Ulisse approda al teatro low-cost
di Giuseppe Pennisi
[14 mar 05]

Il mestiere di “chroniqueur” consente di scegliere , di volta in volta, se indossare il cannocchiale o il periscopio. In questi ultimi giorni, quasi tutta la stampa musicale (e non solo) italiana sta seguendo, con sbigottimento, le vicende della Scala e le polemiche sulla eventuale riduzioni del Fondo Unico per lo Spettacolo, in particolare per la parte diretta alle fondazioni lirico-sinfoniche. Pochi hanno dato attenzione alla conclusione della tournée, iniziata in autunno, che ha portato uno dei più belli spettacoli di questi ultimi anni (“Il ritorno di Ulisse in Patria” di Claudio Monteverdi nell’edizione inaugurata a Aix-en-Provence nel luglio 2000) in otto teatri delle Penisola (da quelli dei circuiti lombardo ed emiliano-romagnolo a Bari) con una compagnia di giovani e l’Accademia Bizantina guidata da Ottavio Dantone. Nonché ad altre iniziative che stanno portando alla riapertura di uno dei più antichi teatri romani dedicati alla musica lirica, il Capranica.

Eppure c’è un nesso tra i questi avvenimenti. Poche settimane prima che esplodesse la polemica sul futuro e sul presente della Scala e che iniziassero scioperi di protesta nei confronti di una misura che porrebbe vincoli alla gestione delle fondazioni lirico-sinfoniche maggiormente indebitate, il neo-direttore generale alle arti dal vivo del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, Salvo Nastasi, ha sottolineato, in una lunga intervista, che “la lirica deve cambiare pagina”: costi troppo elevati, spettatori in declino (anche a ragione degli alti costi dei biglietti), disavanzi galoppanti. Il vostro “chroniqueur”, al tempo stesso un economista ed un melomane, non può dargli torto. Basta, a confermare la diagnosi, una tavola sinottica di indicatori della “repubblica degli enti lirico-sinfonici” nostrana (è intitolato così un bel libro di Francesco Ernani e Roberto Iovino di qualche anno fa) e dei maggiori teatri stranieri.

Un segno concreto di aria nuova nei teatri lirici è fornito dall’allestimento del capolavoro di Monteverdi “Il ritorno di Ulisse in Patria” con la regia di Andrian Noble (per decenni direttore della Royal Shakespeare Company) e con oltre una dozzina di giovani cantanti-attori. E’ salpato da Cremona in ottobre ed approda a Ferrara a fine febbraio, dopo avere girato per otto teatri. Si tratta di una produzione nuova di zecca per l’Italia ma che si è già gustata in una ventina di teatri stranieri. Ma facciamo un passo indietro. A metà degli anni Novanta, il Festival di Aix-en-Provence stava per chiudere i battenti a ragione di una crisi finanziaria senza precedenti (inferiore però a quella della Scala ed impercettibile se raffrontata con quella del Teatro Lirico di Cagliari). Gli enti locali ed alcune grandi imprese francesi e giapponesi chiamarono una nuova squadra a rialzarne le sorti (Stéphane Lissner, Eva Wagner e Peter Brook) in quanto il team aveva già dato una svolta al parigino Châtelet.

Una linea strategica seguita da allora (il Festival è tornato in utile ed è in costruzione un nuovo grande teatro che verrà inaugurato con “Ring” suonato dai Berliner) fu quella di realizzare solo coproduzioni al fine di contenere i costi. “Ulisse” è stata l’unica operazione su cui, sulla carta, nessun coproduttore volle scommettere il becco d’un quattrino. Non tanto perché se ne sono viste edizioni in vari festival negli ultimi anni, ma per l’idea di fondo di Lissner e soci: affidarla interamente a giovani borsisti dell’Accadémie Européenne de Musique, ed a giovani che fossero non solo bravi vocalmente ma anche ottimi attori di aspetto prestante. A Adrian Noble venne detto di mettere in scena uno spettacolo economicissimo: sia Noble sia Sir William Christie (direttore d’orchestra) rinunciarono al cachet; i giovani cantanti vennero pagati al minimo salariale (il francese “smig”). Alla “prima” del 9 luglio del 2000; dopo due ore e 40 di musica (e 20 minuti di intervallo), ci furono 25 minuti di applausi ininterrotti. Da allora, l’allestimento ha girato in tre continenti.

