Il protocollo dell'orrore
di Enrico Palumbo*
[30 mar 06]
Ci sono
discussioni che non andrebbero nemmeno intavolate: chi per esempio
voglia discettare circa la bontà del genocidio in Ruanda non merita
nemmeno una risposta. La nostra civiltà ha raggiunto un livello di
consapevolezza dei propri principi di base che non ammette obiezioni su
questioni cardine. Una di queste, che unisce diversissime e spesso
contrastanti culture all’interno del multiforme paradigma occidentale, è
l’inviolabilità della vita umana, il rispetto per un bene considerato
supremo per ogni individuo.
Capita però che anche sulle mostruosità si voglia cavillare. C’è chi,
costruendo la propria identità esclusivamente in negativo (cioè «contro»
qualcuno), finisce per devastare, con sprezzo del ridicolo, ogni punto
fermo della nostra civiltà: punto fermo raggiunto dopo secoli di
elaborazioni culturali e, perché no, di errori. Il tutto nella logica
malata che non esisterebbe principio o valore che non sia
relativizzabile. Ecco dunque che perfino il valore della vita umana
diventa relativo: la vita non è più considerata valore in sé ma legato a
pericolose considerazioni sulla «qualità», sulla «dignità», sulla
«felicità». Obiettivi, ovviamente, da perseguire, ma che non definiscono
in sé – soprattutto se è qualcun altro a decidere per noi – se sia
lecito decretare la morte di un altro essere umano.
Poiché è capitato che a difendere il diritto dei bambini a vivere si sia
trovato chi rappresenta il nemico giurato di alcune culture politiche
che, appunto, costruiscono la propria identità in negativo, ecco che
perfino su un tema le cui conclusioni dovrebbero essere ovvie per ogni
persona civile e dotata di senno diventa terreno di scontro, con la
pretesa di creare un dibattito e l’accusa di non accettarlo se si guarda
a «talune teorie d’Oltralpe» con il disprezzo che meritano.
Non è la democrazia il solo metro per misurare la civiltà di un popolo:
anche in democrazia si incorre in mostruosità. Né l’essere stati vittime
del nazismo è sufficiente a essere esenti dal praticare misure che
ricordano il nazismo. La democraticissima Svezia ha, alle sue spalle
(non più di trent’anni fa), la vergogna
dell’eugenetica di Stato, con tanto di sterilizzazioni di massa di donne
sospette d’essere portatrici di geni non perfetti: sono recenti i mea
culpa e le cause di indennizzo. La Svezia non è (e non era
all’epoca) un paese nazista, anzi è una delle nazioni considerate più
civili d’Europa, tant’è che appena tagliano un albero lo rimpiazzano con
un albero nuovo. Ma l’eugenetica di Stato è una pratica nazista. Non
vogliamo chiamarla nazista? Poco importa, è soltanto un’etichetta (anche
se storicamente motivata): la letteratura scientifica pre-nazista
dell’ottocento è ricchissima di tentativi di giustificare ciò che oggi
riteniamo un orrore.
I Paesi Bassi sono un paese civilissimo e democratico, su questo non c’è
dubbio alcuno. Sorge qualche perplessità sulle loro capacità di
affrontare le sfide del XXI secolo, se pensiamo alla realtà sociale e
culturale che si nasconde dietro ai delitti Fortuyn e Van Gogh (per fare
due esempi recenti). Tuttavia anche l’Olanda può rendersi colpevole di
aberrazioni, quantunque democratiche: una di queste è l’uccisione
eugenica dei bambini malati, secondo quello che viene definito
“Protocollo di Groningen”. Non si tratta, benché possa sembrarlo a prima
vista, di un prodotto propagandistico dell’Okhrana, ma di un testo del
dottor Eduard Verhagen pubblicato su una seria rivista
scientifica, il «New England Journal of Medicine» (poi ci vorranno dire,
gli amici radicali, perché il NEJM è serio se pubblica gli articoli di
Verhagen, e
non lo è più se dice che la pillola RU486 è pericolosa per la salute
delle donne).
Cosa dice l'articolo? Che ogni anno in Olanda su 1000 bambini che non
raggiungono il primo anno di età circa 600 muoiono in seguito a una
decisione medica. La maggior parte di questi neonati uccisi rientra
nelle prime due categorie: la prima è quella dei bambini senza
possibilità di sopravvivere. La seconda viene presentata così
dal giornale on-line dei radicali:
Nel secondo [gruppo], i neonati che «sono sottoposti a terapia
intensiva», «con gravi malformazioni cerebrali o con gravi ed estesi
danni ad altri organi causati da ipossemia». Anche se «sopravvivono
oltre il periodo di cure intensive essi hanno una prognosi estremamente
negativa e una qualità di vita estremamente bassa».
Il testo riportato non è completo, si salta in malafede un pezzo
cruciale. Ecco il testo vero:
Questi pazienti possono sopravvivere dopo un
periodo di terapia intensiva, ma l’aspettativa sulle loro condizioni
future è molto cupa. Sono neonati con gravi malformazioni cerebrali o
con gravi ed estesi danni ad altri organi causati da ipossemia. Quando
questi neonati riescono a sopravvivere dopo il periodo di cure
intensive, hanno una prognosi estremamente negativa e una
bassa qualità di vita.
