Caro Pansa, ti spiego io l’ira di Bocca
di Francesco Cossiga
da Ideazione, gennaio-febbraio 2004

E’ proprio vero che la storia vera, e cioè il racconto secondo verità e quindi completo, non condizionato, suggestionato o peggio distorto e senza censure, e non orientato da interessi attuali di parte che inducono alla manipolazione dei fatti, aperti alla conoscenza e al giudizio del lettore, magari anche esprimendo su di esso il proprio storicizzato giudizio, puranco politico ed etico, può essere solo storia del passato e mai del presente, e di cui a stento si può solo fare superficiale cronaca. Ne è la dimostrazione il bel libro di Giampaolo Pansa “Il sangue dei vinti”, edito da Sperling & Kupfer, nella collana di “Saggi” dedicati alla storia contemporanea. Ho letto con sofferenza e sconcerto, ma non con scandalizzata meraviglia, il racconto in questo libro ampiamente documentato delle stragi e delle carneficine che, al di fuori di ogni orizzonte di giustizia, anche “sommaria”, nei confronti di responsabili di crimini, sono state compiute a Guerra di Liberazione finita e cioè dopo il 25 aprile 1945.

E ciò avvenne quindi dopo la sconfitta in Europa della Germania nazista e l’annientamento in Italia della Rsi; dopo che le sconfitte forze armate germaniche, comprese le SS, le Waffen SS anche non germaniche, i reparti di Polizia e la Gestapo – in alcuni casi a bandiere spiegate e al suono delle loro bande militari, e dopo aver assistito senza intervenire e senza essere attaccati, allo scatenamento della guerra civile tra italiani delle due parti e al loro reciproco massacro – iniziarono, non disturbati né dagli Alleati né dai partigiani, lo sgombero del Nord-Italia, secondo gli accordi tra il Comando Supremo Alleato del Mediterraneo e il Comando Militare delle Forze germaniche in Italia stipulati in Svizzera tra Allen Dulles, il rappresentante dell’Oss – il servizio informativo americano e per le operazioni speciali, che ne aveva avuto delega e mandato dalle Tre Potenze operanti nel teatro europeo – e il Waffen-SS Generale d’Armata Karl Wolf Capo delle SS, delle Waffen SS, della Gestapo e delle altre Forze di Polizia germaniche in Italia. E tutto ciò alle spalle del Governo Regio italiano, del Cnlai e del Cvl da una parte e del governo e dei Comandi della Rsi dall’altra, entrambi totalmente tenuti all’oscuro.

Ho letto con sofferenza queste pagine perché, essendo stato a quei tempi – pur trovandomi in Sardegna e avendo solo diciassette anni – un fervente antifascista e non essendo riuscito un gruppo di giovani amici, tra cui Sergio Siglienti e Celestino Segni e io stesso, a trovare presso i Comandi alleati in Sardegna alcun ascolto alle nostre richieste di essere regolarmente arruolati nelle forze armate alleate o del Regno del Sud, per combattere il “tedesco invasore”, sono stato quindi politicamente e civilmente educato, anche successivamente, nel “mito” della Resistenza quale guerra patriottica di liberazione. Anche per questo non posso che contemplare con profondo dolore – anche per rispetto ai partigiani caduti con le armi in pugno, ai militari delle Forze regolari di liberazione, ai militari e civili vittime dei lager o della crudeltà germanica – i crimini politici e comuni che furono commessi da non poche formazioni partigiane comuniste dopo il 25 aprile 1945.

