Alla riscoperta del liberalismo realista
di Daniele Sfregola
[09 nov 06]

Nello splendido “Lo scopo della politica americana”, Hans Morgenthau si pone retoricamente il seguente quesito: “La libertà individuale è più importante della sicurezza nazionale, senza la quale non ci sarà affatto libertà?”. Non si tratta di un esercizio accademico. Il tema rappresenta, probabilmente, il vulnus storico della filosofia liberale. Questo perché lo “stato di guerra” è per definizione una minaccia per la libertà individuale. Eppure, insieme al commercio, la guerra è la più antica e la principale delle interazioni fra gruppi distinti di esseri umani.
La “comunità internazionale” – formula impropria con la quale si intende il complesso degli Stati che definiscono il sistema internazionale – è strutturalmente anarchica. E’, cioè, una comunità di coordinamento, non di subordinazione. Essa è priva di un’autorità centrale dotata di poteri coercitivi di tipo verticale e di organi periferici istituzionalmente preposti a subirli. Al contrario, questa nasce e si realizza esclusivamente nei termini di una pluralità di Stati sovrani ed indipendenti, che nulla riconoscono al di sopra di essi e che in ragione di questo motivo partecipano di tale sistema.

Quello che Hobbes e Rousseau definiscono “stato di guerra” è quindi conseguenza di siffatta anarchia strutturale: il pericolo che l’assenza di un soggetto dirimente le controversie tra Stati porti allo scoppio di conflitti influenza i governi, li obbliga a moltiplicare il loro peso interno e quindi a ridurre la sfera d’autonomia privata riconosciuta in capo ai singoli individui. Questo tipo di speculazione è tuttavia insufficiente, perché si limita ad analizzare la dinamica interna agli Stati dovuta allo “stato di guerra”. La dinamica delle relazioni tra Stati continua a rappresentare un tema marginale nella biblioteca liberale. Lo ammise, a suo tempo, Raymond Aron quando, in sede di recensione de “The Constitution of Liberty” di Friedrich von Hayek, affermò a chiare lettere che - “come la maggior parte dei liberali” – il grande Hayek snobbava la politica estera. Ma questo, in termini di rigore, costituiva un grave limite alla stessa teoria austriaca della libertà garantita dalle leggi. Per sua natura, la politica estera è il dominio degli uomini, della discrezionalità politica, di una irredimibile gradazione arbitraria – l’arte diplomatica - del tutto sottratta alla legge hayekiana.

Il denominatore comune alla tradizione liberale è il timore degli effetti della politica internazionale sulla libertà negativa. Ma ad una tale, logica avversione non è seguita una risposta univoca. Il liberalismo classico scelse, in coerenza con le fondamenta del pensiero di libertà di cui era portatore, la soluzione realista – nel senso di realismo politico. Ma, a partire dal XIX secolo, l’elevazione della “domestic analogy” a criterio-guida della timida speculazione internazionalista liberale comportò dapprima l’emergere e in seguito il prevalere di una interpretazione idealista dell’antinomia potenziale tra libertà e sicurezza. A grandi linee, la distinzione regge ancora oggi e ruota attorno alla possibilità di trasformazione del sistema internazionale mediante l’analogia domestica dei Paesi che hanno sperimentato con successo il modello liberaldemocratico – democrazia, libertà, pace sociale, legge.
Come spiega Angelo Panebianco nel suo “Il potere, lo stato, la libertà”, il filone realista sostanzia l’origine del pensiero liberale, ma col tempo viene dimenticato e sostituito con un orientamento più militante ed idealista. Ma il fatto che dall’Ottocento sia divenuto predominante quest’ultimo filone, non significa di certo che quello minoritario si sia nel frattempo allontanato dalla dottrina liberale. In termini concettuali, è piuttosto vero il contrario.

I padri del liberalismo – tra i quali Locke, Hobbes e Hume, e poi ancora Montesquieu, gli autori del “Federalist”, Tocqueville, Adam Smith e altri ancora – risolsero il dilemma prescrittivo predetto in senso realista. Essi concepirono la politica internazionale come il regno in cui si esercita il “potere federativo”, ossa il potere puro, non subordinabile alla legge, in considerazione del suo carattere anarchico. Tale potere è chiamato a decidere sulle alleanze, sulla pace, sulla guerra e, come tale, è quindi legato al “variare delle intenzioni e degli interessi” e “dev’esser lasciato in gran parte alla prudenza di coloro a cui si è affidato […] secondo il meglio della loro abilità, per il vantaggio della società politica” (Locke, 1690).

