Due nazioni
a cura di Loreto Di Nucci
e Ernesto Galli della Loggia,

il Mulino, Bologna, 2004
pp. 366,
19,50
 

Quelle due Italie separate dall’ideologia
di Aldo G. Ricci
[17 nov 04]

La raccolta di saggi curata da Loreto Di Nucci e Ernesto Galli della Loggia presenta un titolo (Due nazioni) e un sottotitolo (Legittimazione e delegittimazione nella storia dell’Italia contemporanea) che enunciano già con precisione gli intenti del progetto di ricerca sviluppato all’interno del programma più vasto della Fondazione Giovanni Agnelli dedicato alla società civile italiana. Il punto di partenza della riflessione, come spiegano i curatori nell’introduzione, è la constatazione delle profonde contrapposizioni che durante l’Ottocento si sviluppano nei paesi europei nel corso dei processi di modernizzazione politica e sociale che accompagnano, con maggiore o minore violenza, i cambiamenti profondi delle diverse società continentali. Nobili e Terzo Stato, proletari e borghesi sono i termini personificati di una catena conflittuale destinata a prolungarsi in forme diverse nel corso del secolo: una filiera di spaccature più o meno profonde che si determinano, paradossalmente, nel contesto di situazioni nazionali caratterizzate da una forte aspirazione all’unità (dove questa ancora non è stata raggiunta) e al suo rafforzamento (nei paesi di più antica tradizione unitaria).

Se le fratture costituiscono una caratteristica “normale” dei processi di modernizzazione ottocentesca, la loro trasformazione in forme permanenti e patologiche denuncia invece una “forte propensione alla divisività”, la presenza insomma nel corpo nazionale e sociale di una tendenza a far prevalere sempre e comunque i fattori di divisione su quelli di unione. Ed è proprio questa la condizione che caratterizza, secondo i curatori e gli autori dei diversi saggi, il nostro paese. Una condizione in cui le contrapposizioni poggerebbero non tanto (o non solo) su divisioni sociali o religiose, quanto su fattori di natura politico-ideologica. Il neologismo “divisività”, per la patologia della conflittualità e della diversità, è assunto, mutuandolo da Rusconi come base della riflessione, da Luciano Cafagna nel suo saggio di apertura, centrato sulla contrapposizione tra legittimazione e delegittimazione nel sistema politico italiano, ovvero tra riconoscimento della legittimità del potere e contestazione della stessa, rinviandone l’origine alla base minoritaria, e scomunicata dalla Chiesa, su cui si è dato vita alla prima costruzione unitaria.

Questa dicotomia si è poi perpetuata in tutte le contrapposizioni politico-ideologiche e partitiche di un secolo e mezzo, rendendo sempre patologicamente precaria la sopravvivenza di una comune base della coscienza nazionale. Sulla scia di questa prospettiva metodologica si sviluppano le altre ricerche del volume. Giovanni Belardelli ricostruisce la critica democratica del Risorgimento e dell’Italia unita che ne fu il frutto, vista come una nazione “senza anima” perché privata dalla monarchia di quell’apporto popolare che avrebbe dovuto rappresentarne il cemento più forte: una prospettiva sintetizzata dal verso di Felice Cavallotti («Atra Italia sognavi») rivolto a Giuseppe Garibaldi. Paolo Macry spiega poi come l’alterità del Mezzogiorno e le politiche per la sua “civilizzazione” abbiano in qualche modo contribuito a perpetuare l’alterità della stessa Italia rispetto al contesto europeo. A Giorgio Rumi è affidato invece il compito, che chiude il capitolo ottocentesco, di analizzare la contestazione cattolica del nuovo Stato e delle sue istituzioni.

Con il secolo breve cambiano le contrapposizioni, ma non il meccanismo che le alimenta. Il primo esempio è costituito dalla Grande Guerra, su cui riflette Giovanni Sabatucci, come fattore di divisione della vita nazionale: guerra infatti voluta da una élite, che si proclamò interprete della nazione ideale, ma poi anche guerra di massa, vissuta da una parte del popolo che alla fine la sentì sua, e osteggiata invece duramente da un’altra parte, con il risultato che l’esperienza non fu elemento di crescita della nazione, ma di rottura. Al fascismo è dedicato il saggio di Loreto Di Nucci che, attraverso le tappe del tentativo di costruzione del regime totalitario, scandaglia il processo di appropriazione della Nazione da parte dello Stato fascista, con la conseguente espulsione dal corpo nazionale degli antifascisti, descritti dalla propaganda come “antinazionali”.

Alla perpetuazione del fascismo come presunta minaccia senza tempo, anche dopo la sua caduta, insita nel Dna nazionale, e quindi come elemento della lotta politica nell’Italia repubblicana è dedicato il saggio di Ernesto Galli della Loggia, che ricostruisce le diverse sfumature di una posizione divenuta strutturale nella politica italiana del dopoguerra, volta a decontestualizzare il fascismo dal suo quadro storico d’origine e a farne, sia in chiave classista che etico-politica, un pericolo latente per la società italiana, da utilizzarsi come strumento di mobilitazione politica permanente.

In chiave più strettamente di ricostruzione storica si muove invece la ricerca di Roberto Pertici, che passa in rassegna le varie anime dell’anticomunismo italiano, a partire dalla metà degli anni Trenta fino al 1960. Gli ultimi due tasselli della ricerca sono i saggi di Massimo L. Salvadori e Raffaele Romanelli. Il primo affronta un aspetto essenziale per il problema in esame, vale a dire il rapporto tra storiografia e legittimazione politica: un rapporto che nel caso italiano ha svolto un ruolo di primo piano che non sembra destinato a diminuire col tempo. Muovendo da De Sanctis e Salvemini, attraverso Gobetti, Dorso e Gramsci, poi Croce e Volpe, s’arriva al dopoguerra con gli aspri dibattiti su prefascismo, fascismo e postfascismo, alla storiografia marxista e alle polemiche di Romeo, per finire con Pavone e il “revisionismo” di De Felice.
Quanto si tratti di tematiche ancora al centro del dibattito emerge con evidenza dal saggio finale di Romanelli che, sotto il titolo emblematico di “Retoriche di fine millennio”, ripercorrendo in particolare il dibattito storico-politico dell’ultimo decennio, mostra quanto di irrisolto e ripetitivo s’annidi ancora nel cosiddetto passato che non passa del nostro paese.

Inutile tentare di tirare le fila di un discorso così complesso, che affronta un filone cruciale per la riflessione storiografica sulle vicende unitarie del nostro paese. Spezzare le catene della divisività, come scrivono i curatori, è compito della classe politica in primo luogo, ma anche della storiografia, entrambe portate ancora a privilegiare le ragioni e le interpretazioni di parte su quelle unitarie. Con la consapevolezza, aggiungerei ben sapendo di dire qualcosa di quasi ovvio, che il compito di ricostruire le vicende della storia unitaria e della sua preparazione, almeno dall’89 in poi, è lungi dall’essere esaurito, in particolare dopo che le storiografie ideologiche hanno cominciato ad avere il fiato corto.

Nella storia unitaria italiana c’è insomma una corrente più o meno carsica di resistenza al processo di unificazione prima e poi allo Stato unitario che è ancora lungi dall’essere stata identificata in tutte le sue componenti e che ha fatto del nostro paese il teatro di una guerra civile, a volte latente altre palese, i cui effetti continuano a manifestarsi sotto i nostri occhi. Nonostante i progressi della riflessione negli ultimi anni, il problema non è certo ancora esaurito.