Vietnam: trent'anni di menzogne
di Stefano Magni
[04 mag 05]

Il 30 aprile di trenta anni fa gli americani evacuarono Saigon e i nordvietnamiti entrarono nella capitale del Sud da vincitori. Avevano posto fine a 15 anni di guerra contro il Vietnam del Sud, ma la violenza, nel Sud-est asiatico, era appena incominciata per due milioni e mezzo di sudvietnamiti e dissidenti del Nord deportati nei campi di “rieducazione”, fra i più terribili campi di concentramento che la storia ricordi. Altri due milioni di vietnamiti tentarono la fuga nell’Oceano Indiano, con mezzi di fortuna, pur di non vivere sotto la dittatura che si era insediata nel loro paese dopo la guerra: più di mezzo milione di loro perse la vita. Senza contare che nella vicina Cambogia il regime di Pol Pot, arrivato al potere solo grazie alla destabilizzazione creata dai nordvietnamiti durante la guerra, iniziò lo sterminio sistematico di più di due milioni di propri cittadini, prima di attaccare il Vietnam ed esserne a sua volta invaso. Se tutto questo può esser definito “liberazione”…

Forse pochi stalinisti militanti vanno ancora orgogliosi della “liberazione” del Vietnam e chiunque conosca il Sud-est asiatico sa che, dopo la guerra, in tutta la regione sorsero dittature fra le più feroci del XX secolo. Ma a cosa aspiravano i nordvietnamiti prima e durante la guerra? Perché tanta gente “tifava” per loro? Il più delle volte chi era dalla parte del Vietnam del Nord si giustifica con questo ragionamento: i comunisti hanno agito così duramente per liberarsi da una dominazione straniera, identificata nel regime del Sud filo-occidentale e poi dalla presenza diretta di mezzo milione di militari statunitensi nel paese. Quindi, in base a questa giustificazione i nordvietnamiti avrebbero combattuto una guerra giusta. Ma la violenza vietnamita è veramente una reazione alla politica americana? E soprattutto: si può realmente parlare di politica imperiale americana?

Queste sono due domande a cui si tende a non dare mai una risposta. Persino un autore di best-seller americano conservatore quale Tom Clancy tradisce una stima profonda per i nordvietnamiti, parlandone in termini di fieri guerrieri che hanno combattuto per la patria e vinto una guerra contro un nemico superiore in numero e tecnologia. Ed anche un autore non certo filo-comunista quale Graham Green, in “Un americano tranquillo”, mette in bocca al protagonista britannico del romanzo una frase del tipo: questo massacro non è opera dei comunisti, loro non uccidono il popolo. Eppure la violenza dei comunisti contro il loro stesso popolo è iniziata, non in seguito alla politica “imperialista” americana, né in seguito alla politica imperialista (senza virgolette) francese, ma subito dopo la liberazione dalla dominazione giapponese, già nel 1945, quando il partito comunista guidato da Ho Chi Minh, vinta la resistenza, si organizzò per governare il paese.

La prima purga avvenne fra il 1945 e il 1947, quando furono eliminati gli indipendentisti non comunisti e, dalle stesse file dei comunisti, furono epurati gli elementi trotzkisti. In quegli anni, nelle aree controllate dai comunisti 25mila dissidenti furono incarcerati e cinquemila eliminati fisicamente. La violenza peggiore scatenata dai comunisti nordvietnamiti, comunque, si ebbe tra la fine della guerra contro la Francia e l’inizio della Guerra del Vietnam propriamente detta. Nel 1953, quando la guerra di indipendenza non si era ancora conclusa, i comunisti controllavano gran parte del Vietnam del Nord e in quella regione avviarono una campagna di collettivizzazione delle terre di tipo staliniano: eliminazione fisica totale dei proprietari terrieri. Il massacro fu imponente, considerando che in alcune regioni, come quella del Fiume Rosso, praticamente tutte le terre erano di proprietà dei contadini. I quadri comunisti vietnamiti, con l’aiuto di consiglieri cinesi, suddivisero “scientificamente” la popolazione in numerose classi sociali, per poi passare all’eliminazione fisica di quelle ritenute ricche.

Non appena una classe superiore veniva debellata, si passava all’eliminazione di quella sottostante. Quando anche questa era stata sterminata, veniva effettuata una riclassificazione dei contadini poveri in sottoclassi e quelli relativamente più ricchi venivano anch’essi eliminati. In alcune regioni, dove non era possibile suddividere in classi sociali la popolazione, i comunisti procedettero, sempre sull’esempio staliniano, ad eliminazioni “per quota”, forse la più inumana forma di sterminio che la storia delle dittature ricordi: con un calcolo simile a quello fatto dai no-global odierni sull’iniquità della distribuzione della ricchezza, il partito sosteneva che il 95 per cento della ricchezza fosse posseduto dal 5per cento della popolazione. E quel 5per cento doveva essere eliminato fisicamente, villaggio per villaggio. Le quote dovevano essere rispettate: non importava chi fucilare, ma quanta gente uccidere. Il tutto senza troppi sensi di colpa: “È meglio uccidere dieci innocenti che lasciar vivo un solo nemico”, aveva dichiarato il dirigente comunista Nguyen Manh Tuong nel 1953.

