Un giudice solo
di Corrado Carnevale e Andrea Monda
Marsilio, Venezia, 2006
pp. 253, Euro 14
 

Autobiografia di un giudice scomodo
di Alberto Indelicato
[31 ago 06]

Si potrebbe leggere come un romanzo alla maniera di Franz Kafka, a cui lo accomunano le indagini segrete e la nebulosità delle accuse. Ma l’iter processuale di Joseph K. non si trascinò per dodici anni, le sue drammatiche vicende non furono anticipate e seguite da giornalisti tanto ben introdotti quanto poco scrupolosi nel fare il loro dovere. Il libro appena pubblicato non è naturalmente un romanzo. E’ invece il resoconto del suo reale calvario, iniziato nel 1992 ed in certo senso non ancora concluso, ed è anche una denuncia, documentata in ogni particolare, delle disfunzioni di quella magistratura di cui Carnevale costituiva uno dei rappresentanti più preparati ed apprezzati. Di questa istituzione appaiono due facce, non soltanto diverse ma addirittura opposte: quella di chi ritiene di dover applicare imparzialmente il diritto e quella di chi persegue altri fini.

Il libro, inoltre, è anche la radiografia di quella parte politica che, mentre esalta i principi della civiltà giuridica e della costituzione, non ha alcun ritegno nel violarli per realizzare i suoi scopi. Carnevale ricorda, ad esempio, come la divisione dei poteri, così spesso invocata con toni aulici e commossi nelle celebrazioni ufficiali, fu varie volte impudentemente calpestata da noti parlamentari, di cui vengono fatti i nomi e da uomini di governo, democristiani e socialisti, per compiacere l’opposizione “giustizialista”. La famosa indipendenza della magistratura, nel caso concreto quella della Corte di Cassazione, fu brutalmente calpestata per incastrare Carnevale, secondo l’elegante espressione che quei politici utilizzarono rivelando anche con quel linguaggio il loro livello morale.

L’autore non nasconde le sue colpe e anzitutto il fatto di essere arrivato al vertice della carriera senza mai aver chiesto la protezione di un politico, né di una componente della magistratura associata e politicizzata; quindi di aver organizzato razionalmente il suo lavoro nei vari uffici da lui diretti, dando un esempio di grande operosità ai suoi collaboratori e dimostrando con i fatti che l’inefficienza della magistratura italiana non è una fatalità e non è motivata né dalla scarsità di mezzi né dalla mole di lavoro, che egli per suo conto riuscì a smaltire rapidamente in Cassazione, presiedendo due sezioni: una penale ed una civile. Un comportamento, il suo, che evidentemente disturbava. Ma naturalmente c’era molto di più.

Le decisioni della sua sezione penale riaffermavano principi, che erano stati abbandonati con grave danno della giustizia, come la necessità che le norme poste a tutela della libertà dei cittadini, che i giustizialisti bollavano come cavilli, non fossero ignorate - come era avvenuto a lungo - in nome della“guerra alla criminalità politica o comune, perché lo Stato non si abbassasse al livello dei suoi nemici; o l’esigenza che le prove su cui basare le sentenza fossero autentiche e non consistessero soltanto in dubbie dichiarazioni, non confermate da alcun riscontro, di collaboratori desiderosi di compiacere gli inquirenti e di ottenere sconti di pene, immunità e premi. La giurisprudenza di Carnevale e dei suoi colleghi di Sezione - nessuno dei quali fu mai processato e neppure indagato perché era lui l’uomo da abbattere - consisteva insomma nell’esigenza che la legge fosse applicata nella lettera e nello spirito. I casi di malagiustizia citati nel libro sono innumerevoli ed impressionanti, così come sono chiari e documentati i rilievi di Carnevale, che non ha alcuna esitazione nel sottolineare la negligenza, l’approssimazione e la scarsa preparazione giuridica dei “colleghi” suoi accusatori, che spesso dimostravano di ignorare non solo la giurisprudenza ma addirittura le norme di legge.

Quella malagiustizia è stata applicata anche a lui con i due processi costruiti sul nulla. In quello di Palermo, le decisioni prese collegialmente dalla prima sezione della Cassazione erano attribuite solo alla sua persona, come se i suoi colleghi, tutti più anziani, fossero dei burattini nelle sue mani. L’accusa non faceva risparmio di pentiti, le cui affermazioni anche ad un bambino, ma non ai pubblici ministeri, sarebbero apparse totalmente incredibili. Le decisioni della prima sezione penale presieduta da Carnevale si sono peraltro dimostrate sempre corrette e sono state confermate da altri collegi giudicanti, che non hanno però subito gli attacchi vergognosi di una stampa i cui maggiori esponenti, i Giorgio Bocca, i Mario Pirani e simili, nel libro sono trattati come meritano. C’è un’affermazione, troppo spesso ripetuta, che viene smentita da Carnevale e dalle sue stesse vicende: quella secondo cui la lentezza tartarughesca dei processi sia sempre da attribuire alle manovre degli avvocati e non alla neghittosità di altri “operatori della giustizia”.

Se così fosse, come spiegare non soltanto che i suoi due processi, a Napoli e Palermo, siano durati tanto a lungo malgrado il suo interesse ed i suoi sforzi per una rapida conclusione? E come mai, a due anni dalla sua richiesta di rientrare in servizio, il Consiglio Superiore della Magistratura non ha ottemperato per lui - e solo per lui - al preciso dettato di una legge dello Stato, malgrado una sentenza del Tribunale Amministrativo, che ha dato torto a quell’altissimo consesso? Due anni per non concludere e non applicare una legge. Non c’è male come esempio di laboriosità ed efficienza di quegli organi e specialmente di quelli giurisdizionali dello Stato, che dovrebbero dare il buon esempio.