Certo, la lucida e drammatica distinzione tra “guerra patriottica”, “guerra civile” e “guerra di classe” nella realtà e nella storia della Resistenza italiana, operata da un sincero “convertito antifascista” e animo certamente nobile e onesto quale è Norberto Bobbio, mi aveva già allarmato, ma prima ancora avevo raccolto il racconto, quasi sussurrato, di amici che avevano combattuto la guerra partigiana nel Nord. Alberto Marcora ad esempio, che mi avevano rivelato come i partigiani “non comunisti” si dovevano spesso... guardare le spalle, proprio mentre combattevano contro i reparti militari nazi-fascisti. Ho letto con sofferenza queste pagine, ma anche con profonda ammirazione: per il coraggio dolorante con il quale un democratico, un antifascista, un comunista degli anni giovanili, Giampaolo Pansa, le ha scritte, così come aveva già scritto su gli stessi temi e con eguale sincerità e onestà, se pur con una diversa “calligrafia letteraria”, il bel romanzo I figli dell’aquila che narra la storia di un giovane che dopo l’8 settembre 1943 scelse con onestà in nome dell’ “amore” la Repubblica sociale italiana.

Comprendo così come egli debba aver sofferto, e forse soffra tuttora, per le durissime parole e ingiusti giudizi, al limite ingiuriosi, espressi su di lui con sincerità e onesta violenza, da un altro antifascista e galantuomo quale è il grande giornalista e valoroso partigiano Giorgio Bocca: “Un libro vergognoso”, ha infatti scritto quale lapidario commento a Il sangue dei vinti, travolto dalla sua struggente passione antifascista, ma anche dalla innata faziosità del post-azionista deluso, e che a motivo della sua delusione cerca di eliminare comunque le cause di essa. Ma perché questo duro contrasto tra due galantuomini, democratici e antifascisti entrambi?

Giampaolo Pansa è non solo un uomo libero, ma anche un liberal all’inglese, per il quale la “verità” conta per il “bene”, sia storico che civile, più che l’“utile” politico qualunque. Giorgio Bocca è certamente un uomo libero anch’egli, ma, vetero e post-azionista “rancoroso” quale è, non certo “liberal”... e non è il solo esemplare. Ne abbiamo infatti di più importanti perfino al vertice dello Stato. Peraltro, non dimentico il profluvio di critiche e insulti che ricevetti quando, primo capo dello Stato dell’Italia repubblicana “fondata sulla Resistenza”, mi recai in dolorante pellegrinaggio riparatorio a onorare i “patrioti”, tra cui una donna valorosa, dell’epica Brigata Partigiana Osoppo nel luogo ove, per ordine del IX Corpus Jugoslavo, elementi di vertice di una brigata comunista “garibaldina”, mi sembra la “Val Natisone”, dopo aver attratto in una trappola a Malga Porzus i componenti dello stato maggiore della “Osoppo” – poi tutti silenziosamente decorati al valor militare – ivi li trucidò freddamente. Fui autorevolmente sconsigliato dal fargli rendere gli onori militari (a proposito, perché Carlo Azeglio Ciampi non pone riparo al mio errore? Perfino l’Unità e il freddo e razionale Luciano Violante lo elogerebbero: ed è tutto dire!).

Per cinquant’anni quasi ci si vergognò non degli assassini dei partigiani della “Osoppo” in parte rifugiatisi all’Est con l’aiuto del Pci e del Guardasigilli dell’epoca (ne conobbi in Slovenia uno, peraltro affranto dal rimorso), ma dei “martiri” trucidati, tra cui vi era anche il fratello di Pier Paolo Pasolini, Guido – perfino ignorato nella biografia del fratello sopravvissuto... – sui cui si arrivò anche a gettare l’infamante dubbio di… tradimento e collaborazionismo con i germanici. Pur essendo, quindi, pienamente solidale con Giampaolo Pansa (ma non vorrei con la mia solidarietà comprometterlo ancora di più...), credo però di poter comprendere, se pur con qualche difficoltà, anche la posizione di quel “galantuomo”, anche se fazioso, nel senso trecentesco del termine (come lo fu Dante insomma) che è Giorgio Bocca.

