Usa: la riscossa dei conservatori
di Antonio Scalari
[30 mag 05]

“La rielezione di George W. Bush ha fornito un’ulteriore potente conferma alla tesi che la Right Nation sia la forza in ascesa della politica americana. E […] che l’America nel suo complesso è essa stessa una sorta di Right Nation nel panorama politico internazionale”. E’ la conclusione dell’edizione italiana del libro di John Micklethwait e Adrian Wooldridge, “The Right Nation: Conservative Power in America”, pubblicato in Italia da Mondadori con il titolo (per la verità, non proprio felice) di “La Destra Giusta” (trad. di Aldo Piccato). I due giornalisti dell’Economist ripercorrono la storia politica non solo del movimento conservatore, ma dell’America tutta. Attraversando gli anni dei liberal, come amava allora ricordare John Kenneth Galbraith, quegli anni ’60 che sono anche gli anni di Barry Goldwater e della sua trionfale sconfitta del ’64, passando per la “falsa speranza” Richard Nixon e la rivoluzione di Ronald Reagan, fino agli anni più recenti della amata e odiata coppia “Billary” (Bill Clinton e Hillary) e, infine, alla seconda e odierna rivoluzione di Bush. Nel contempo gli autori ci offrono un approfonditissimo spaccato di cosa sia, e di come sia strutturato, il multiforme e variegato mondo del conservatorismo americano.

Dagli individualisti libertarian dell’Americans for Tax Reform di Grover Norquist ai loro, spesso, avversari, i conservatori sociali e religiosi di gruppi come “Christian Coalition” e “Focus on the Family”, dai neocon alla NRA, dagli homeschoolers ai cervelli fumanti dei think tank, dai tycoon del movimento alle cable Tv come FoxNews, dai bloggers ai grassroots repubblicani, militanti e attivisti, come i College Republicans. E’ un fiume in piena di idee e di iniziative su ogni questione, che fa della Right Nation una forza che sembra destinata a non trovare ostacoli e a plasmare l’America a sua immagine e somiglianza. Forte anche della sua eterogeneità che, se spesso è fonte di insanabili contrasti e liti, è per lo più un valore aggiunto. Ne sono prova, per citare un esempio riportato dagli autori, quegli incontri del mercoledì a Washington, a L Street, nella sede del Americans for Tax Reform, in cui, oltre ad esponenti e congressmen delle varie “chiese” conservatrici, si possono incontrare persino “ebrei ortodossi”, uomini d’affari musulmani, neri "dissidenti”, a sottolineare come, persino le minoranze un tempo più pilotate dai Democratici (i latinos come gli esuli cubani, invece, sono sempre stati abbastanza vicini ai Repubblicani), ora hanno qualche motivo in più per sentirsi parte della Right Nation. L’ascesa del conservatorismo è stata l’affermarsi di una cultura, un’idea, una forma mentis, capace di influenzare profondamente il dibattito politico e a dettarne i toni.

Se un tempo persino repubblicani come Herbert Hoover rivendicavano di essere dei “veri liberal” e Washington sembrava destinata a ospitare un establishment che ambiva a governare dal punto di vista di un paludoso centrismo bipartisan, all’insegna di un moderato progressismo che attraversava Democratici e Repubblicani, in nome di un New Deal politico senza più ideologie e sacri sdegni, ora, invece, asinello ed elefantino si guardano da più lontano. Per esempio, il rating conservatore assegnato dall’American Conservative Union ai membri dei due gruppi della House dal 1972 al 2002 (e riportato in appendice dagli autori) ha rilevato un progressivo spostamento a sinistra dei Democratici (la cui media, su un massimo di cento, è passata da 32 a 13) e a destra dei Repubblicani (da 63 a 91). Con tutta la House nel complesso più conservatrice, almeno per la ACU (da 45 a 53).

“La Nazione fifty-fifty”, in cui “potrebbe andare tutto storto”

È, dunque, la vittoria definitiva della Right Nation? La realtà non è così semplice. Permangono ostacoli e fisiologiche difficoltà. La Right Nation convive con quella che agli europei piace descrivere come “l’altra America”. L’America blu, l’America liberal della West a East Coast, di New York e San Francisco, di John Kerry e di Michael Moore (per la verità preso poco sul serio anche dai liberal), e dell’odio per tutto ciò che ricordi Bush e i neocon. Oltre al conservatorismo, infatti, dall’altra parte, in quella “sorta di tiro alla fune” che è la politica, “ci sono milioni di americani che cercano di trascinare il paese nella direzione diametralmente opposta...”. Ma in questo gioco che vede protagoniste le due metà dell’America, ora, è la Right Nation ad esercitare “maggior forza”. Gli autori spiegano, inoltre, che nonostante le vittorie, politiche e culturali, c’è ancora qualche motivo per il quale “potrebbe andare tutto storto”.

