L’identità settentrionale 
        di Roberto Chiarini 
        
        
        
      
        da Ideazione, marzo-aprile 2004 
         
        Da quando la Lega ha fatto la sua comparsa, ogni qual volta si presenta 
        ad una prova elettorale, è data in grande difficoltà: da alcuni in 
        probabile caduta, da altri addirittura in rotta. È in gran parte il 
        portato di un’incomprensione del fenomeno, di una difficoltà – o, 
        peggio, rifiuto – a cogliere i caratteri strutturali che sono alla base, 
        prima, della sua insorgenza e poi della sua fortuna. Ciò ha incoraggiato 
        i più a considerarlo un movimento essenzialmente di protesta, cioè al 
        fondo effimero, destinato quindi presto o tardi ad essere riassorbito. 
        Cambiano di volta in volta le ragioni addotte per motivare l’infausta 
        prognosi. Resta la propensione ad emettere con una certa faciloneria 
        vaticini pessimistici: una propensione solo attenuata dalle ripetute 
        smentite nel frattempo accumulate. 
         
        La capacità di tenuta e il radicamento sul territorio dimostrati dalla 
        “protesta leghista” – se proprio di protesta si vuol continuare a 
        parlare – non ci esimono dal compito di verificare, di volta in volta, 
        le condizioni ambientali esterne e lo stato di salute interno del 
        movimento, se almeno non si vuole incappare in nuovi fraintendimenti o 
        emettere spericolati pronostici. Impegno, questo, tanto più doveroso 
        nell’attuale frangente che vede il partito di Bossi chiamato ad 
        affrontare una doppia prova elettorale – voto per le amministrative e 
        per le europee – nell’inedita condizione che gli viene dalla prolungata 
        (ben tre anni ininterrotti) condivisione di responsabilità di governo e 
        dall’improvvisa indisponibilità della figura, risultata sinora 
        insostituibile, del suo leader fondatore. Non si tratta di due novità 
        marginali, bensì centrali per il modo d’essere della Lega e quindi con 
        ogni probabilità destinate ad esercitare serie conseguenze non solo 
        sulla sua resa elettorale ma forse anche sul suo stesso futuro politico. 
        Esse investono infatti almeno due dei caratteri unanimemente individuati 
        dalla letteratura sociologica e politologica come portanti del successo 
        leghista. Questi possono essere così riassumibili nella rappresentanza 
        politica della “subcultura bianca”, nella valorizzazione del pregiudizio 
        “anti-politico”, nell’offerta di una tutela ai settori borghesi ed anche 
        popolari delle aree periferiche delle regioni settentrionali afflitti da 
        un senso di insicurezza e di deprivazione relativa e, da ultimo, in una 
        forte leadership dalla spiccata impronta carismatica e plebiscitaria. Se 
        si ripercorre la dinamica dell’avanzata leghista, non è difficile 
        cogliere come siano oggi in forse proprio due degli elementi portanti 
        della sua forza sopra-evidenziati. 
         
        Il Nord che cambia: all’origine della Lega 
         
        Lungi dal costituire la semplice, ricorrente ma effimera, emersione 
        dell’atavica disaffezione plebea allo Stato e alla politica, il leghismo 
        affonda le radici nel grande sommovimento che ha scosso la società e la 
        politica italiana nell’ultimo quarto del secolo scorso. Una forte e 
        diffusa disaffezione nei confronti dei partiti, specie nei settori meno 
        politicizzati dell’opinione pubblica, è stata una costante della nostra 
        Repubblica. Diventa, però, per la prima volta un’effettiva forza 
        politica solo a partire dagli anni Ottanta. L’allentamento della presa 
        ideologica e del controllo esercitato dai partiti fa venire meno i 
        fattori che avevano ostacolato fino allora il tracimare del cronico 
        scontento nutrito dal paese verso il sistema. 
         