Di Giampaolo – che tante volte mi criticò aspramente come “politico” e soprattutto come presidente della Repubblica – ricordo bene il coraggio con cui, nella drammatica corrispondenza dai cancelli di Mirafiori, appena il giorno dopo l’attentato a Carlo Casalegno (il 16 novembre del ’77) a Torino, ebbe il coraggio di rivelare che aveva potuto dolorosamente constatare come alla gran massa degli operai della Fiat, almeno a quelli di Mirafiori, del sequestro del grande giornalista antifascista Carlo Casalegno colpito dal “terrorismo rosso”, non importasse nulla, ed anzi qualcuno avesse lanciato la parola d’ordine: “Dieci, cento, mille Casalegno!”.

Ero allora ministro dell’Interno e la corrispondenza di Pansa non mi piacque affatto: non dubitai certo che non corrispondesse al vero, ma alla strategia politica di lotta contro il terrorismo, era a mio avviso più “utile” il mito della classe operaia compatta contro il terrorismo, che non la verità. E ricordo anche che alla vigilia delle elezioni del 1976 – quelle del tanto da Aldo Moro temuto “sorpasso” della Dc da parte del Pci – egli raccolse una bella ma sconvolgente intervista a Enrico Berlinguer, nella quale il leader comunista, superando l’anti-atlantismo classico del Pci (“servi degli americani!”), dichiarava che il comunismo italiano accettava ormai pienamente il Patto atlantico e che anzi, sotto il suo ombrello, sentiva più sicura la sua autonomia: erano iniziati i tempi dell’eurocomunismo. Certo, la “vulgata” confidenziale fatta circolare tra gli allibiti quadri medi del partito, fu (ma io non vi ho prestato mai fede, conoscendo l’uomo!) che la sconvolgente dichiarazione fosse stata addirittura autorizzata dal Pcus su richiesta di Berlinguer, al fine di aiutare i “compagni italiani” nelle imminenti elezioni che sembravano decisive per il futuro del Pci e dell’Italia.

Perché, dunque, comprendo l’“ira” di Giorgio Bocca? Perché essa è l’espressione di una “cultura politica”, direi anche e perfino di un’etica politica, nel senso macchiavellico e gramsciano del termine, che ha egemonicamente plasmato quasi cinquant’anni di vita culturale, civile e politica di gran parte della sinistra italiana e dei compagni-di-strada di essa (Bobbio, Galante Garrone, Eugenio Scalfari e tanti altri) e inconsapevolmente o meno ieri, ma anche oggi, di molti cosiddetti “cattolici democratici” e che, unitamente all’ancora largamente imperante lascito della “egemonia culturale” marxista e para marxista nelle università e nell’editoria, ha segnato profondamente e tuttora segna lo spirito del paese.

Basti pensare al valore “religioso” che un pur santo monaco, sacerdote di Santa Romana Chiesa, ex-politico (mai iscritto peraltro al partito della Dc, anche se stranamente nominato da Alcide De Gasperi… vice-segretario politico di esso!, ma eletto nelle file della stessa), don Giuseppe Dossetti, negli ultimi anni della sua vita, nel suo sogno quasi neo-giobertiano di una unitaria riforma politico-ecclesiale insieme dello Stato e della Chiesa, diede alla Resistenza e alla Costituzione, quasi auspicando per il futuro un “quasi Concilio Nazionale-Assemblea Costituente”. E lo permea tuttora, a sentire la “predicazione laica”, “patriottarda” e “nazional-qualunquista” di quel “buon uomo”, ma peraltro certamente gran galantuomo, che è Carlo Azeglio Ciampi.