Hume fu profondamente influenzato dagli insegnamenti di Machiavelli nei rapporti tra Stati e difese filosoficamente la pratica dell’equilibrio delle forze perché necessaria nei sistemi in cui coesistono plurime unità politiche indipendenti, in coerenza con i limiti di potere auspicabili all’interno di una società libera. Ma Hume andò anche oltre, dando vita alla più coerente sintesi tra libertà individuale, società libera e sicurezza anarchica internazionale. Egli infatti teorizzò la necessità dell’anarchia internazionale, della politica di potenza e della “balance of power” ai fini della nascita di governi liberi. Per Hume la Grecia classica, l’Italia rinascimentale e l’Europa settecentesca – i soli esempi di un certo grado di libertà individuale raggiunta dall’uomo nel corso della storia, al momento in cui egli era in vita - dimostrano che i governi liberi sanno insediarsi solo dove agiscono una pluralità di Stati “indipendenti e vicini, collegati dal commercio e dalla politica” (Hume, 1742-1752). Il liberalismo classico di Hume, come quello di Adam Smith, diventa liberalismo realista negli affari internazionali, per spirito di empirismo e coerenza filosofica.

Del Montesquieu che studia le relazioni internazionali è nota soprattutto la tesi del “doux commerce”: i commerci ingentiliscono usi e costumi e pacificano le relazioni tra gli Stati. Eppure, in realtà, Montesquieu è un altro maestro del realismo liberale. Egli ritiene che “societas” e “stato di guerra” coincidano (“Esprit des lois”, Libro I), condivide l’idea di Hume sull’equilibrio delle forze e infine teorizza la “società delle società”, ossia quella “repubblica federativa” che, “capace di resistere alle potenze straniere, può mantenersi nella sua grandezza senza corrompersi all’interno” (Libro IX).
Queste idee influenzeranno enormemente gli autori del “Federalist” e quindi le sorti dell’Unione americana. Scrisse Hamilton: “Se dobbiamo giudicare da quella che è la storia dell’umanità, dobbiamo concludere che la passione fiera e distruttrice della guerra regna negli animi degli uomini in modo assai più potente di quanto non avvenga per i miti e benefici sentimenti di pace” (The Federalist, n. 34, p. 337). Hamilton seppe anche speculare relativisticamente sulla capacità della geopolitica di influenzare in modo significativo il corso delle vicende di una nazione e la condotta pragmatica degli affari esteri da parte del suo governo.

Tocqueville scrisse della difficoltà delle democrazie dinanzi alla conduzione della politica estera, analizzò con insuperata preveggenza le conseguenze nefaste della guerra sul peso dei governi nella vita politica e sociale interna e auspicò quale più efficace dei rimedi la creazione di un esercito potente e capace di dissuadere gli agenti esterni.
Il liberalismo ottocentesco, tuttavia, mise da parte queste idee, che pure in combutta con le dirigenze conservatrici dell’epoca aveva generato un capolavoro diplomatico quale il Concerto Europeo, che garantì sessant’anni di pace al vecchio continente. Intimoriti dallo “stato di guerra” derivante dall’anarchia internazionale, la seconda generazione di grandi liberali condannò senza appello la pratica dell’equilibrio delle forze ancor prima che questo desse segni di cedimento in virtù di un approccio millenaristico anziché storico, la “nuova èra liberale”. Persuasi che la soluzione al potenziale contrasto tra la tutela della libertà e la garanzia della sicurezza nazionale risiedesse nell’eliminazione del carattere anarchico del sistema internazionale, i più importanti esponenti del pensiero liberale di quel secolo si affaticarono nella congettura di strategie finalizzate a modificare costruttivamente la natura del mondo. Sorsero teorie che ebbero largo seguito, che influenzarono lo sviluppo dell’intero pensiero liberale nei decenni a seguire e che, nonostante i ciclici fallimenti, continuano a persistere ancor oggi.

