Gli antisemiti progressisti
di Fiamma Nirenstein
Rizzoli, Milano, 2004
pp. 394,
18,50
 

Il ritorno dell’antisemitismo
di Marta Brachini
[17 nov 04]

«Se avete lacrime preparatevi a versarle adesso». Fiamma Nirenstein, corrispondente de La Stampa a Gerusalemme, ci racconta in un aspro capitolo del suo ultimo libro, Gli antisemiti progressisti. La forma nuova di un odio antico, la vita e la morte nella quotidianità israeliana degli ultimi anni di terrore. Racconta il terrorismo che «svuota, spezza, modifica i linguaggi e i significati, occupa tutti gli spazi annullando ogni libertà» di chi lo subisce. Ma questo racconto è soprattutto una denuncia dell’indifferenza, dell’ignoranza, del pregiudizio e delle ideologie che si frappongono tra chi giudica Israele e chi vive in Israele. Un giudizio politico negativo, soprattutto riguardo le responsabilità dell’interminabile conflitto mediorientale, sullo Stato ebraico è oggi largamente diffuso in quella parte di opinione pubblica liberal-progressista e pacifista. A conferma di questa analisi l’autrice riporta innumerevoli prove, sondaggi, atti e opinioni, sentenze, risoluzioni antisraeliane, e una interpretazione storica della ragione per cui si fa ancora tanta fatica a parlare di situazioni che coinvolgono in sostanza gli ebrei in generale. Non è affatto comodo parlare di antisemitismo, antisionismo e antiamericanismo poiché molto spesso «appare come una scusa per difendere Israele». Ma è sicuramente necessario. Fiamma Nirenstein è arrabbiata. Ce l’ha con l’Europa intera che a suo avviso soffre il mal di guerra.

La guerra, o meglio la coscienza di essere minacciati dal suo stesso spirito, è una possibilità che gli europei cercano continuamente di esorcizzare. L’averne fatto esperienza nel passato impedisce loro la storicizzazione e il superamento del male più oscuro dell’ultimo conflitto: la Shoà. Qui risiede per l’autrice un’importante chiave di lettura della ritrosia generale a considerare l’antisionismo come origine di una nuova ondata di antisemitismo, stavolta mondiale, indirizzato contro Israele e gli ebrei tutti. Infatti, il problema d’Israele è quello di trovarsi storicamente al di fuori di quello spirito irenico che ha animato e formato generazioni di europei, essendo costantemente in guerra a partire dalla sua nascita. La memoria europea, ostinatamente attaccata agli ideali di unità dei popoli e di rispetto dei diritti umani, si nutre di valori ormai assoluti: «no a tutte le dittature, no ai duci, ai fuhrer, no alla guerra, no allo spirito di conquista, no al nazionalismo, no all’oppressione di altri popoli, no al rifiuto culturale e razziale». Valori condivisi, nel caso italiano, soprattutto dalla maggioranza delle forze politiche di sinistra ed ex democristiane. Anche l’autrice ha condiviso l’entusiasmo degli anni della contestazione giovanile, salvo poi accorgersi in seguito che il vento che portava quelle idee non era animato da uno spirito completamente disinteressato. C’era ipocrisia, e ce n’è forse ancora di più oggi, e assai meno giustificabile. Ipocrisia o totale confusione. Come giudicare ad esempio, l’ampia restrizione dei diritti delle donne nei paesi islamici? Dovremmo forse rifiutare di riconoscerli in nome del relativismo culturale o denunciare la mancanza di libertà individuale in paesi e popoli senza democrazia? Stessa cosa per i paesi dove esiste il reato di apostasia: è forse eccessivo giudicarli come intolleranti o preferiamo non esprimere un giudizio “etnocentrico”? Nel caso israeliano il giudizio è spesso intrappolato in schemi rigidi.

Il caso palestinese è la pietra di paragone della democrazia israeliana. Tanto più i palestinesi soffrono, tanto meno Israele diventa democratico. Questo è il ragionamento sotto accusa nel libro della Nirenstein. La causa palestinese è divenuta nel tempo un vessillo di battaglia di tutti i popoli oppressi contro i “dominatori” fino a far passare in secondo piano anche gli atti di terrorismo più gravi, le cui origini sono largamente antecedenti gli avvenimenti attuali. Il terrorismo, come si apprende dal capitolo dedicato al campo profughi di Deheisheh, non sembra essere alimentato dalle condizioni di disperazione di milioni di palestinesi. Questo capitolo contiene una denuncia dello sfruttamento delle condizioni dei profughi da parte dei loro stessi benefattori, come l’Unrwa ad esempio, l’organismo creato nel 1949 dall’Onu per la loro assistenza, anche se poi di fatto il loro stato attuale non è mutato se non nel numero delle persone che si trovano in questa condizione. L’immobilità di questa situazione diviene così funzionale al fine di perpetuare l’odio contro gli israeliani e costituisce un pretesto valido all’avanzamento di ogni tentativo di accordo di pace. «I profughi – scrive la Nirenstein – sono la casa di molte organizzazioni terroristiche […]. La prova vivente e anche il motore della bugia contenuta nell’espressione due Stati per due popoli».
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