La mia Milano, libera e mai nostalgica
intervista a Fedele Confalonieri di Vittorio
Macioce
da Ideazione, marzo-aprile 2004
"Se esiste una questione settentrionale uno dovrebbe trovarla qui,
nella sua capitale. Certe mattine Milano sembra vuota, strade grandi,
passanti che camminano lenti, un sole timido, sfocato, di quasi
primavera. Un paio di piccioni malati si muovono pigri su qualche
marciapiede. È lunedì e non è ancora mezzogiorno. C’è un silenzio
sospeso, un’ombra, un timore, un sospiro che non cade, una paura
sommessa. Fedele Confalonieri è nel suo ufficio di via Paleocapa, alle
spalle c’è piazzale Cadorna, con la stazione e i fiocchi colorati di
Claes Oldenburg, di fronte c’è piazza Castello, il cuore sobrio della
città, senza guglie e pinnacoli. Confalonieri si ferma e guarda fuori,
in basso, dice: «Non sembra Milano, vero? È irreale, colpa di questo
clima d’incertezza e di terrore in cui stiamo cadendo un po’ tutti.
Milano non è così. È una città cosmopolita, aperta, timida forse, ma
accogliente». Su un televisore accesso vanno ancora in onda le immagini
di Madrid, carrozze squarciate, i treni in ginocchio, come bisonti
abbattuti, frammenti di corpi, di sangue e lamiere. «Londra, Milano,
Parigi, Roma, Berlino, forse anche Varsavia o Mosca, in questi giorni
queste città sembrano raggomitolate. Si rannicchiano, come se da un
momento all’altro dovessero implodere. Non mi piace questo clima. Non mi
piace questa stagione. Non possiamo farci fregare dal demone della
paura. Ma passerà». Pausa. «Ma lei è qui per un’intervista o sbaglio?».
Non sbaglia.
Ora che le regioni hanno i loro bravi poteri, ora che la devolution è
fatta, o quasi, mentre Bossi riposa in un letto d’ospedale, con le
coronarie stanche, e la Lega ha camminato tanto, ti chiedi se una
stagione non sia chiusa. Forse il disagio del Nord non ha più bisogno di
slogan, di gridare «Roma ladrona», di battaglie urlate e un po’ naif.
Sulla vocazione imprenditoriale del Settentrione, sulla capacità di fare
i danee, c’è poco da dire, sta nella storia, nei fatti, nel paesaggio,
nei luoghi comuni. Quello di cui qui si vuole parlare è il resto, la
capacità del Nord di raccontarsi, di mettere in scena la sua leadership,
non solo economica, ma anche culturale, nel senso più ampio. È arrivato
il momento in cui il Nord non può più solo rivendicare autonomia,
libertà, potere. Questa è l’ora delle responsabilità. Milano, si diceva
un tempo, è l’Italia più vicina all’Europa, all’Occidente. È ancora così
o ha finito per guardarsi un po’ troppo l’ombelico? Milano società
aperta o chiusa? Se lo chiedi a Confalonieri ti dirà che la risposta è
già nella storia di questa città.
Questo è il palazzo della Fininvest. Siamo al quarto piano. C’è
silenzio, tanto spazio, stanze grandi, pareti bianche, luminose.
Confalonieri ti viene incontro, entra da una stanza, esce da un’altra,
chiede: «Dove ci mettiamo?». «Dove vuole». In un ufficio, con un
salottino, c’è una ragazza davanti ad un computer. «Le posso rubare per
un attimo la stanza?». La ragazza sorride e va via. Confalonieri si
siede. Qualche microsecondo di silenzio: «Non sono mica sicuro di farla
questa intervista». «Perché?». «Dobbiamo parlare di Milano, no?».
«Sembra di sì». «Diranno che voglio fare il sindaco». «Probabile. È un
problema?». «Un po’ sì». «Ma lei vuole fare il sindaco?». «Io sto bene
qui, dove sto». «E allora il problema non c’è». «Non ne sono sicuro. Ma
va bene così. Facciamola questa intervista».