        Non è solo la crisi delle forme consolidate della mobilitazione e della 
        rappresentanza politica ad offrire nuovi spazi all’intraprendenza di un 
        nuovo imprenditore politico. Sono in atto, sempre negli stessi anni, 
        massicci processi di modificazione strutturale della società. I 
        cosiddetti “partiti d’integrazione di massa” hanno avuto in Italia la 
        loro stagione d’oro negli anni del “miracolo economico”, hanno occupato 
        lo spazio e svolto il ruolo propri di ogni agenzia sociale capace di 
        erogare nuove identità collettive nel momento in cui quelle tradizionali 
        venivano erose. 
         
        Ora, quanto più vasto e profondo è stato il controllo esercitato dai 
        partiti, tanto più rovinoso è il processo che si origina in seguito al 
        loro collasso. La chiusura del ciclo di prima industrializzazione aveva 
        già creato le condizioni perché i partiti ideologici di massa uscissero 
        di scena, almeno nella loro originaria versione di agenti primari della 
        socializzazione e della partecipazione politica. A scavare sotto i loro 
        piedi una fossa ancor più profonda sono la qualità e la forza della 
        domanda politica che prende forma dalle viscere della società – 
        chiamiamola per brevità – post-industriale. Con l’avanzare delle nuove 
        forme di organizzazione del lavoro, tramontano la fabbrica fordista e, 
        insieme ad essa, la figura dell’operaio-massa: i due pilastri su cui 
        aveva poggiato per circa mezzo secolo un’area di relativa omogeneità 
        culturale nel mondo del lavoro che aveva orientato le preferenze 
        politiche verso i partiti di massa, soprattutto verso uno stile politico 
        fatto di identificazione ideologica, di solidarietà umana, di 
        partecipazione attiva alla causa. 
         
        Sulle ceneri di questo mondo è nato un complesso fondato sulla piccola 
        industria e la comunità locale. Non si tratta tanto di specifiche realtà 
        economiche, quanto di formazioni sociali produttrici di comportamenti 
        collettivi, di stili di vita, di valori interiorizzati condivisi che 
        configurano un orizzonte ed una domanda politica nuovi rispetto agli 
        anni di fondazione della società industriale di massa. L’opposizione 
        “vitalità della piccola industria/decadenza della grande” ha spostato a 
        favore della prima tutto il richiamo e la forza simbolica sprigionata 
        dal cambiamento in atto. In questo humus hanno attecchito valori – e si 
        sono propagati comportamenti – orientati al liberismo, alla contrarietà 
        verso l’intervento statale nella regolazione e soprattutto nella 
        gestione economica, alla preferenza per il privato rispetto al pubblico, 
        al pregiudizio sfavorevole nei confronti della politica e dei partiti in 
        particolare. Ne è derivata la condivisione di un codice di comportamento 
        che aiuta a trasferire sul terreno della politica atteggiamenti e modi 
        di fare sempre intrisi di individualismo. 
         
        La perdita del partito come fonte primaria di produzione di valori, di 
        solidarietà, di obbligazioni – e qui siamo ad un ulteriore aspetto del 
        cambiamento intervenuto nella società italiana – ha fatto riscoprire e 
        rilanciare la sponda della comunità locale. Su questo terreno è stato 
        possibile ritrovare un concreto riferimento per le relazioni sociali e 
        un ambiente favorevole in cui ricostruire solide identità collettive 
        compensative ed alternative alle vecchie. La riscoperta/valorizzazione 
        delle reti fiduciarie primarie – dalla famiglia alla comunità – è solo 
        il risvolto socioculturale della diffusione di un modello di sviluppo 
        centrato sulla Terza Italia, sulla micro-impresa, sui distretti 
        industriali e costituisce il supporto del subentro del sistema politico 
        locale a quello nazionale. Le società municipali non hanno accusato 
        alcuna difficoltà a convivere con l’Italia nuova, prima, del miracolo 
        economico e poi della stag-inflation. Si sono anzi col tempo 
        consolidate, ritagliandosi un ruolo ed una funzione addirittura 
        sistemici perché congruenti con le caratteristiche strutturali della 
        società italiana. 
         
