Mezzo secolo di National Review
di Antonio Scalari*
[14 dic 05]

Lo scorso 19 novembre, per il mondo dei media americani, non è stato un giorno qualunque. Quel giorno, infatti, sono stati celebrati i primi cinquant’anni di vita di National Review, il quindicinale conservatore che, entrato allo stesso tempo sommessamente e impetuosamente nella storia del giornalismo degli Stati Uniti, ne ha segnato anche la vicenda culturale e politica. Forse è troppo dire che il 19 Novembre 1955 è la data di nascita del moderno movimento conservatore americano. Troppo, però, fino a un certo punto. Infatti, se nel 1964 Barry Goldwater diede corpo al fusionismo politico, fu anche grazie al fatto che quel 19 Novembre di nove anni prima, il trentenne newyorkese, cattolico-tradizionalista, William Frank Buckley jr. diede un’anima al fusionismo culturale fondando National Review. Precedendo, così, quell’altra pietra miliare sulla strada del conservatorismo che fu In Defense of Freedom: A Conservative Credo, il libro che Frank S. Meyer, co-fondatore di National Review e di cui fu direttore e a lungo protagonista, pubblicò nel 1962. E che è tutt’oggi una fra le letture preferite dell’arcipelago right-wing. Nel 1955 Le riviste conservatrici si contavano sulla punta delle dita di una mano (fra queste Human Events, The American Mercury, The Freedom).

Il conservatorismo era una piccola zattera nell’oceano liberal. Alle opinioni conservatrici non veniva dato nemmeno lo status di idee rispettabili quand’anche non condivisibili, non avevano cittadinanza nel dibattito intellettuale. Per fino repubblicani come l’allora Presidente Dwight D. Eisenhower, facevano a gara per apparire più liberal dei liberal e Joe McCarthy era per esponenti del GOP come Prescott Bush (nonno di George W. Bush) motivo di scandalo. Il conservatorismo era per l’elite (per il mondo “inside the Beltway”, come si sarebbe detto anni più tardi) solo un tic, un istinto, un moto viscerale, tipico di eccentrici cowboys dell’Arizona o di farmers del Tennessee. Insomma, per usare le parole del liberal Lionel Trilling un “atteggiamento mentale di irritazione”. E’ in questo clima che Buckley jr scrive l’editoriale con cui, quel 19 Novembre, inaugura National Review. Ed è rivolgendosi sia allo splendente mondo liberal di allora sia ai conservatori, rintanati nei loro nascondigli in attesa di tempi migliori, che Buckley scrive quell’editoriale. Informando tutti che la neonata National Review “vuole mettersi di traverso alla Storia e urlare ‘stop’”.

Urlare “ferma” a quei due moti, il socialismo e la secolarizzazione, che allora sembravano inarrestabili. Sono bastate in fondo queste poche parole a spiegare ai liberal e ai conservatori che cosa era, ed è, il fusionismo. Ai primi infatti Buckley voleva dire che il conservatorismo esisteva, anche se magari non nelle pagine delle riviste più vendute, e non era destinato a diventare parte delle anticaglie di cui disfarsi. Ai secondi, che per far questo si doveva smettere di coltivare ognuno il proprio orto e fondere le diverse, e tuttora fra loro litigiose, anime conservatrici in nome, quantomeno, della lotta contro comuni nemici. Era necessario fare, dei diversi conservatorismi dell’Ovest e del Sud, una sintesi nazionale (da cui il nome della Review). Conservatori tradizionalisti, libertarian, anticomunisti...Ogni “fazione” aveva un motivo per sostenere l’altro nella lotta contro ciò che andava fermato. I libertarian, se volevano porre un freno all’aumento delle dimensioni dello stato che violava le libertà economiche, dovevano anche sfidare la crescente irreligiosità, che, come in Unione Sovietica, rimpiazzava Dio appunto con lo stato. Coloro per i quali il conservatorismo coincideva con la fede, avevano tutto l’interesse a che si mettessero le briglie al governo, dato che la religione si difendeva anche difendendo il capitalismo e le libertà individuali, contro il permanere di un New Deal laicista, oltrechè collettivista. Il messaggio era stato lanciato.

Per Dio e per l’Uomo

Il voler dare un’indelebile contributo alla causa conservatrice non fu per Buckley una scelta casuale. Il padre era un conoscente del libertarian Albert J. Nock, l’autore di Our Enemy: the State. E Buckley ebbe il suo battesimo del fuoco, in questa battaglia, già qualche anno prima, nel 1951, quando pubblicò God and Man at Yale. Alla Yale University Buckley si laureò nel 1950. Da studente entrò nella fraternity degli Skull and Bones, a cui si sarebbero poi legati anche i Bush, sr. e jr. E frequentando le lezioni e gli ambienti della prestigiosa università si accorse che stavano prendendo vigore pericolose derive collettivistiche e secolarizzatrici. Avvisaglie di ciò che presto si sarebbe trasformato in monopolio culturale, come è ancora oggi. Era, per Yale, un tradimento delle sue vecchie tradizioni, una capitolazione di fronte al mainstream liberal. Il sostegno al principio americano di limited government e il rispetto per la religione sembravano essere sul punto di essere espulsi, laddove, nelle università, proprio le idee e i principi avevano da sempre trovato riparo, nella tradizione e nello studio.

