Quel Nord-Ovest calvinista in mano agli dèi
di Luca Doninelli
da Ideazione, marzo-aprile 2004
Dove finisce il Nord-Est e dove comincia il Nord-Ovest d’Italia? In un
paese fondato sulle divisioni, sulle fratture, sui tagli, sulle
scanalature, sulle valli parallele e incomunicanti, in breve sulla
guerra civile, la domanda non è vana. Noi percepiamo l’esistenza di un
est e di un ovest ben distinti in questa sconosciuta Italia del nord, in
questo profondo nord dove il povero immaginario peninsulare figura
risaie, e pianure, e pioppi. Ombre e nebbie. No, l’est e l’ovest hanno
due anime distinte e separate.
Dieci anni fa mi capitò di passare un paio di settimane fra Treviso e
Varese. Due città ugualmente ricche, pressappoco delle stesse
dimensioni. Eppure io credo che Treviso somigli molto più a Siracusa che
a Varese. E Varese molto più a Oslo che a Treviso. La città veneta
ostentava solarmente la propria ricchezza, e alle banche e ai negozi di
lusso alternava bar, ristoranti, caffè, pasticcerie. E la sera la gente,
la bella gente, passeggiava sul corso, lì come a Padova, come a Verona,
e tutti a guardare, a giudicare se le scarpe o il giubbotto erano stati
acquistati nel negozio giusto, se l’ingegner Tizio frequentava ancora
casa Caio.
Varese no, non può permettersi simili svaghi. Città pietrosa, impettita,
antiedonista, decisamente brutta, secessionista, svizzera, calvinista,
talvolta anche un po’ celtica, Varese coltiva la ricchezza come etica,
come solidità interiore. Non godiamocela troppo, e se la sofferenza non
arriva procuriamocela noi con il rigore. Anche la versione leghista
della città lombarda presenta poca allegria.
La xenofobia è di casa più in Veneto, però. La patria di Bossi, si sa, è
piena di gente che abbaia contro gli stranieri, ma c’è una differenza:
qui i parvenus sono meno numerosi, e alla fretta di arricchire, di
strapparsi di dosso anche il ricordo delle pezze al culo, si sostituisce
un ultimo ricordo della vecchia solidarietà lombarda, preoccupata dei
danee ma, più ancora, del benessere. Che è fatto di buon regime
economico, ma anche di solidarietà, di amicizia, di corresponsabilità.
Valori che anche al Nord-Ovest, purtroppo, si stanno sempre più
erodendo, e i titolari d’impresa lo sanno bene, e tremano all’idea che i
loro figli (ai quali loro non hanno saputo trasmettere i valori in cui
hanno creduto) prendano, in un giorno vicino, il loro posto. Dove sta,
allora, il confine tra i due mondi? Lo si capisce viaggiando verso est.
A un certo punto, suppergiù dalle parti di Brescia, ci si accorge che
gli sguardi sono girati dall’altra parte, e che il detto «chi volta le
spalle a Milan/ volta le spalle al pan» non è più vero.
Il Nord-Ovest è arcigno e, tutto sommato, più arretrato del Nord-Est.
Meno cinico, meno spregiudicato. Naturalmente, le razze che lo
compongono sono molto diverse tra loro. E all’etnia lombarda si
contrappongono quella ligure e quella piemontese o sabauda. Cominciamo
da quest’ultima. Se la presenza della più grande industria italiana non
è mai riuscita a trasformare il Piemonte in una regione a forte
industrializzazione, ciò è dovuto al particolare carattere, geografico
ma anche umano, di questa terra.
Piemontese falso e cortese, dice il proverbio. Errore. Il piemontese è
sospettoso e formale, che è diverso. Sospettosità e formalismo
costituiscono i pilastri del carattere sabaudo. Un carattere forgiato
dalla burocrazia militare. Nel 1995 vinsi il premio Grinzane Cavour, e
il giorno dopo la premiazione fui invitato alla Fiera del Libro, allora
in corso, per un incontro e un’intervista. I responsabili mi vennero
incontro tutti raggianti, porgendomi il pass senza il quale avrei dovuto
pagare un biglietto d’ingresso. Chiesi gentilmente se era possibile
avere un pass anche per mia moglie, che mi accompagnava, ma loro, sempre
gentilmente, mi risposero che questo non era possibile, e che mia moglie
doveva fare la fila e pagare il biglietto come tutti gli altri.
La particolare conformazione territoriale del Piemonte, con abbondanza
di colline, in combinazione con il carattere sabaudo ha reso più
duratura qui che altrove la razza del coltivatore diretto. Qui sta
l’origine dell’impressionante ricchezza enogastronomica di questa
regione. Poiché, notoriamente, i piccoli proprietari terrieri si odiano
tra loro, ciascuno mette in campo tutta la propria capacità nel produrre
vino, carne, salumi, formaggi e formaggette. La presenza della Fiat non
ha modificato questo carattere: alle cinque del mattino, l’operaio Fiat
inforcava la motoretta e scendeva in città, e alla fine del turno
riprendeva la motoretta e se ne tornava al paese, e la sera la passava
al bar a giocare a carte e a bere con gli amici di sempre.
Così, città e campagna sono rimaste separate più nettamente che altrove.