«Come si diceva un tempo: nato e residente a Milano, da 66 anni». La
Milano di Confalonieri comincia con un quartiere. I milanesi lo chiamano
l’Isola, gli altri, quelli che ci scendono con la metropolitana,
Garibaldi. Un tempo, quando ancora c’erano gli austriaci, erano solo
poche case, in via Borsieri, circondate dalla ferrovia e dal cimitero,
quello della Mojazza, le fosse comuni dove venivano seppelliti poveri
senza nome, ma dove si persero anche i corpi di Cesare Beccaria,
Melchiorre Gioia, Giuseppe Parini. «Quando sono nato io era ancora un
quartiere popolare, ma diverso dalla periferia raccontata poi da Testori
o da Gaber. Diverso anche dai dormitori dell’hinterland, dove è
difficile conquistarsi un’identità. Io credo di averla trovata. Ho
quattro nonni milanesi. Qui non capita spesso. Ma non è un merito. È
solo una constatazione. Il cognome di mia madre è Borghi. Il fratello è
Giovanni Borghi, quello che ha fondato la Ignis. Suo padre, vale a dire
mio nonno, aveva un negozio di materiali elettrici. La Ignis, in qualche
modo, parte da lì. Il padre di mio padre, invece, faceva il panettiere.
L’Isola è il posto dei miei ricordi, quelli lontani, d’infanzia e
adolescenza. Ma sono cose piccole, banali, simili a tutti quelli della
mia generazione: i vaghi ricordi di guerra, partite a pallone nel
campetto dei Salesiani, dove ho studiato, le note di qualche canzone
degli anni Cinquanta, tu che cambi e la città che ti cambia intorno».
Ha nostalgia dell’Isola?
La nostalgia è un sentimento che proviamo tutti. Basta guardarsi
indietro e trovi qualcosa che ti manca o un bel ricordo, un profumo,
magari una madelaine, per sentirci un po’ come Proust. La nostalgia sì
la provo, ma non mi piace essere nostalgico. È inutile, sa di vecchio e
ti porta a pensare che il passato sia sempre migliore del presente. Ma
non è così. Ogni stagione, ogni età, è quello che è. Bisogna prenderla
così come viene, cercando di cambiare ciò che non ti piace, ma senza
stare lì a rimpiangere quello che non c’è più. Ho visto gente che parla
e parla di trenta, quaranta anni fa, di come tutto era più semplice,
bello, genuino, sano, onesto. Falso. Hanno solo in testa la ragazza
giovane e allegra con cui sono andati a letto, forse per la prima volta.
Pensano a come si sentivano forti e in salute e non avevano acciacchi.
Troppo facile fare paragoni. E le dirò una cosa, quello che mi piace di
Milano è questo: non è una città nostalgica.
Quando si parla di “romanità” o di “napoletanità”
si fa riferimento a uno spirito, una visione del mondo, abbastanza
definito. Esiste una “milanesità”, anche se a dirlo già la parola sembra
stonata?
Esiste, ma è discreta, meno prorompente. Non è aggressiva. È come questo
cielo.
Grigio.
Ci si può affezionare anche ad un cielo grigio.
Dipende da cosa c’è sotto.
Appunto. C’è una città cosmopolita, che accetta tutti gli uomini di
buona volontà, generosa con chi ha voglia di rischiare e di crescere.
Una città che ti fa venire qui e ti cambia e si fa cambiare. È la città
italiana dove è più facile integrarsi, con un dna multiculturale e
multirazziale, da sempre. Il Medioevo a Milano finisce nel 1018 con
l’editto di Ariberto da Intimiano. Ne parla anche Gianni Brera nel suo
Mille e non più mille, un testo teatrale. Ricorda cosa dice l’editto?
No.
Chi sa lavorare e viene a Milano è un uomo libero. È in sintesi la
storia di questa città. Se milanesità, quel termine stonato come dice
lei, vuol dire qualcosa credo che sia questo.
Ed è ancora così?
