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Neve
di Orhan Pamuk
Einaudi, Torino, 2003
pp. 468, € 19
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Il cortocircuito delle civiltà
di Carlo Roma
[17 nov 04]
L’Islam, suo malgrado, guarda l’Occidente. Con sospetto ne osserva
le movenze, ne valuta le scelte future e attende il prossimo
passo. Due universi contrastanti, in forte opposizione fra di
loro, sono chiamati dalla storia a dialogare per non soccombere
sotto il fardello di un martirio inutile e sterile. Un tributo di
sangue innocente al quale, però, non è semplice sottrarsi.
L’arretratezza e la miseria che agitano le terre lontane ed
abbandonate della Turchia più remota si misurano, ad esempio, con
la necessità di interagire con la civiltà dei consumi e del
benessere diffuso. Un confronto complicato alimentato dal timore
di perdere la propria identità e dalla volontà di non lasciarsi
colonizzare interamente. Città solitarie, chiuse nella difesa
delle loro tradizioni ataviche, sono toccate dall’ansia di un
rapido ed efficace rinnovamento. Un cambiamento che investe,
anzitutto, la mentalità di un popolo che si è lasciato condurre
dalla parola del suo Profeta. Una parola ferma, indiscutibile ed
inattaccabile. Una voce che è stata in grado di modellare la
struttura della società islamica, definendone i ruoli e
distribuendo a ciascuno competenze e capacità diverse. è questo il
contesto culturale in cui si inserisce Neve, l’ultimo romanzo
dello scrittore turco Orhan Pamuk. Redatto fra l’aprile del 1999
ed il dicembre del 2001, il libro non manca di sorprendere per la
sua stringente attualità. Legato a doppio filo alle tematiche
messe a nudo dall’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre
2001, l’opera di Pamuk valuta con attenzione e profondità il
rapporto conflittuale tra le due grandi religioni monoteiste del
pianeta. Un rapporto cosparso di lutti che, è facile immaginarlo,
continuerà a segnare ancora a lungo gli anni che verranno.
Siamo dunque a Kars, piccola città di confine della provincia
anatolica della Turchia. L’atmosfera è immobile e silenziosa. Una
neve fitta e densa cade da giorni. I collegamenti stradali e
ferroviari sono interrotti e Kars, alle soglie delle elezioni
comunali, è isolata dal resto del paese. La vita sembra seguire
ritmi stanchi e pigri appesantiti dalla povertà dei pochi mezzi di
sostentamento di cui dispongono i suoi abitanti. Eppure,
nell’ambiente attutito dal freddo invernale, cresce
l’insoddisfazione ed il rancore. Molte ragazze, spinte
dall’osservanza della legge islamica, decidono di uccidersi. Gli
echi di una serie cospicua di suicidi si rincorrono per le vie
innevate della città. Una catena di morte che genera dolore,
spirito di rivalsa ed incertezza, percorre gli animi infelici di
genitori increduli e senza più lacrime da versare. Ka, celebre
poeta turco da molto tempo esule in Germania, approda a Kars
trovandovi proprio questo clima triste e difficile. Vi ritorna
nella speranza di ritrovare la serenità perduta e di comprendere
il senso ineffabile dell’esistenza. è un uomo solo, ingobbito
dalla fatica di vivere, incapace di cogliere appieno i frutti
della sua fede musulmana alla quale non crede più con la stessa
devozione di una volta. La sua creatività langue e la sua
ispirazione è infiacchita dall’inettitudine. Il suo istinto è
guidato, inoltre, dalle immagini e dalle sensazioni di un amore di
gioventù, con tutta probabilità non corrisposto, in grado di
lacerare il suo cuore e di ricondurlo con forza sulle vie di Kars.
«Mentre la sera scendeva – racconta Pamuk nelle pagine iniziali
del suo lavoro – guardava fisso il cielo che sembrava più luminoso
della terra: contemplava – continua – i fiocchi di neve che si
facevano più grandi e si disperdevano nel vento, non come presagi
di una prossima sventura, ma, finalmente, come indizi del ritorno
della felicità e dell’innocenza della sua infanzia».