Questo massacro andò avanti senza sosta dal 1953 al 1956, fino a quando la collettivizzazione delle terre non fu portata a termine. Finita la collettivizzazione, si passò all’eliminazione fisica dei quadri comunisti ritenuti non sufficientemente affidabili. In tre anni di potere assoluto e terrore, il regime di Ho Chi Minh aveva assassinato a sangue freddo circa 420mila persone. E in tutto questo gli americani non c’entrano. Si può capire come mai, dopo la ritirata dei francesi e l’accordo di pace firmato a Ginevra nel 1954, quando il paese fu diviso in due (il Nord comunista e il Sud nazionalista) nessuno volesse vivere al Nord e nessuno al Sud desiderasse la riunificazione del paese. Basti pensare che, subito dopo la firma dell’accordo di Ginevra, la frontiera fu lasciata aperta per 300 giorni: un milione di nordvietnamiti scappò al Sud, mentre solo 100mila sudvietnamiti (quasi tutti guerriglieri comunisti che avevano combattuto contro i francesi) si trasferì al Nord.

Il Sud sarà stato anche governato da un regime (quale quello di Diem) nazionalista, autoritario, corrotto e fortemente razzista, ma appariva, agli occhi dei Vietnamiti del Nord, come un rifugio sicuro in confronto all’inferno in cui erano costretti a vivere, un po’ come i tedeschi dell’Est guardavano alla Repubblica Federale Tedesca. Non stupisce, quindi, che il regime di Ho Chi Minh, minacciato di svuotarsi, non solo volle la chiusura della frontiera, ma esportò al Sud la stessa campagna di terrore che stava conducendo al Nord. Terroristi infiltrati nel Vietnam del Sud incominciarono ad assassinare elementi anticomunisti (funzionari, politici, intellettuali, cittadini politicamente impegnati) e poi anche nemici di classe, con gli stessi criteri seguiti al Nord. In tre anni, i terroristi rossi uccisero circa quattromila persone in tutto il Vietnam del Sud. Constatando che la campagna di terrore non portava alla destabilizzazione politica del Sud, il regime di Ho Chi Minh passò ad una logica di guerra. Non una guerra convenzionale, ma una guerriglia combattuta infiltrando piccole unità di fanteria nel paese nemico, attraverso piste nascoste dalle foreste pluviali.

Nel 1959 fu inaugurata la prima di queste vie di accesso, denominata B-59: sarebbe stata la prima arteria della famosa “pista di Ho Chi Minh”. È dunque nel 1959 che iniziò la Guerra del Vietnam, evento sancito formalmente dal XV Congresso del partito comunista vietnamita, in cui Ho Chi Minh parlò di “riunificazione del paese con mezzi appropriati”. Dal 1959 al 1964, i nordvietnamiti conquistarono quarantuno provincie del Sud su un totale di quarantaquattro. Ovunque avessero il controllo del territorio, applicavano (coerentemente alla loro ideologia) gli stessi metodi terroristici già sperimentati al Nord, comprese le eliminazioni per quota nei villaggi conquistati. E tutto questo prima dell’intervento militare americano a sostegno del Sud. Piuttosto le modalità di sterminio e di terrore comuniste non cessarono nemmeno dopo l’intervento americano.

“Si devono uccidere da tre a cinque elementi reazionari e mettere fuori combattimento da cinque a dieci altri per ogni strada e in ogni isolato”, si legge negli ordini trovati nella giubba di un soldato nordvietnamita ucciso nella provincia di Ban Tre durante l’offensiva del Tet. Oppure: “Distruggete il personale amministrativo di tre villaggi a Phu My, Phuoc Thai, Phuoc Hoa. Villaggi situati lungo l’autostrada n. 5. Uccidere i dieci amministratori del villaggio, tre membri del Consiglio del Popolo e altro personale di organizzazioni politiche reazionarie”, altro ordine diramato da un comando locale nel 1968. Nella sola città di Hue e in soli venticinque giorni di occupazione, i comunisti vietnamiti riuscirono ad uccidere tremila civili a sangue freddo. I campi profughi, inoltre, erano bersagli abituali delle forze nordvietnamite. Anche questa era una strategia pianificata direttamente dal regime di Ho Chi Minh per terrorizzare la popolazione del Sud: l’ordine n. 9 emesso dal partito nel 1969 decretava che i campi profughi fossero da considerarsi un obiettivo principale.

Alla luce di questa violenza sistematica, lucida, programmatica, si può rispondere anche alla seconda domanda che ci eravamo posti: si può parlare realmente di politica imperiale americana nel Vietnam? Gli Americani intervennero militarmente in seguito all’incidente nel Golfo del Tonkino (l’attacco ad un cacciatorpediniere americano da parte dei nordvietnamiti) nel 1964, quindi cinque anni dopo l’inizio della guerra scatenata dal Vietnam del Nord, sette anni dopo l’inizio della campagna terroristica scatenata contro il Sud e undici anni dopo che il regime comunista di Ho Chi Minh aveva lanciato la sua campagna di sterminio dei proprietari terrieri. Imperialismo è il termine appropriato? Parlare di inizio della Guerra del Vietnam solo dal 1964, cioè all’origine dell’intervento militare americano, sarebbe come far credere che gli Americani hanno dato inizio alla Prima Guerra Mondiale nel 1917 e alla seconda nel 1941. Credere che la violenza nordvietnamita sia stata causata dall’interventismo americano è una palese inversione degli eventi e delle responsabilità. Dare degli “imperialisti” agli americani vuol dir solo dare del “boia” a chi vuol difendere una vittima e assolvere il suo carnefice.

04 maggio 2005

stefano.magni@fastwebnet.it

 


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