Per Buckley, insomma, una mission, quella conservatrice, iniziata fin da giovane. Sempre nel 1951 fu reclutato dalla CIA, la quale lo mandò in Messico, come agente sotto copertura. Questa esperienza durò meno un anno e pare che la stessa CIA poi non fosse stata estranea all’iniziativa editoriale di National Review. Un sostegno, peraltro, la CIA l’aveva dato anche al Congresso Internazionale per la Libertà della Cultura, i cui protagonisti, fra gli altri, furono Ignazio Silone, Arthur Koestler, Benedetto Croce e che coinvolse anche intellettuali americani (fra essi molti futuri neocon, come Irving Kristol). Il Congresso, sorto nel 1950, si proponeva di riunire quegli intellettuali che, seppur di sinistra (ma non filo-sovietici), potessero unirsi ai pensatori conservatori per dare una risposta agli intellettuali comunisti che erano fra loro già organizzati ed energicamente sostenuti da Mosca (un esponente di questi ultimi, era in Italia Salvatore Quasimodo). Il coinvolgimento iniziale della CIA, quindi, può far storcere il naso solo a coloro che pensano che il controspionaggio americano dovesse chiamarsi fuori dal gioco e voltare le spalle a chi, in piena Guerra Fredda (ma allora molto calda), voleva condurre una battaglia culturale contro il comunismo.

Fusionismo a colpi di editoriali

Fu proprio l’anticomunismo il collante iniziale dello sforzo fusionista di National Review. La comune battaglia non cancellava però le diversità e la ricchezza di opinioni, anche sul tema della sfida al blocco sovietico. Diverse le risposte che venivano dai prestigiosi collaboratori di National Review. Whittaker Chambers pensava che il motivo di più profonda divisione fra i due lati della cortina di ferro fosse la religione e che quindi la lotta dovesse condursi soprattutto sul piano della fede. Per Frank Meyer non si poteva invece escludere l’uso della forza e della deterrenza militare. E c’era, nel movimento conservatore, chi, fra i libertarian più puri, pensava che il pericolo non fosse in realtà quello proveniente da Mosca, ma quello che veniva da Washington e dall’espansione apparentemente senza limiti del governo federale. E senz’altro il rapporto fra il conservatorimo di National Review e il mondo libertarian non è stato semplice. Spesso le differenze di vedute non erano conciliabili. Raccontano Micklethwait e Wooldridge in The Right Nation (riprendendo a loro volta il fondamentale The Conservative Intellectual Movement in America since 1945 di George H. Nash) che Ayn Rand, guru dell’oggettivismo, denunciò National Review come “la peggiore e la più pericolosa rivista che circoli in America”, dopo che Chambers, dalle pagine della rivista, demolì l’opera della scrittrice di origine russa.

Al netto, però, l’opera di National Review, che nel frattempo, anno dopo anno, aumentava sempre più la propria tiratura e il numero dei suoi lettori, non tradì le aspettative e diede un aiuto e un contributo molto maggiori al fusionismo e alla sintesi delle diverse idee che all’inasprimento di antipatie personali e incomprensioni culturali, che erano comunque preesistenti, e che nemmeno il successo di una grande rivista possono, comprensibilmente, cancellare. Non vi è riuscito del tutto Ronald Reagan e non vi riesce oggi George W. Bush. Basti pensare, se si vuole (e si può) trarre un bilancio positivo, a ciò che racconta Nathan Glazer, e che riporta Christian Rocca in Esportare l’America. La rivoluzione democratica dei neoconservatori. Infatti quella che per il movimento conservatore è forse stata la più grande operazione fusionista, l’abbandono da parte dei neocon della sinistra liberal e la loro migrazione verso destra, si deve anche a National Review. Come racconta Glazer, nel 1971 apparve sulla rivista un editoriale dal titolo “venite l’acqua è buona”, in cui ci si voleva rivolgere agli intellettuali di Commentary per far capire che sarebbe stato impossibile per loro convivere ancora con chi blandiva gli studenti di Berkeley e i manifestanti capitanati da Jane Fonda. Di lì a pochi anni i neocon (che nel 1971 non avevano ancora questa etichetta) avrebbero seguito il consiglio di Buckley e di National Review.

I prossimi cinquant’anni

La grande impresa è dunque senz’altro riuscita. Grazie anche, alla figura di Buckley jr. che, come ha scritto il Chicago Tribune, è diventato negli anni un’istituzione nazionale, avendo pubblicato decine di saggi e libri (anche di spy story) e naturalmente centinaia di editoriali per National Review e migliaia di articoli per altri quotidiani e riviste, comprese famose pubblicazioni di sinistra come The New Republic e The New Yorker (si ricordano perfino interventi su PlayBoy). Conduttore anche di un programma televisivo di successo (Firing Line), nel 1991 il Presidente George H.W. Bush lo ha insignito della Presidential Medal of Freedom. Buckley è da decenni protagonista del dibattito americano e, ovviamente, bersaglio degli attacchi dei liberal. Gore Vidal, durante la campagna presidenziale del ’68, ebbe l’ardire di definirlo un “cripto-nazista” e la risposta di Buckley fu proporzionale all’offesa ricevuta. Per National Review sono transitati praticamente tutti i più grandi nomi conservatori. Oggi, con una versione on-line da oltre un milione di contatti al giorno e blog come quello di David Frum, continua ad essere la punta di diamante del giornalismo conservatore. Vi scrivono fra gli altri, fra versione cartacea e on-line, Jonah Goldberg, Michael Ledeen, Victor D. Hanson, Michael Novak, Mark Steyn, Dave Kopel, Dinesh D’Souza, per citare solo alcuni. E naturalmente l’oggi ottantenne William F. Buckley jr. la cui National Review ha tutte le carte in regola per prosperare per almeno altri cinquant’anni e più..

14 dicembre 2005

* Antonio Scalari è il titolare del blog Regime Change


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