Leggere Lolita a Teheran
di Azar Nafisi
Adelphi, Milano, 2004
pp. 379, € 18
 

Voci dal silenzio nella terra degli Ayatollah
di Barbara Mennitti
[17 nov 04]

«La mia fantasia ricorrente è che alla Carta dei Diritti dell’Uomo venga aggiunta la voce: diritto all’immaginazione. Ormai mi sono convinta che la vera democrazia non può esistere senza la libertà di immaginazione e il diritto di usufruire liberamente delle opere di fantasia. Per vivere una vita vera, completa, bisogna avere la possibilità di dar forma ed espressione ai propri mondi privati, ai propri sogni, pensieri e desideri». Con queste parole Azar Nafisi, professoressa di letteratura inglese all’Università di Teheran, poi sospesa, inizia l’ultimo capitolo del suo libro. E con queste parole simboliche lei e la sua famiglia abbandonano per sempre l’Iran degli Ayatollah, per trasferirsi negli Stati Uniti, dove la Nafisi aveva già passato alcuni anni della gioventù. Sceglierà di ritornarci per poter ricominciare a immaginare e quindi vivere davvero.

Leggere Lolita a Teheran è un libro a metà fra la biografia e la critica letteraria, fra la storia e la politica, un po’ romanzo e un po’ saggio, che attraverso quattro grandi opere della letteratura occidentale racconta la vita nella Repubblica Islamica dell’Iran dalla rivoluzione di Khomeini ai giorni nostri. Passando attraverso gli scontri alle Università, le leggi repressive soprattutto nei confronti delle donne e i divieti sempre crescenti, le retate, gli arresti arbitrari e le esecuzioni pubbliche, la guerra contro l’Iraq e il grande bluff di Kathami, falsamente celebrato da qualcuno come il grande democratizzatore.

Ma è soprattutto un libro sulla libertà intellettuale e sulla creatività, sull’amore per la letteratura e sui messaggi di cui essa è latrice, che nessuno può fermare, tantomeno un legislatore che si preoccupa di sancire «che un uomo che abbia fatto sesso con un pollo, non può poi mangiarlo» (né lui, né i suoi parenti più stretti. Però possono mangiarlo i vicini, a patto che abitino ad almeno due porte di distanza). è un libro che dimostra come sia impossibile imporre la sharia ai cervelli.

E infatti insegnando Nabokov, Fitzgerald, James e Austen, la professoressa Nafisi continua a tenere desti i suoi studenti e le sue studentesse, mostrando loro un mondo diverso. Li obbliga a pensare, a discutere, a confrontarsi, anche a dissentire tenendo viva la loro curiosità intellettuale. Tanto è vero che nessuno dei suoi studenti, neanche quelli “islamici” che avevano processato Il grande Gatsby, abbandonerà mai i suoi corsi. Una volta espulsa dall’università perché rifiutava di portare il velo, la professoressa continuerà a tenere le sue lezioni segrete in casa per un ristretto gruppo di studentesse, mentre fuori da quella piccola oasi intellettuale ragazzi e ragazze venivano arrestati e mandati a morte perché erano «occidentalizzati e fumavano sigarette Winston». E in carcere i guardiani contraevano matrimonio provvisorio (una delle trovate più ipocrite e ridicole del regime) con le giovani vergini condannate a morte e le defloravano, per evitare che andassero in paradiso.

Come detto, Azar Nafisi ha lasciato l’Iran, così come quasi tutte le sue studentesse. Ma la speranza è che qualcuno continui a leggere Lolita a Teheran e riconosca in «Humbert, che vuole imporre la sua volontà ad un altro essere umano, Lolita, l’essenza stessa del totalitarismo». E impari la lezione di Nabokov: Humbert distrugge l’oggetto del suo desiderio e lo perde per sempre.
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