La repubblica della verità
di Paola Liberace
[28 mag 05]
Cosa opporre alla dittatura del relativismo? Rispondere a questa domanda
non è soltanto un problema religioso. Anche se è stato Joseph Ratzinger
a chiamare per primo la minaccia con il suo nome, la portata della
questione è più ampia, almeno quanto la portata della verità. È emerso
con chiarezza nell’ultimo anno, in cui è rinato il confronto (diretto o
a distanza) sul tema. Lo scontro sulle “radici cristiane” della carta
costituzionale europea (con Ratzinger schierato tra i “radicati”); la
pubblicazione in Italia di volumi come l’ultima opera del filosofo
Bernard Williams, “Genealogia della verità” (in inglese “Truth and
truthfulness”); le prese di posizione di logici, storici e filosofi sui
“valori forti”, nei primi mesi del 2005, dalle colonne del Sole 24 ore e
del Foglio; la discussione aperta da Roberto Vivarelli, che ha indicato
in Voltaire il padre del relativismo. E naturalmente, la splendida
omelia del nuovo Papa, alla vigilia dell’elezione. Eventi eterogenei,
sintomi di un unico fermento: che non si esaurisce nella prospettiva
religiosa, né in quella politica, o filosofica, o scientifica.
È guardando in questa direzione che si deve tentare una risposta.
Rovesciando la metafora, si potrebbe dire che di fronte alla dittatura
del relativismo sta la repubblica della verità. Sembra un giochetto
intellettuale ma prendendo sul serio l’espressione, il gioco rischia di
diventare un progetto. Vista come una repubblica, anche la verità
avrebbe una Costituzione, una legge fondamentale, con un incipit
compendioso: “La verità è una repubblica, basata su…”. Immaginando di
completare la frase, si direbbe: anzitutto, sull’identità culturale, la
consapevolezza delle radici, la valorizzazione della propria storia, del
suo retaggio concettuale e antropologico (contro il concetto fusion
dell’incontro tra culture). In secondo luogo, sulla ricerca scientifica:
non la sperimentazione arbitaria, ma il percorso verso un’acquisizione
che è possibile e auspicabile raggiungere, con fiducia, senza ingenuità
o tracotanze, nei propri strumenti. Infine, sulla coscienza religiosa,
lontana dalle inquietudini new age e dalle rivisitazioni annacquate del
dogma: con il coraggio di affermare la propria unicità come strumento
salvifico (senza smettere di parlare alle altre religioni, ma sempre
parlando con voce distinta).
Scrivere questa costituzione è compito dell’etica, ossia il pensiero dei
valori, che indicherebbe alla logica, ma anche alla storia e alla
scienza, il senso morale di ogni affermazione vera o falsa. La verità,
ce l’ha mostrato Williams, non è un problema logico, o religioso o
politico, ma morale. Il relativismo in etica non è affatto scontato, o
inevitabile, come ha scritto Maurizio Ferrarsi; secondo altri, ad
esempio il logico Michael Lynch, il vero è il bene del pensiero; è bene
credere a un’affermazione se e vera, male se è falsa. A questo punto, la
prima frase della costituzione resterebbe ancora incompleta. Che forma
di “governo” vige nella repubblica della verità? Detto in altri termini:
la verità è una repubblica liberale? La domanda spalanca un abisso di
dubbio. E’ difficile immaginare, insieme, l’esigenza di verità – emersa
nella sua unicità dalle nebbie del relativismo – e il pluralismo del
pensiero liberale, che vuole la coabitazione delle verità, delle
culture, dei punti di vista. In che misura possiamo permetterci di
restare liberali e insieme abbandonare, una volta per tutte, l’ironia
scettica? Ma qui tornerebbero ad affollarsi i fantasmi delle obiezioni
relativiste, materializzandosi intorno alle temibili lezioni
dell’esperienza storica. Come potremo scongiurare le catastrofi del
pensiero unico, della persecuzione, del totalitarismo, che la storia
associa alla pretesa esclusiva della verità, e insieme restituire a
questa verità il suo pieno valore?
Ecco il vero dilemma da risolvere. Sperando che la fatica di
fronteggiare la domanda non induca ad abbandonare il tentativo, o peggio
ancora, non porti a edulcorare la risposta, mascherandola da mediazione
tra due estremismi. Accordare al realismo una mezza vittoria, per
riservare al relativismo il dominio sul campo etico, equivarrebbe a
un’ibridazione, a una fecondazione eterologa. Un esercizio che ci
precipiterebbe, di nuovo, nel relativismo più profondo. Senza neppure
l’attenuante dello scetticismo meditato, che crede almeno in se stesso.
28 maggio 2005
pliberace@yahoo.it
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