Noble ha fornito un’ulteriore prova che le grandi idee registiche si realizzano anche con pochi soldi. La scena è essenziale: una distesa di sabbia, due giare, un’altalena (da dove arriva Telemaco riportato da Minerva a Itaca). Siamo in un mediterraneo solare e i costumi sono tuniche in cui domina l’ocra medio-orientale (ed ovviamente “l’umana fragilità” non porta neanche le mutande). La lettura è shakespeariana: una visione compatta della vicenda omerica in cui il faceto si alterna al serio, il sarcastico al sentimentale e l’arco d’Ulisse fa giustizia di intrighi ed imbrogli. Molto differente, ad esempio, da quella che negli anni Settanta trionfò a New York, imperniata sull’amore coniugale (la coppia era Richard Stillwell e Frederica von Stade, uniti anche nella vita). Oppure da quelle iperbarocche viste a Zurigo (Harnancourt, al solito, la riempiva di fioriture non prevista nella partitura) ed al Maggio Musicale (Ronconi ne creava uno spettacolo in cui si enfatizzava la dimensione politica).

L’allestimento di Noble nel 2002 (sempre a Aix) si era ulteriormente affinato, specialmente negli aspetti più delicatamente dolci dell’interazione tra Ulisse e Penelope e nel colore al rapporto filiale tra Telemaco e Ulisse. Colpisce la straordinaria modernità dello spettacolo, il suo realismo drammatico così prossimo al nostro gusto in questo inizio del 21esimo secolo. E dire che il lavoro ebbe la sua “prima”, a Venezia, nel lontanissimo 1640! Il libretto di Giacomo Badoaro segue fedelmente l’Odissea, ma non è capolavoro assoluto come quello che l’avvocato Giovanni Francesco Busenello regalò a Monteverdi per “l’Incoronazione di Poppea”. Tuttavia, mentre “l’Incoronazione” è frutto di lavoro di bottega (il duetto più noto, e più sfacciatamente erotico, è stato messo in musica di Giovanni Cavalli, allora giovane allievo di Monteverdi), la partitura è quasi interamente di pugno dell’autore e se ne è trovato un solo esemplare (alla Biblioteca Nazionale di Vienna); ciò pone problemi filologici minori di quelli dell’Incoronazione (di cui esistono due manoscritti molto differenti), ma quel che è rimasto dell’orchestrazione è, in più parti, carente.

Ciò spiega non solo le fioriture di Harnoncourt (ed i languori quasi tardoromantici della lettura di Julius Rudel a New York, ascoltabile nelle edizioni Cbs masterworks) ma anche e soprattutto che se ne siano affidate riscritture a Dallapicolla (Firenze, 1942) e a Hans Werner Henze (Salisburgo, 1985). Il primo aggiorna la partitura, il secondo la asciuga. Ottavio Dantone (come Sir William Christie) opera sul testo originale integrale (dividendo il lavoro in due parti, invece che in tre atti con prologo), mantenendo rigorosamente strumenti antichi. Ne risulta una lettura avvincente per la attualità del suono, sia nell’accompagnare arie, duetti e recitativi sia soprattutto nelle “sinfonie” e nei “ritornelli” che danno corpo all’evolversi delle situazioni drammatiche. Al tempo stesso più tersa e più sensuale (in “Ulisse” abbiamo tutte le sfaccettature dell’amore, da quello carnale a quello coniugale). Impossibile ricordare i numerosi interpreti. Spiccano il bari-tenore Furio Zanasi (Ulisse), il mezzosoprano Sonia Prini (Penelope), il tenore Luca Dordolo, il controtenore Roberto Balconi (in più vesti, anche senza mutande) ed il soprano Roberta Invernizzi (in più ruoli).

Un altro segnale, ancora in nuce, è la nuova stagione lirica annunciata da un’associazione privata (Aulico-Opera & Musica) in uno dei più antichi teatri della capitale, il Capranica dove i primi spettacoli lirici vennero dati nel 1679 e che fu dedicato alla musa bizzarra ed altera sino al 1789, quando venne trasformato in teatro di prosa prima ed in cinematografo poi. Un programma con solo titoli di repertorio (Tosca, Traviata, Butterfly, Rigoletto). Rappresentazioni unicamente il sabato sera, a prezzi contenutissimi (dai 35 ai 9 euro). Un’orchestra di 35 elementi. Cantanti giovani (affiancati però da chi ha già solcato il palcoscenico del Metropolitan). Costumi di una sartoria di gran classe. E’ una sala da 800 posti nel pieno centro storico di Roma. Vuol dire che qualcosa di incoraggiante si muove.

14 marzo 2005

giuseppe.pennisi11@tin.it

 

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