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La
morte rossa.
Storie di italiani
vittime del comunismo
di Dario Fertilio,
Marsilio, Venezia, 2004
pp. 375, €17
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I morti dimenticati tra Gulag e dintorni
di Cristiana Vivenzio
[05 gen 05]
Chissà se in qualche paesino sperduto dell’Emilia esiste una via,
una piazza, una scuola intitolata ad Alberto Menini, di
professione maestro, arruolato nell’esercito durante la guerra e
divenuto partigiano della stella rossa per sfuggire ai tedeschi.
Solo un ricordo pubblico di un uomo che per aver contestato i
metodi e le strategie del gruppo a cui apparteneva venne
assassinato dai suoi stessi compagni, poco distante da casa, a
colpi di pistola e di coltello. Chissà se qualcuno nel suo paese
d’origine, Empoli, sa chi è stato Dino Maestrelli, attivista
comunista, fucilato il 3 marzo 1938 dalla polizia sovietica per
aver assunto posizioni critiche sull’organizzazione del lavoro
della fabbrica automobilistica di Gorkij in cui lavorava e per
aver dichiarato il suo pensiero sulle condizioni generali in cui
versava l’Unione Sovietica.
Forse a Firenze c’è chi ha voluto ricordare, per il suo passato
di militante antifascista, Alfredo Bonciani, riparato in Russia
e giustiziato da alcuni comunisti italiani in una stanza
dell’hotel Krasnij Majak con l’accusa di tradimento, solo per
aver fatto richiesta di rimpatrio in Italia per visitare la
moglie e la figlia. E poi ci sono le vittime italiane dei gulag,
i processi sommari subiti dai militanti comunisti in Italia e
all’estero, le fucilazioni pubbliche dei “compagni”, le troppe
morti senza risposta e senza memoria. Se la memoria, quella
pubblica, finora non ha ricordato abbastanza quanti morirono per
mano dei loro stessi compagni di militanza, un contributo in
questo senso lo ha dato La morte rossa, l’ultimo libro di Dario
Fertilio, giornalista del Corriere della Sera e saggista.
Nel suo libro Fertilio racconta venti di storie per raccontarne
centinaia. Storie di uomini e di donne, tutti italiani, tutti
comunisti, dell’estrazione sociale più varia; molti idealisti,
alcuni “opportunisti”, talvolta critici dell’ideologia, altre
volte credenti fino in fondo, fino alla fine; tutti comunque
vittime di uno stesso carnefice: il “Terrore rosso”. I racconti,
tutti rigorosamente basati su fatti veri, assumono i toni del
romanzo tragico e ineluttabile, un romanzo che Fertilio racconta
da tante angolazioni e da molteplici punti di vista. Forse per
questo il racconto marca drammaticamente e ancor di più
l’anomalia di un fatto: che il dibattito pubblico italiano, e
gran parte dell’opinione pubblica del nostro paese, non abbia
riflettuto (abbastanza) sull’oblio calato su quelle morti, che
furono morti politiche, perpetrate ai danni di quelle vittime
dai loro stessi compagni di fede per cancellarne dalla storia
l’esistenza, per calare una cortina di silenzio sul senso
politico di quelle vite che certo insensate non furono. Ciò che
ogni volta continua a colpire – rimarca anche l’autore – è che
oggi, e sempre più, i simboli di quella oppressione totalitaria
e dello sterminio ideologico che portarono a quelle morti, da
Lenin a Che Guevara, si ritrovano nelle comode case, ben
riscaldate e fornite di tecnologia, di noi occidentali.
«Non c’è niente di male ad amare una grande idea, un’utopia
totale e perfetta; è come innamorarsi di uno sconosciuto. Ma di
solito si scopre che l’oggetto del desiderio non corrisponde a
quello che si immagina. Il sogno è puro, la realtà tutta
diversa. E a causa di un errore contenuto nella premessa, i
ragionamenti che seguono sono completamente sbagliati». Ciò che
conta alla fine, però, è che quella realtà venga raccontata.
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