Manuale del telespettatore
di Federico di Chio - Gian Paolo Parenti
Bompiani, Milano, 2003
pp. 307, € 15
 

Le virtù culturali della televisione
di Paola Liberace
[17 nov 04]

Perché guardiamo così tanto la Tv, come la guardiamo e cosa facciamo della Tv che guardiamo? Tre domande importanti, per avvicinare proprio coloro che la televisione la guardano. Come recita il titolo, il “manuale” è infatti destinato ai telespettatori, questi sconosciuti: a volte considerati target di mercato, a volte campioni statistici o massa indifferenziata. Di fatto, però, non si tratta di un mero vademecum per il pubblico: l’inserimento nella collana degli Strumenti Bompiani, nella fascia riservata a lettori «che vogliano conoscere sull’argomento anche le nozioni elementari», non rende giustizia all’esaustività del testo sulle questioni più profonde che riguardano il mezzo televisivo. Il “Glossario”, ad esempio, che occupa la seconda parte del volume, è tutt’altro che una semplice appendice orientativa: include veri e propri mini-saggi come il lemma sulla “Fiction”, ricco di tutte le informazioni indispensabili sul genere, e contestualizza i termini attraverso le ricostruzioni della storia radiotelevisiva del nostro paese. La prima parte del volume, dedicata a “Amore e audience”, si propone invece di comprendere le ragioni del successo del piccolo schermo, descrivendo il rapporto tra la televisione e il pubblico, evidenziando come l’ascolto sia disordinato, infedele, in continua negoziazione, e quindi per definizione sottratto ad uno scenario orwelliano.

Questi temi sono affrontati con una solida consapevolezza, che lascia emergere posizioni qualificanti anche nei brani apparentemente più divulgativi. L’altalena tra “apocalittici” e “integrati” regola ancora il dibattito: gli autori, schierandosi con chiarezza e serenità, affrontano il dilemma tra “normativi” e “interpretativi”, tra teoria ipodermica e audience studies. I primi guardano alla “cattiva maestra televisione” con sentimenti catastrofici – attribuendole di volta in volta un’influenza letale sugli spettatori, la loro totale passività, fino alla responsabilità del declino intellettuale, culturale e democratico della nazione. I secondi, al contrario, considerano il mezzo televisivo come uno dei due termini di una relazione – non necessariamente quello dominante – studiano sul campo modalità e dinamiche di questa relazione, e vedono nella Tv uno specchio della società stessa, anziché la causa del suo malessere. Gli studi e gli argomenti scientifici che portano gli autori ad optare per la seconda strada sono un valido sostegno per questa opzione; ma quel che più importa, l’opzione stessa assume la dignità di un’operazione culturale. E a proposito di “cultura”: il lemma “Cultura e Tv” chiarisce esemplarmente come, se si intende tout court il sapere “alto”, i catastrofisti abbiano gioco facile a negare che la televisione possa produrre cultura, insistendo sul suo degrado dal “liminale” al “liminoide”, dal solenne al banale. Ma basta volgere lo sguardo a chi, anche nell’accademia, ha attribuito al termine “cultura” un significato antropologicamente più ampio, per comprendere come «lungi dall’impoverire culturalmente il pubblico, la Tv lo arricchisce non solo di conoscenze “tradizionali” [...] ma anche di nuove competenze».