Io dico di sì. Ed ha anche conservato il suo spirito di solidarietà,
verso i più deboli, verso lo straniero. Un’eredità cattolica, che ha
come simbolo il cardinale Borromeo, su cui s’innesta anche una cultura
illuministica e giansenistica. Le lezioni umanitarie di Beccaria, Verri,
lo stesso Manzoni. Nel Novecento si è creata poi una forte tradizione di
socialismo umanitario. Milano non è una città cattiva. Cattiva forse no,
ma negli ultimi tempi un po’ addormentata. Una città, si dice, che non
sa più progettare il futuro, orfana di un’élite culturale e politica.
No, davvero no. Ecco, questa è la malattia dei nostalgici. O dei delusi,
quelli che fanno paragoni che non hanno senso. Dicono: Milano non è
Londra, New York o Parigi. Certo, non lo è mai stata. Ha un’altra
storia. Ha altre dimensioni. Non è una scoperta. Sono lamentele da
provinciali che si vantano di aver visto il mondo. Milano sa accettarsi
per quello che è. Poi la storia della classe dirigente che non c’è più o
dell’élite culturale smarrita la sento da quando facevo il liceo.
Ricordo un articolo di Montanelli, metà anni Cinquanta, mi sembra
sull’Illustrazione italiana, ma non ne sono sicuro, che diceva: Milano
non è più la capitale morale. Eppure non vedo rovine. La salute
economica è ottima. La cultura? Il cuore dell’editoria è ancora qui.
L’arte? Continuo a vedere mostre interessanti, l’ultima su Van Dick. La
Scala? C’è ancora e credo che nessuno possa dire che sia in declino. Mi
sembra che qui ci siano anche le radici della televisione commerciale.
Ed è un aspetto che non sottovaluterei.
L’ha cambiata?
Chi?
La televisione commerciale ha cambiato Milano?
Vuole sapere se l’ha resa più volgare?
L’ha resa più volgare?
Qualcuno pensa di sì. E la televisione commerciale, rispetto a quella
pubblica delle origini, forse in qualche modo lo è, ma solo nel senso
che non è pedagogica. Non è questo il suo interesse primario. Ma, detto
questo, ciò che è successo qui a Milano all’inizio degli anni Ottanta è
stato davvero importante. Si è chiusa un’epoca grigia, ideologica,
pesante e si è aperta una stagione nuova, che ha spazzato via quasi
tutti i fantasmi del Novecento. Disincanto e leggerezza sono valori
positivi. E la Tv commerciale, in questo senso, ha svolto un ruolo
importante.
Una volta c’erano i “gran lombardi”: Gadda,
Testori, Strheler, Brera. La lista la conosce. E ora?
Quello di gran lombardo è un titolo che, di solito, si conquista post
mortem. L’importante è che ci sia un ambiente in grado di attirare il
talento. Ma non facciamo paragoni con il passato. Un tempo uno come
Montanelli partiva da Fucecchio e diventava milanese. Fissava qui la sua
residenza. Aveva un rapporto quotidiano con la città. È chiaro che ci
s’incontrava, si formavano i famosi cenacoli o salotti. La vita
culturale aveva una consistenza fisica. Ora uno può gravitare intorno a
Milano anche restandosene a Fucecchio. E venire qui di tanto in tanto.
La tecnologia sta cambiando il rapporto fisico con la città, che è un
centro ideale, un luogo dove convergono gli interessi, ma probabilmente
ha perso la dimensione della piazza, dell’incontro. L’intellighenzia non
la vedi seduta nei caffè, ma è un errore pensare che non ci sia. Si è
semplicemente spostata altrove.
Di cosa ha bisogno il Nord?
Libertà. Autonomia. Possibilità di fare e di crescere. E poi
infrastrutture, quelle orizzontali, da Est ad Ovest. È il nostro punto
debole. Troppi vincoli, anche qui troppa burocrazia, molti cavilli,
tanta paura.
Grandi opere. I progetti ci sono.
Realizziamoli.
E al di là delle infrastrutture?
Nient’altro. Un tempo c’era bisogno anche di maggiore flessibilità sul
lavoro. Ora non più. È stato fatto abbastanza.
Architettura. Come mai a Milano non si progetta
nulla di nuovo?
Dicono che una città sia viva quando è capace di mutare il suo sky line.