In
realtà, l’ambiente è destabilizzato dai cadaveri che si accumulano
senza sosta all’obitorio, ma anche dalla promessa di un rapido
mutamento della composizione politica dell’amministrazione di
Kars. Si avvicinano, infatti, le elezioni per il sindaco. Il
candidato più accreditato è Muhtar, il responsabile locale del
partito del Benessere, formazione politica conservatrice
d’ispirazione islamica che ora governa la Turchia con una larga
maggioranza. Ka è inviato da un giornale europeo a seguire
l’evoluzione dello scenario politico di Kars. Ascolta gli umori,
interroga le coscienze, tasta il polso di una società divisa al
suo interno. Compie un viaggio, insomma, nelle viscere della
Turchia più insensibile ai richiami dell’Occidente ricco, avanzato
e benestante. Ka, comunque, è assillato da una domanda pressante.
Una domanda dietro alla quale, in verità, si nasconde il messaggio
più interessante del libro di Pamuk. Perché le giovani donne della
comunità scelgono di morire? Quale offesa hanno ricevuto? Quali
corde del loro carattere sono state toccate? Per Ka la risposta è
a portata di mano. Ogni islamico, soprattutto in un paese che
tende verso la modernità, può individuarne le ragioni con estrema
semplicità. Alle studentesse di Kars è stato chiesto di togliersi
il velo durante lo svolgimento delle lezioni universitarie. Le
radici dell’inestinguibile dicotomia fra Occidente e Oriente, fra
culture assai vicine ma tuttora agli antipodi, emergono in tutta
la loro violenza. Una violenza che si traduce in una caccia alle
streghe, in una spirale di vendette tribali nella quale sono
coinvolti i fanatici islamici, le forze armate, gli intellettuali
moderati e gli artisti. La città di Kars diventa il teatro di
omicidi ripetuti ed efferatezze sanguinarie. Il colpo di stato,
effettuato dai militari per riportare l’ordine entro le mura della
città, rappresenta il sigillo di una situazione instabile e
davvero insostenibile.
Tutto ha inizio con il lucido e premeditato assassinio del rettore
dell’istituto universitario di Kars in una rinomata pasticceria
del centro. Il professore, attento ad applicare le direttive in
merito all’educazione nazionale provenienti da Ankara, è intento a
godersi la sua fetta di torta alle noci. è consapevole di aver
servito scrupolosamente le leggi dello Stato laico senza
interferire con quelle religiose e senza averne compromesso la
stabilità e l’indipendenza. Agli occhi degli intransigenti,
tuttavia, è colpevole e va punito. Merita, anzi, il massimo della
pena. Va giustiziato quanto prima senza lasciarsi fuorviare da
inutili scuse o richieste di perdono. Nel locale, pertanto, entra
il suo carnefice pronto a comunicargli il verdetto di morte
espresso dal suo clan. Un verdetto, che come è ben presumibile,
non gli lascia vie di scampo. «Io ho fatto – dichiara l’ignoto
vendicatore – un viaggio di due giorni sotto la neve per uccidere
un infedele. Il Corano dice che uccidere chi è spietato è una
necessità». Le accuse si fanno via via più opprimenti. Il
professore, intanto, supplica, chiede che gli venga risparmiata la
vita, cerca di far ragionare il suo interlocutore. Ma si trova in
un vicolo cieco ed i suoi ultimi minuti scorrono rapidi. «Non mi
blandire inutilmente. – dice l’uomo con la pistola pronta a far
fuoco – Ma siccome hai riso delle ragazze che si uccidono, adesso
sarai tu a soffrire. La giustizia dei combattenti islamici – ecco
il responso finale – ti ha già condannato a morte: la decisione è
stata presa all’unanimità cinque giorni fa». Poche altre battute
seguono questa terribile decisione. Poi nient’altro che le
detonazioni, il rantolo disperato, la morte.
Questa scena esemplifica, nel miglior modo possibile, l’atmosfera
plumbea e nebulosa attorno alla quale si muovono i personaggi, le
storie spezzate, le illusioni perdute che si agitano nelle righe
di Orhan Pamuk. Esemplifica, ancor meglio, in termini letterari, i
risvolti neri della cronaca di tutti i giorni dal fronte iracheno
gettando una luce inedita sulle inquietudini di un dopoguerra
disseminato di attentati cruenti e terribili. «Con l’egemonia del
modello occidentale – ha spiegato Pamuk in un’intervista
rilasciata ad un settimanale italiano – il cosiddetto estremismo
islamico ha preso la forma dell’antimperialismo, della resistenza
all’Occidente, talvolta con forme che combattono il laicismo». Una
resistenza che, specie nella moderna Turchia pronta ad aprire le
sue frontiere all’Europa, assume i toni di un antagonismo
disperato fra un rinnovamento estraneo alla sua cultura islamica e
una difesa ad oltranza della sua tradizione millenaria.
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