Il dono della memoria
di Marta Brachini
[27 gen 05]
“Meditate che questo è stato”. E’ l’imperativo di Primo Levi.
L’imperativo che ognuno di noi, nel suo privato, deve riflettere.
A maggior ragione a sessanta anni dal giorno in cui lo stesso
Primo Levi vide aprirsi davanti ai suoi occhi i cancelli del
lager. Dopo aver vissuto l’orrore di uomini ridotti a numero,
l’abbrutimento di chi lotta per mezzo pane e chi muore per un sì o
per un no, Primo Levi sopravvisse ad Aushwitz ma non alla memoria
di Aushwitz. La sua è una delle più grandi testimonianze di quello
che fu lo sterminio sistematico e industriale di sei milioni di
ebrei europei da parte dei nazisti. Ma nel mondo smemorato non è
così facile mantenere viva questa immagine e sempre di più la
riflessione rimane scolpita sulla carta invece che sui nostri
cuori, come sperava Levi. Così il pubblico europeo si stanca delle
forzature istituzionali e le minoranze anti-ebraiche europee
colgono la palla al balzo per ottenere simpatie politiche o
popolari.
Da cinque anni a questa parte in Europa ogni 27 gennaio si ricorda
quello che è stato. Ma non sempre in un clima di silenzio e
rispetto per le vittime e i sopravvissuti. C’è infatti crescente
bagarre politico-culturale che precede e segue ogni tipo di
commemorazione ufficiale. E soprattutto si fa sempre più evidente
la tendenza a considerarlo un più generico giorno dei diritti
umani universali. Infatti, nei sentimenti comuni e diffusi
dell’Europa del dopoguerra, quella dei diritti umani è diventata
una specie di ideologia, una parola chiave che apre le porte alle
simpatie multiculturali. E così il giorno della memoria rischia di
caratterizzarsi come universale, smette di essere una celebrazione
silenziosa e particolare diventando pretesto propagandistico per
rubare un po’ di pietà alla causa ebraica e indirizzarla altrove.
Così c’è chi cerca di affiancare a questo giorno tutti i genocidi
storici da quello degli armeni a quelli consumati nei gulag
sovietici e chi invece vorrebbe aggiungerne altri, di moderni e
attuali.
Non a caso per la prima volta anche alle Nazioni Unite,
istituzione regina della babele assembleare, hanno deciso di
dedicarsi al ricordo. Cofi Annan ha esordito difronte all’aula
semi-vuota con una frase universalista: “Perché il male trionfi
basta che i buoni non muovano un dito”. E tale incpit gli ha poi
permesso di citare insieme al genocidio ebraico anche le
diversissime, e discutibilmente assimilabili, esperienze del
“Darfur, della Cambogia, della Bosnia o del Ruanda”. Esperienze
sulle quali il gigante buono che Annan rappresenta non ha potuto
niente se non discuterne. Al punto che si potrebbero aggiungere
per l’occasione le catastrofi naturali che hanno colpito intere
popolazioni civili e fare del giorno della memoria anche una
commemorazione dei “genocidi naturali”, come quello dello Tsunami
(magari inserendo anche la peste che colpì l’Europa nel XIV
secolo!).
A parte l’ipocrisia, e l’ironia, tutte le tragedie umane hanno
certamente il compito di mobilitare le coscienze affinché nessuna
di queste possa ripetersi. Ma se non si riesce a far questo si
rischia di far scadere la Shoà in un relativismo perbenistico e
forzato, se non in una aperta campagna antiebraica, come hanno
fatto molti musulmani occidentali, che siano quelli delle massime
associazioni islamiche inglesi o quelli di casa nostra. E’ triste
infatti constatare che in Italia ci siano dei cittadini di
religione musulmana che parlano del giorno della memoria come
“propaganda ebraica” o insistono sul “genocidio iracheno”
(intendendo quello perpetrato dagli americani contro gli iracheni)
o su quello palestinese (perpetrato da i nuovi nazisti ebrei
israeliani contro i palestinesi) o che infine dichiarano
apertamente: “Le parole (della poesia di Primo Levi) sono
drammaticamente attuali. Ma se togliessimo il nome dell’autore,
potremmo tranquillamente attribuirle a un detenuto di Guantanamo o
a uno sfollato di Gaza”. La memoria è forse un dono. O lo si
possiede oppure non resta che parlarne a sproposito.
27 gennaio 2005
m.brachini@libero.it
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