Come si può notare, il testo completo presenta qualche dettaglio più
inquietante: uno su tutti il «possono sopravvivere». Il solo lumicino
del dubbio e della possibilità di sopravvivenza dovrebbe chiudere ogni
discussione. Il notiziario dei radicali ha cercato invece di chiuderla
con le omissioni. Ciò che maggiormente inquieta, però, è che nella
decisione della soppressione della vita umana sia valutato un elemento
tutt’altro che scientifico, la «qualità di vita». Che cosa vuol dire?
Come può un medico decidere quanto sia accettabile la «qualità di vita»
di un paziente non in grado di comunicare? Sulla base di quali canoni? E
qui casca il relativista, che improvvisamente vuole definire per legge
(o per decisione medica) un dato così soggettivo e contestualizzabile
qual è la «qualità di vita». Esistono milioni di persone la cui «qualità
di vita» agli occhi di un europeo è scadente e penosa: chi mai potrebbe
sopportare di soffrire la fame e la sete, le intemperie e le guerre, le
malattie e le privazioni che patiscono – per esempio – i ruandesi?
Eppure nessun tutsi è grato agli hutu per aver posto fine alle
sofferenze dei suoi figli.
Il terzo gruppo indicato dal prof. Verhagen comprende, aprite bene le
orecchie, «neonati con prognosi senza speranza che provano quella che
genitori e medici pensano sia una sofferenza insopportabile». Capito?
Un’opinione, una supposizione di medici e genitori. Non solo:
Benché sia difficile definirlo in astratto, questo gruppo
comprende pazienti che non sono dipendenti da trattamenti medici
intensivi ma per i quali è prevista una davvero bassa qualità della
vita, insieme con una sostenuta sofferenza.
Agghiacciante è dir poco: lo stesso Verhagen afferma che non si può
definire un confine preciso che comprende questo gruppo di neonati.
Un’affermazione aberrante che ammette l’esistenza di una discrezionalità
del medico e dei genitori che non si muovono su basi scientifiche ma su
dati soggettivi! Non solo: la motivazione principale è, ancora una
volta, la «qualità di vita», e una sofferenza – anche qui – solo
vagamente definita. Secondo il notiziario dei radicali non sarebbe vera
la denuncia di Giovanardi secondo cui si ucciderebbero bambini affetti
da spina dorsale bifida. Ah no? Leggiamo il testo che i radicali ancora
una volta omettono:
Per esempio, un bambino con la più seria forma di spina bifida avrà una
qualità di vita estremamente bassa, anche dopo molte operazioni.
Si parla, dunque, di bambini che altrimenti vivrebbero. Ed ecco un altro
passo raggelante:
Dopo che la decisione è stata presa e il bambino è
morto, un’autorità legale esterna dovrebbe stabilire se la decisione era
giustificata.
Perciò prima si uccide il bambino e poi si stabilisce se era giusto
ucciderlo: certo, il medico potrà essere perseguito, ma quanto può una
condanna riparare all’omicidio?
Il prof. Verhagen, citando un suo studio di 22 casi di neonati affetti
da spina bifida e uccisi secondo i criteri sopra enunciati, presenta una
tabella davvero inquietante. Dei 22 bambini, tutti e 22 sono stati
soppressi per la «qualità di vita estremamente bassa» (i ruandesi vi
rientreranno?) e per una «prevista mancanza di autosufficienza» (i
paraplegici vi potranno prima o poi rientrare?) 18 casi presentavano
una «prevista incapacità di comunicare» (gli autistici saranno le
prossime vittime?), 17 una «supposta dipendenza dall’ospedale» (e chi è
in dialisi?). Terrificante l’ultimo dato: 13 di loro avevano una «lunga
aspettativa di vita». In quest’ultimo caso, per rendere meno rilevante
il dato, il prof. Verhagen specifica che «il peso delle altre
considerazioni è maggiore quando l’aspettativa di vita è lunga in un
paziente che soffre». Insomma, se c’è un dato che ci rompe le uova nel
paniere, gli diamo una rilevanza minore e così lo sistemiamo!
Definire nazista questa prospettiva non è esagerato. Anche il nazismo
giustificava le proprie aberrazioni con l’obiettivo di una felicità
ottriata promessa ai cittadini. E’ preoccupante che nel cuore d’Europa
si sia aperto questo varco ai cultori della morte e mercificatori della
vita. Se si apre un varco alla follia, il rischio che si vada ben oltre
è imminente: quando i casi che i Protocolli hanno cercato di
giustificare, peraltro su basi deboli e inquietanti, saranno diventati
routine, ci sarà sempre qualcuno che vorrà alzare la posta ed
eliminare – sempre per compassione, ovviamente – altre tipologie di
malati. Una terribile spirale che, secondo Leonardo Sciascia,
tocca «coloro che quando la pena di morte non c’è dicono che ci vorrebbe
e quando c’è vorrebbero che toccasse non solo agli omicidi, ma anche ai
rapinatori, ai borsaioli e ai ladri di polli: e particolarmente nel caso
in cui i derubati son loro» [L. Sciascia, Porte aperte].
30 marzo 2006
* Enrico
Palumbo è il titolare del blog
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