Un intero capitolo è dedicato ai problemi che può avere il conservatorismo. Per esempio, esso potrebbe rimanere invischiato nelle sue eterne contraddizioni, come il fatto di essere allo stesso tempo il movimento dell’individualismo e del virtuosismo pubblico, con l’anima libertarian che, in nome dello small government, contesta alla destra religiosa il diritto di “controllare la massa” con direttive moraliste. Il conservatorismo dell’Ovest, alla Goldawater, contro quello del Sud. Sono concezioni diverse di come dovrebbe essere usato il potere del governo e degli Stati, diverse visioni che vedono l’America delle libertà e opportunità individuali in tutto, dall’economia alla morale, spesso in lite con l’America “under God”. Non da ultimo la possibilità che lo stesso conservatorismo possa essere profondamente deluso dal partito a cui si è affidato definitivamente, cioè il GOP.

Un Partito Repubblicano che parla di small government, ma si comporta da big government, contravvenendo alla regole del libero mercato e della non-interferenza dello Stato. E’ l’utopia liberale e americana del free market, che nell’America post-New Deal e nel mondo di oggi, è facile sia messa da parte. Persino dall’attuale presidente George W. Bush, il quale pur essendo l’artefice della vittoria conservatrice, ha portato avanti un politica di big government, rafforzando persino il welfare, ed è risultato essere un ammiratore del governo e delle sue potenzialità. Certo stiamo parlando del mondo post 9/11, con tutta la rivoluzione della sicurezza rivelatasi indispensabile e che ha portato ad ampliare molto le dimensioni della spesa e del deficit. Ma è un atteggiamento che per alcuni conservatori è già un tradimento.

L’eccezionale conservatorismo americano

Micklethwait e Wooldridge sottolineano come il conservatorismo americano sia molto particolare, proprio per quell’aggettivo: americano. Infatti mai come in questo caso le definizioni di un termine che da vocabolario è riportato come sinonimo di “moderato” e che ambirebbe a definire allo stesso tempo Bush, Chirac e il mullah Omar, non riescano a spiegare quasi nulla della Right Nation. Il conservatorismo americano di Goldwater e di Reagan,è una filosofia che dei sei principi del conservatorismo elencati da Edmund Burke accetta, esaltandoli, la libertà come preferenza rispetto all’eguaglianza, il patriottismo, la diffidenza nei confronti del potere dello Stato ma rifiuta con forza la fede nelle gerarchie e nelle istituzioni tradizionali, lo scetticismo per l’idea di progresso e l’elitarismo. In maniera diversa, a seconda delle sue varie anime. Ma visto globalmente è un conservatorismo eccezionale rispetto a quelli europei, perché figlio della Rivoluzione Americana, una rivoluzione non a caso definita come conservatrice rispetto a quella francese, in quanto avente l’obiettivo di ripristinare le libertà inglesi violate da Giorgio III nei confronti delle Colonie.

Un conservatorismo dell’individuo contro lo Stato e la tirannia, antifascista oltrechè anticomunista, perché profondamente antiototalitario. Un conservatorismo degli spazi aperti a assolati dell’Ovest, sempre teso alle sfide del presente e del futuro, alieno da antimoderniste nostalgie “tory”. Un conservatorismo eccezionale perché è l’America stessa ad essere un'eccezione. Una filosofia politica, libera e coraggiosa che, essendo tipicamente americana, è difficilmente esportabile. O, forse, se è vero che gli Usa sono una “nazione universale”, proprio in quanto americana, tale idea potrebbe essere applicata ovunque, potrebbe (dovrebbe) essere vista come fonte di ispirazione da chi si professa filoamericano e favorevole al bipartitismo, ma che, nei fatti, continua a non mostrare il coraggio e la forza rivoluzionaria di abbandonare ricette consunte e popolarismi europei, che sono, essi sì, conservatori nel senso niente affatto americano del termine.

30 maggio 2005

* Antonio Scalari è il titolare del blog Regime Change

 


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