Qui niente, neppure un “cetriolo sotto aceto” come chiamano i londinesi
la Swiss Re di Norman Foster. Quel grattacielo ovale in mezzo alla city
qualcuno può anche considerarlo un po’ indigesto, ma esprime un’idea, il
desiderio di lasciare una traccia, un segno, un’identità… I londinesi
sono più fortunati di noi. Forse non devono fare i conti con la cultura
del non si tocca nulla. Muovi una pietra e interviene il Tar. Parli di
un progetto e ti accusano di voler gettare una colata di cemento. Lo
dico: Milano io la vorrei con i grattacieli. Credo che sia una città
adatta a questo tipo di sviluppo. Non ci sono neppure problemi di
impatto estetico. Sicuramente meno che a Londra, dove pure vecchio e
nuovo si sono amalgamati senza problemi, o a Parigi, dove le due anime
sono separate, ma convivono nel cuore della città. E poi a Milano c’è la
vecchia periferia industriale che è un dovere recuperare.
Le fabbriche abbandonate…
Lo hanno fatto con la Bicocca. C’è la Pirelli. C’è la Milano industriale
del Novecento che può essere ripensata, riadattata, conservata. Non mi
sto inventando nulla. È tanto che se ne parla, ma più in là si fatica ad
andare.
Cosa non le piace della sua città?
Non sopporto di vederla sporca. Non mi piacciono le scritte di vernice
sui muri. Qualche volta non capisco la logica di certi sensi vietati.
Non capisco la ratio delle isole pedonali. In una città come Milano,
secondo me, non hanno ragione d’esistere. Non lo capisco per via Dante e
ancor meno per Corso Vittorio Emanuele. Posso capirlo per certe zone di
Roma, ma qui no.
C’è uno scrittore che ha saputo raccontare la sua
Milano ideale?
È fatta di tanti pezzi. Penso a quella di Sthendal, che sulla sua tomba
ha voluto che si scrivesse: milanese. L’omaggio più bello che ti possa
fare uno straniero, peraltro un francese. Citare Manzoni è scontato. Le
commedie veriste di Carlo Bertolazzi. Pensi a El nost Milan. Emilio De
Marchi, con Arabella o Demetrio Pianelli, la scapigliatura in genere.
Tutto Testori, ma soprattutto Il ponte della Ghisolfa.
Chiudiamo qui?
No. C’è un romanzo a cui sono molto legato. Molto noto. In Addio alle
armi Hemingway descrive la vecchia stazione di Milano, che si trovava
proprio nell’Isola, a pochi passi da casa mia. È da lì che durante la
Grande Guerra partivano le ridotte per il fronte.
Una curiosità, prima di finire: lei è del Milan?
Folgorato sulla via di Damasco. E Berlusconi non c’entra. Sono uno di
quei bambini nati per caso milanisti in una famiglia d’interisti. Mio
padre e mio fratello tifavano Inter, io sono stato più fortunato. Penso
ancora di ricordare la formazione che vinse lo scudetto nel ’51.
Vediamo. Buffon in porta. Poi c’erano Silvestri, Tognon, Bonomi,
Annovazzi, detto il “Leone di viale Umbria”. C’erano Gren e Liedholm, De
Grandi, Renosto e accanto a Nordhal giocava Burini, uno dimenticato, ma
che ha segnato tantissimi gol. Ma il mio primo Milan è quello di
Puricelli, Testina d’oro.
C’è un calciatore che è il simbolo di quella
milanesità di cui parlavamo?
Oggi Maldini.
E di sempre?
C’è poco da fare, Meazza. Ha anche dato il nome allo stadio.
L’intervista è finita. Il presidente di Mediaset si ricorda che deve
partire per Roma. Si finisce a parlare per qualche minuto di narrativa:
Le correzioni di Jonathan Franzen, che Confalonieri ha acquistato in
America, e soprattutto il romanzo neo vittoriano di Michael Faber, Il
petalo cremisi e il bianco. Poi, mentre scendiamo a piedi verso il piano
terra, una domanda, l’ultima davvero: ma se le chiedessero di fare il
sindaco di Milano, cosa risponderebbe? «Onorato». E con una mano fa il
gesto di togliersi un cappello che non c’è.
25 giugno 2004 |