        La frattura centro/periferia e l’irrompere di 
        bossi 
         
        Le subculture territoriali sono sempre state la testimonianza vivente 
        della frattura consumatasi tra centro e periferia all’interno della 
        società italiana e stabilmente riprodottasi nelle varie fasi dello 
        sviluppo economico e sotto i diversi regimi politici. Si possono 
        considerare l’espressione della frattura storica, ma anche il suo 
        occultamento/depotenziamento. Grazie alla capacità di governo – per via 
        di aggregazione e mediazione – dei vari interessi anche confliggenti 
        presenti sul territorio, esse hanno garantito la tenuta delle società 
        locali. Di più: esse hanno promosso il loro sviluppo assicurando al 
        contempo il più basso tasso di conflittualità, esempio originale di 
        conciliazione tra tradizione e modernità.  
         
        Il loro ruolo nel sistema politico nazionale cambia con il progressivo 
        scollamento in corso tra politica e comunità locale. Questo lascia la 
        subcultura bianca, per così dire, politicamente orfana, oltre che 
        largamente insoddisfatta nelle sue domande. Vengono meno infatti sia il 
        ruolo del partito – la Dc – quale tramite della domanda politica tra 
        comunità locale e governo sia la capacità dell’amministrazione 
        municipale di contrattare direttamente con il centro burocratico e 
        istituzionale romano. Il tutto si consuma peraltro in una stagione 
        contrassegnata dai profondi e radicali cambiamenti indotti 
        dall’integrazione economica europea e dalla mondializzazione degli 
        scambi; il che si traduce per la comunità locale in nuove e più 
        impegnative sfide da affrontare. 
         
        Lo scontento, equamente ripartito tra governo e centro, finisce per 
        riattivare e rilanciare gli antichi e mai sopiti pregiudizi 
        dell’anti-politica, dell’anti-statalismo e dell’anti-centralismo. Sono i 
        temi su cui monta la mobilitazione leghista un po’ dappertutto nel 
        Settentrione, di preferenza nelle zone storiche di insediamento 
        dell’associazionismo cattolico. La subcultura cattolica paga il 
        carattere eminentemente aggregativo da essa impresso al sistema politico 
        locale. Il danno si aggrava complicandosi con il processo di 
        secolarizzazione che la scompone al proprio interno, oltre naturalmente 
        ad eroderla. Una parte del mondo cattolico reagisce alla perdita di 
        rilevanza della dimensione religiosa nella vita collettiva riscoprendo 
        la passione per la testimonianza personale dei valori di solidarietà e 
        fratellanza il cui naturale sbocco è l’impegno nelle varie forme del 
        volontariato, per definizione a-politico e, a maggior ragione, 
        a-partitico. Un’altra parte, avendo invece interiorizzato i valori 
        neo-materialistici della società mercantile, è portata ad appoggiarsi a 
        quel che resta della subcultura cattolica per rifondare un senso di 
        appartenenza alla comunità locale. Spogliata della componente 
        etico-religiosa, essa si risolve a questo punto in mera risorsa politica 
        utile a tutelare gli interessi particolaristici del territorio, in 
        aperta contrapposizione alla politica ed allo Stato, identificati 
        spregiativamente col Centro. 
         
        La partita innestatasi sulla frattura centro/periferia, rimasta per 
        tutto quel tempo in uno stato – per così dire – di latenza politica, 
        eppur saldamente presente nel sentire nazionale, fa la sua fragorosa 
        comparsa sulla scena politica. Nel momento in cui essa incontra un 
        imprenditore politico deciso a farne la propria issue privilegiata, non 
        a caso riceve un decisivo rinforzo nel moto di protesta e, presto, di 
        vero rigetto verso la politica ufficiale dei partiti e dello Stato che 
        sale nel paese e che sfocia al tornante degli anni Novanta nella 
        mobilitazione insorta a sostegno della questione morale e nel cosiddetto 
        movimento referendario. A dispetto delle diverse, se non opposte, 
        ideologie ispiratrici dei tre “popoli in rivolta” – i leghisti, i 
        giustizialisti, i referendari – la loro azione assomiglia molto ad una 
        di quelle manovre d’attacco a tenaglia che muovono per linee separate ma 
        concentriche contro lo stesso nemico: ossia contro lo Stato dei partiti, 
        del centralismo, della corruzione. 
         