Qui, anche senza confessarselo, si crede ancora nel re. Prima che una
famiglia di industriali, gli Agnelli sono stati una famiglia regnante, e
i suoi membri hanno sempre parlato (e parlano) al modo dei re.
Altra razza i liguri. Popolo marinaro, di difficile conquista per tutti.
Resistettero ai Romani, ai Saraceni, agli Austriaci, e oggi resistono ai
Milanesi. Gente abituata da secoli a trarre di che vivere da un mare
infido, generoso ma anche vedovifero, e da una terra avara. La chiave di
lettura di questo popolo sono le sue chiese, sfarzose di argenti e
lampadari e immagini preziose e riti antichi tuttora vivi. Il ligure ama
la ricchezza, ma più ancora ama essere lasciato in pace, e sa che i due
amori non sono sempre compatibili. La sua tirchieria, tanto proverbiale
quanto reale, ha un carattere fortemente filosofico e polemico:
piuttosto che spendere, il ligure preferisce non guadagnare. Ma non lo
fa per partito preso, lo fa perché investire significa attirare lo
straniero, e nella lunga storia di questa terra lo straniero è sempre
sceso «dal continente o dal mare non importa» come nemico, pronto a
portar via uomini, donne e soprattutto terra, che è già così poca. Anche
l’avidità ligure è di segno particolare. Il ligure non pianifica, vive
alla giornata. Se possiede qualcosa (una casa, un albergo, un
camioncino) lo spreme fino alla consunzione, fino allo sgretolamento. E
arricchisce (quando ce la fa) in questo modo. Se potete aiutarlo a non
dissanguarsi con tutte queste tasse, pagandolo in contanti anziché con
certi strumenti infidi (assegni, bancomat, carte di credito), lo vedrete
già più contento. Amata dai milanesi «soprattutto nel Tigullio, ma non
solo» la Liguria ripaga l’invasore benevolo con un disprezzo esemplare.
Un milanese ha qualche difficoltà a capire il carattere dei liguri,
perché di fronte ai milanesi i liguri presentano un’altra faccia, un
altro carattere. Io li amo perché sono fieramente diversi «anche i
giovani, anche i bambini» da tutti gli altri, e perché difendono ancora
questa diversità. Nel mondo globalizzato, nessuna terra è meno
globalizzata di questa.
E noi lombardi come siamo? Anche qui le differenze sono tante. Se il
Piemonte è francofilo e il Veneto decisamente asburgico (e questo vale
da Verona a Trieste), la Lombardia ubbidisce alla sua vocazione di terra
mediana, la cui ricchezza naturale ha attratto popoli e culture diverse,
attratti qui dalla miseria, dalla sete di guadagno, ma anche dal puro
amore. Nessuna terra, in Italia, ha accolto un numero così grande di
forestieri per tante ragioni diverse. In un contesto simile, la Chiesa
ha giocato un ruolo fondamentale. Il cattolicesimo, qui, non si è
presentato con il volto del potere, ma con il volto dell’impresa, del
lavoro, della solidarietà. Da Stendhal a Manzoni alle Casse Rurali
all’enorme quantità di opere sociali, cattoliche e laiche, la Lombardia
è terra di cultura e d’impresa non solo per la sua ricchezza naturale,
ma anche per la sua estrema permeabilità.
Pratico, sbrigativo, ma anche generoso e accogliente: questo il tipo del
lombardo. Con differenze che si svelano all’interno di questa griglia:
più ruspante il bresciano, più snob il milanese, più rozzo il brianzolo,
più ironico il mantovano. Tutta la cultura lombarda si condensa nella
parola impresa. Il lombardo ha fiducia nel tempo, conosce la benevolenza
degli dèi e non disdegna progetti a lungo raggio: in questo, è l’opposto
sia del ligure che del pedemontano.
Ma per quanto tempo durerà? Fra tutti, il longobardo è il più fragile.
Capiranno i figli la lezione dei padri? Qui, più che altrove, il segreto
di una terra è affidato a ciò che, liberamente, i padri trasmettono ai
loro eredi. Ma già impazienza, cinismo, disaffezione prendono piede come
una mala pianta. «Ma già è scesa la bruma, e le desolate nevi» scrisse
Carlo Emilio Gadda, ultimo Gran Lombardo della nostra storia. La bella
imprenditorialità bresciana, bergamasca, insomma lombarda vive di
energia affettiva, perché il lombardo è un tipo affettivo (da ad-ficio,
aderisco): la sua forza è la forza di adesione alla storia, al tempo,
alla realtà. Tutta la grande letteratura lombarda, tra sentimento e
ironia, tra humour e stringimento di cuore, ci parla di questo.
Una volta sgretolato il potente ma fragile piedistallo lombardo, capace
di grande portanza ma sensibile ai colpi a tradimento, difficilmente il
Nord-Ovest resisterebbe. Perché, comunque sia, Piemonte e Liguria
dipendono da noi lombardi, che non siamo poi così forti, e siamo come
quei padri in difficoltà, ancora determinati a mostrare ai figli un
volto fiducioso e sereno, ma “dentro” consumati dal dubbio e
dall’incertezza. Ma, comunque sia, la Lombardia è un dono degli dèi.
Toccherà, dunque, a loro stabilire che ne sarà di noi.
25 giugno 2004 |