Il presupposto è comune a tutte le teorie liberali idealiste: la “domestic analogy”. Il commercio, la legge, la democrazia possono cambiare il mondo, pacificarlo e regolarlo mediante appositi istituti, così come avviene in una democrazia liberale con le istituzioni sociali interne. Benjamin Constant parlò di “età del commercio”. Più in generale, quei liberali estremizzarono la tesi di Montesquieu del “doux commerce” e attribuirono alla pratica dello scambio di beni tra più Stati una valenza salvifica. A lungo, per quasi tutto l’Ottocento, si ritenne che tale idea fosse comprovata dai fatti. Una moltitudine di pensatori rafforzò questa teoria: Jean Baptiste Say, Friedrich Bastiat, Herbert Spencer, John Stuart Mill, Richard Cobden. In realtà, come anticipato, i sessant’anni di pace – e l’espansione commerciale che si accompagnò - furono innanzitutto preservati dalla pratica diplomatica della “balance of power”, il complesso gioco di incentivi e disincentivi di potenza tra gli Stati accompagnato da un consenso etico sostanzialmente omogeneo. Prova ne sia la constatazione storiografica secondo la quale l’èra del Concerto Europeo, e quindi della pace e del benessere nel vecchio continente, venne meno con l’emersione destabilizzante al rango di potenza geopoliticamente decisiva della Prussia bismarckiana, non certo con repentine restrizioni alla libertà commerciale. Al di là di ciò, può dirsi con ragionevole certezza che se è vero che il libero commercio tra Stati tende a favorire un comune interesse alla preservazione della pace, è altrettanto vero che non esistono relazioni politico-militari deterministicamente segnate tra Stati che commerciano fra loro.

La pace democratica e quella della legge accompagneranno, spesso in modo concettualmente confuso, la teoria della pace commerciale. La prima, con personaggi come Paine e Bentham, si affida ad un assioma storicamente inesatto: l’opinione pubblica, se lasciata libera di influenzare il corso degli eventi politici, ha una forza pacificatrice e democratizzante capace di espandersi a macchia d’olio in giro per il globo. L’obiettivo utopico di un siffatto ragionamento è, col tempo, la sostituzione delle relazioni diplomatiche – ritenute poco “democratiche” e trasparenti di per sé – con meccanismi automatici di risoluzione pacifica delle controversie internazionali. Aron dimostrò, tuttavia, che il XX secolo insegna la stupefacente capacità delle società democratiche di oscillare tra pacifismo ad oltranza e bellicosità istantanea. Inoltre, sebbene vi sia una certa regolarità empirica nell’assioma secondo il quale le democrazie non si fanno la guerra, esistono anche rilevanti eccezioni e, soprattutto, la correlazione è spuria: per ogni coppia di democrazie l’eventualità della guerra è statisticamente rara, ma non assente, e ciò però basta ad inficiare i presupposti teorici dell’assioma; inoltre, la storia recente non può assurgere a parametro unico, casomai a semplice indizio, perché il confronto ideologico della Guerra Fredda ha, di fatto, posto le democrazie sotto l’ombrello egemonico americano, rendendole, alla bisogna, “semi-democrazie”, e non democrazie liberali nel senso pieno del termine.

La tesi della pace della legge trova in Immanuel Kant il suo più degno assertore. Sebbene quest’ultimo in realtà si sfili facilmente da classificazioni di maniera e non disdegni affatto l’approccio realista alle relazioni internazionali - per esempio ammettendo l’equilibrio delle forze - tuttavia pone a monito morale di ogni uomo il superamento dello “stato di guerra” mediante la “pace perpetua” e una unione giuridica – il diritto cosmopolitico - che, però, nelle intenzioni originali del suo autore avrebbero dovuto vedere la luce in un futuro indefinito, a corollario storico di un percorso prettamente ideale.
Nella seconda metà del Novecento, studiosi delle relazioni internazionali del calibro di Morgenthau, Lippmann, Aron tentarono, con discreto successo e mediante una certosina opera di critica strutturale agli assiomi della corrente idealista, di spostare nuovamente il baricentro della concezione internazionalista della scuola liberale verso posizioni di Realpolitik. Ma la fine della Guerra Fredda, l’improvvisa e tardiva scoperta dei valori del libero mercato da parte delle migliori menti del progressismo moderato occidentale, l’ondata culturale di riscoperta del pensiero filosofico in esame attraverso i suoi più recenti esponenti “mainstream” ha finito per rinsaldare le fila di chi crede che, fuori dai confini nazionali, l’interventismo e il costruttivismo istituzionale siano coerenti con ciò che invece rappresenta il loro esatto contrario sino al ceppo di frontiera: l’equilibrio costituzionale di poteri o forze e la libertà d’azione.

La crisi dell’istituzionalismo liberale e della “domestic analogy”, così impietosamente evidenziata dalla paralisi iperburocratica dell’Onu e dai danni sistemici dell’interventismo democratico, è la crisi della corrente idealista del pensiero liberale applicato alla politica estera. Il tradizionale dilemma tra la libertà individuale e la sicurezza nazionale richiede una nuova risposta concettuale. Alla riscoperta del liberalismo classico in economia, che ha caratterizzato il decennio passato, oggi converrebbe aggiungere il recupero di quella pragmatica saggezza fondativa applicata alle relazioni tra Stati.


daniele.sfregola@epistemes.org


09 novembre 2006

 


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