Un giro nel Lunar Park di Bret Easton Ellis
di Giampiero Ricci
[12 gen 06]

“Se sei concentrato sulle cose che sono realmente senza valore (quanto sei fico, quanto sei trendy, quanto sei bello, quanto sei nel giro giusto) non riesci a realizzare quand’è che è successo che forze oscure ti abbiano accerchiato e si siano prese la tua debolezza. Bene, se tutte le fondamenta su cui ti appoggi sono riconducibili solamente ad una immagine, ad una superficie, allora per la gente non sei più carne e sangue.”
Le parole di Bret Easton Ellis a corredo di un’intervista rilasciata nel 1999 a latere del lancio di Glamorama, libro in cui, due anni prima dell’11 settembre, preconizzava l’esplodere su scala mondiale di un terrorismo dalle caratteristiche identiche a quanto purtroppo la cronaca degli ultimi anni ci ha riservato, hanno fatto dello scomodo autore di “American Pshyco”, resosi celebre per aver raccontato le inquietudini degli anni ’80 della società americana, un interprete lucido delle dinamiche e delle tendenze del pensiero di superficie che ci attraversa. Lunar Park è il titolo del suo ultimo libro. La lunga attesa per i suoi lettori in giro per il mondo si è interrotta nel mese di Ottobre allorché l’autore di “Meno di zero”, “Le Regole dell’attrazione”, oltre che di “American Psycho” e “Glamorama”, noto per aver ricevuto all’apice della sua carriera un invito alla Casa Bianca di Bush Senior dagli allora giovani Jeb e George W. suoi accaniti fans, ha deciso finalmente di dare in pasto all’affamato mercato editoriale un'altra perla della sua spudoratezza.

E, sebbene anche in Lunar Park sia sempre presente il consueto taglio che non concede sconti proprio a nessuno, la novità è rappresentata dal fatto che il protagonista della vicenda è esattamente lui, proprio il Bret Easton Ellis scrittore, che in questo caso non fa nessuno sconto proprio a se stesso. Il romanzo è la cronaca spietata dei suoi ultimi travagliati anni, del suo fallimento di padre e marito, del buco nero esistenziale del tutto simile a quello dei suoi personaggi, in cui il Bret Easton Ellis in carne ed ossa finisce per essere calamitato e per uscirne fuori poi nuovo. Il suo linguaggio rimane straniante e fotografico. Quello sguardo crudele e sempre pronto a volgere al macabro che evoca energie sinistre e che riesce a tirare fuori tra le pieghe del bello a tutti i costi che ci circonda, il profondamente sbagliato del materialismo privo di prospettiva cui sembra la società occidentale, abbagliata da promesse iper-super-tecnolocigamente vuote, si sia autocondannata. L’omicida seriale, protagonista del bestseller “American Psycho”, si reca al bancomat per sentirsi meglio, è terrorizzato all’idea di consegnare in ritardo la videocassetta che ha preso in affitto e vive come una sconfitta devastante il fatto che qualcuno possa avere i biglietti da visita più belli dei suoi. I personaggi di Ellis sono lenti distorte che guardano al mondo come solo loro potrebbero, persone che vivono convinte che la loro vita sia un film, dimostrando nel modo di comportarsi davanti agli altri di avere percezioni sensoriali alterate e rinnovando in un certo qual modo una sorta di teatro pirandelliani: ognuno di noi porta diverse maschere nella vita quotidiana, per ottenere dagli altri quel che desidera.

Se in “Glamorama” Ellis, che aveva già in testa quanto per molti era solamente una fantasia da effetti speciali hollywoodiani, prendeva di petto la società patinata della moda e della pubblicità, vista come forma estrema della corruzione in cui l’uomo contemporaneo è riuscito a cacciarsi, in “Lunar Park” affronta tematiche tradizionalissime nel romanzo occidentale come il rapporto padre figlio che nella visione ellisiana finisce per rimanere travolto, sprecato, come tutto del resto. Il lusso dei dettagli, la moglie ricca e famosa, le amicizie, il rapporto con il padre e alla fine con il figlio. Tutto in cenere. Cenere che lo circonda, che ci circonda, che attraversa le pagine del libro e cerca quasi disperatamente di chiamarci a sé. La critica nostrana ha troppo velocemente etichettato il lavoro di questo fine narratore come semplice denuncia contro lo yuppismo, accostando il primo Ellis quasi ad una versione libresca del “Wall Street” di Oliver Stone e inserendolo così nel filone moralista e velatamente antiamericano che per ragioni intuitive in Italia e nell’Europa ha un grosso seguito, la verità che trova invece conferma nel suo ultimo lavoro è un’altra e cioè che, a ragion veduta, l’attenzione nei confronti di Ellis deve oramai essere quella che si tributa ai narratori di razza della grande tradizione americana, ponendo l’autore californiano in quello speciale capitolo dei romanzieri dai contenuti sostanzialmente estranei alla trita e ritrita contro-cultura alla Patty Smith, che hanno maggiormente segnato la storia del romanzo americano per la generazione seguente ai De Lillo e ai Pynchon.

12 gennaio 2006


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