        La spinta dell’anti-politica 
         
        L’assalto alla «Roma capitale dello Stato centralista, della 
        partitocrazia e della corruzione» rilancia e virulenta l’antica 
        ispirazione impolitica dell’Italia profonda e sommersa che ha trovato 
        nell’identità settentrionale – un’identità fatta di etica del lavoro, di 
        cultura del merito, di orgoglio per la sana e onesta amministrazione – 
        il suo caposaldo. Non è un caso che, per quanto in forme e in misura 
        assai diverse, tutti e tre i moti di protesta trovino proprio nel 
        Settentrione le loro roccaforti: siano esse le zone bianche della 
        Lombardia e del Veneto, i fans del pool di Mani Pulite di Milano o i 
        lettori de il Giornale montanelliano, sempre di Milano.  
         
        È un movimento tumultuoso e scomposto che si distribuisce in alvei 
        diversi: nella Lega, ma anche in Forza Italia, oltre che nella sinistra, 
        tutti a diverso titolo interpreti di un sentimento anti-politico. È 
        comunque il partito del Carroccio a trovare un supporto più saldo degli 
        altri proprio in quel che resta della realtà e del mito della comunità 
        locale unificando le sparse e non sempre coerenti membra della “nazione 
        lumbarda” nella contrapposizione-ostilità al Centro e nella 
        identificazione-fedeltà ad un leader carismatico. L’unicum che 
        contraddistingue il movimento di Bossi sta proprio nella 
        diversità/alterità irriducibili rispetto al sistema istituzionale e 
        politico dei partiti nazionali: ai contenuti della loro politica come ai 
        simboli ed allo stile di cui si nutre. Ragion per cui la sua è una 
        condizione liminare: perennemente in bilico tra contestazione e riforma 
        del sistema, tra secessione e federalismo, tra opposizione frontale a 
        tutti e tutto e partecipazione al governo. La prima opzione comporta il 
        rischio della marginalità proprio di ogni movimento di protesta, la 
        seconda quello della omologazione. Rischi entrambi mortali e debitamente 
        (sinora) scansati dalla Lega grazie ad una navigazione perigliosa 
        affidata alle abili e spregiudicate giravolte del suo nocchiero che ha 
        fatto della totale libertà di movimento l’elemento di forza del partito 
        e dei successi ottenuti il decisivo rinforzo della sua personale 
        legittimazione. È evidente che la continuativa permanenza al governo in 
        solidale (per quanto litigiosa e perennemente ricontrattata) 
        collaborazione con gli altri ospiti della Casa delle Libertà ha esposto 
        il partito di Bossi ad un logoramento che può lasciare il segno sulle 
        sue prossime performances elettorali. Nondimeno è ricca di incognite per 
        la Lega una competizione elettorale che la vede – anche in questo caso 
        per la prima volta nella sua storia ormai più che ventennale – priva 
        della guida e persino della presenza del suo leader. 
         
        Dei due handicap è forse il primo quello destinato ad avere le più 
        pesanti conseguenze. Nell’immediato infatti è molto probabile che il 
        danno dell’indisponibilità del leader maximo sia ampiamente risarcito – 
        il pensiero va al precedente del popolo comunista che volle tributare 
        l’ultimo caloroso omaggio a Berlinguer con un massiccio sostegno alle 
        liste di partito dopo la sua scomparsa o, più vicino a noi, alla lista 
        Pim Fortuyn all’indomani dell’assassinio del suo leader dal forte 
        richiamo emotivo suscitato nei quadri e nello stesso elettorato leghista 
        spinti a raccogliersi attorno alla bandiera del Carroccio in spirito di 
        solidarietà con Bossi bloccato dalla malattia. Certo che il discorso 
        cambierebbe nel malaugurato caso che il fondatore della Lega non 
        tornasse presto alla guida del partito. È difficile ipotizzare una 
        gestione collegiale e, tanto più, una successione altrettanto 
        carismatica per una formazione che ha visto la sua storia identificarsi 
        con la figura e il ruolo di un personaggio carismatico come Bossi. 
         
        
        
        25 giugno 2004 |