a guardarci, quanta parte del territorio definito
dall’espressione Nord-Est appartiene veramente al Nord-Est? Sarà mica
Nord-Est l’Alto Adige, o SudTirolo che si voglia. Sarà mica Nord-Est la
provincia di Rovigo, area depressa o “insufficientemente sviluppata”
(altre parole degli anni Ottanta, credo) per definizione («Tutti gli
italiani sono campanilisti», mi diceva un amico sociologo scozzese,
esperto di cose italiane. «Tutti, tranne quelli di Rovigo. Quelli di
Rovigo sono gli unici che, quando ti dicono di dove sono, te lo dicono
vergognandosi»). Sarà mica Nord-Est Venezia: è Bisanzio, piuttosto. Sarà
mica Nord-Est Trieste: no, Trieste è Mitteleuropa (si dice ancora,
Mitteleuropa? È un po’ che non lo sento, a dire il vero; temo che la
parola si estinguerà quando Claudio Magris – lunga vita a lui! – non
sarà più tra noi).
In sostanza, il discorso sul Nord-Est va bene, così a occhio, per un
territorio ristretto: le province di Vicenza (la seconda provincia più
industrializzata d’Italia, si diceva negli Ottanta), Padova, Treviso,
Pordenone. Qui, vabbè, ci sono le cose che il discorso sul Nord-Est
dice: la microimprenditorialità che funziona, gli sportelli bancari
ovunque, i macchinoni, le partite iva a diciott’anni, i locali di lap
dance, tutte quelle cose che raccontava Gian Antonio Stella in Schei,
famoso libro pieno zeppo di cifre (in gran parte sbagliate: ma tanto,
dell’esattezza di un’informazione non importa niente a nessuno, in
Italia) e di interviste compiacenti (c’è un solo punto, in quel libro,
dove si parla non degli imprenditori, dei nuovi ricchi, ma del lavoro: e
in quel punto Stella non usa materiale di prima mano, ma si limita a
riassumere un articolo dell’Unità).
Mi ricordo che con i miei amici sociologi in erba, nel 1983 (io avevo
ventitré anni, ed ero il più vecchio), facemmo un’accurata analisi dei
risultati elettorali (fu l’anno in cui la Dc di De Mita perse quasi un
quarto dei voti, e in cui per la prima volta si presentò, o si affermò
consistentemente, la Liga Veneta): e ci accorgemmo che la distribuzione
dei voti andati alla Liga Veneta corrispondeva quasi alla perfezione con
le aree di produzione del vino bianco: segnale suggestivo, ma non certo
scientifico, di una ipotizzabile correlazione tra alcuni aspetti
culturali e quella scelta elettorale. Ci accorgemmo anche, con
un’inchiesta successiva, che buona parte dei voti andati alla Liga
venivano da persone che nelle precedenti elezioni avevano votato Pci o a
sinistra del Pci. Nel frattempo tutti discutevano, qui dalle nostre
parti, della “fuga di voti” dalla Dc alla Liga: che c’era stata, ma era
assai inferiore a quel che si diceva. E il Pci non si faceva nessuna
domanda in proposito.
Ho il sospetto che da quei fatti elettorali, e dai discorsi successivi,
sia nato il discorso sul Nord-Est. Come se bastasse abolire la parola
“Veneto” e i suoi derivati, per sostituire un’identità nuova a
un’identità vecchia e ritenuta non più adatta.
Secondo me i veneti sono diventati, in questi anni, leninisti
inconsapevoli. In un confronto tra veneti, quello che vince è sempre
quello che riesce a situarsi più dentro l’identità veneta: a costruire
nel discorso un localismo più locale di quello dell’altro. E questo,
sospetto, perché è venuto a mancare il contenitore. Il discorso sul
Nord-Est non riesce a funzionare come contenitore delle identità: è un
discorso che funziona solo fuori dal Triveneto. Dentro il Triveneto,
funziona ormai solo il discorso superlocale. Non c’è mai stato troppo
buon sangue tra le varie Alte e le varie Basse, tra i contadini e i
montanari, tra la città e la campagna: ma oggi queste differenze –
differenze di che, poi: si fa fatica, spesso, a percepirle, anche quando
sono appositamente forzate – vengono radicalizzate, proposte non come
differenze nell’identità, ma come differenze di identità. Per cui io,
italiano per nascita educazione e scelta, residente in Padova, nato nel
Vicentino, con anni d’infanzia a Chioggia in provincia di Venezia, anni
di lavoro a Venezia e a Marghera, discendenze friulane e – alla lunga,
alla lunga – perfino asburgiche: be’, sono una specie di apolide.
25 giugno 2004 |