Dopo che l’Italia (e smettiamola con la storiella dell’ “Italia che ha vinto la guerra”!), aveva subito una vergognosissima sconfitta e, per essere stata essa auspicata da moltissimi italiani (tra di esse le famiglie antifasciste dell’epoca, compresa la mia), ma soprattutto per il tradimento del monarca e dei suoi “generali”, aveva celebrato, per dirla con Salvatore Satta, il de profundis della patria; dopo che drammaticamente, proprio durante l’Assemblea Costituente, il paese ancora una volta era stato spezzato in due, si dovette ricorrere per salvarne la “pace interna”, al “mito” dell’unità dell’antifascismo nell’antifascismo e nell’unità della e nella Resistenza (tutti rigorosamente scritti e anche pronunziati in maiuscolo!) per edificare la Repubblica e su cui fondare ed in forza del quale legittimare la Costituzione. E a ciò si dovette ricorrere anche al fine di evitare di far precipitare il paese in una guerra civile, dolorosa conseguenza della spaccatura dell’Europa e del mondo, e che avrebbe visto certamente la vittoria militare e politica del comunismo sovietizzante o – nel caso, anch’esso probabile di una sua sconfitta in una insurrezione armata per intervento militare degli anglo-franco-americani in nome dei “principi di Yalta” – avrebbe visto la tragica affermazione di un “regime di colonnelli massoni” filo americani, in entrambi i casi con la morte della appena rinata democrazia!

Per questo, appunto, lo ripeto, ci si inventò quale mito fondante della Repubblica e della Costituzione il mito dell’ unità antifascista, in uno con il mito della Resistenza unitaria e con il mito della Liberazione. I “miti” contengono sempre certamente una parte di “verità” – ché altrimenti sarebbero solo …favole o peggio menzogne – ma non sono la “verità”. E alla fine, se dei miti si abusa o anche quando essi si consumano per il passare del tempo o per l’emergere del reale, la “verità” si ribella! E così, ad esempio, un modestissimo testo costituzionale, quale è la Costituzione del 1948 – su cui si abbatté giustamente il giudizio negativo e sarcastico di Piero Calamandrei – una “costituzione” da Cnl, scopiazzata da qui e da lì a metà tra il codice cattolico-sociale di Camaldoli di larga ispirazione corporativistica e la formalmente bella Costituzione sovietica del 1936. E così si arrivò ad inventarsi invece la formula: della “Repubblica fondata sui lavoratori” proposta da Palmiro Togliatti, che avrebbe avuto un senso grande se marxisticamente e illuministicamente intesa, la formula ridicola della “Repubblica fondata sul lavoro” di dossettiana invenzione, che è quasi roba da dopolavoro fascista! E così la Costituzione del 1948 è diventato un “opus magnum”, e come tale viene celebrato, almeno prima e dopo i pasti principali e tutti i giorni della settimana, dal nostro Capo dello Stato. E invece tutti, ma proprio tutti, vogliono cambiarla.

Certo, questa Costituzione ha un grande merito: è il “Piccolo Trattato della Yalta interna italiana” che ha contribuito a salvare il paese dalla guerra civile, e che ha trovato giustamente nel primo e grande “compromesso storico De Gasperi – Togliatti – Andreotti”, la sua più autentica attuazione. Anche se il Pci – ricordo personalmente le accuse e le perorazioni di Renzo Laconi, il grande comunista sardo che fu poi chiamato a contestare e contrastare in Parlamento – considerò non solo politicamente, ma anche istituzionalmente illegittime le deliberazioni adottate dal Parlamento, senza il loro voto, ad esempio nel caso dell’approvazione della così detta legge-truffa e dell’adesione dell’Italia all’Alleanza Atlantica prima e poi alla Comunità europea: illegittime ancorché approvate a maggioranza, perché non frutto di un accordo preventivo con il Pci e senza il voto di esso. Perché era appunto l’accordo ciellinistico, da Fronte popolare e soprattutto l’intesa Pci-Dc, che costituiva per il Pci il fondamento e la causa legittimante della Costituzione, ponendosi anche come legale regolare del suo funzionamento legittimo e democratico.

E a voler fare il giurista, nel senso di una scienza giuridica positiva ma anche illuminata dalla storia civile, culturale e politica, la tesi interpretativa della Costituzione propria del Pci non è forse priva di qualche solido fondamento. Certo, le rivoluzioni silenziose con cui, con la sua non attuazione, di fatto la Dc di De Gasperi operò la riforma della Costituzione ha oscurato questa forse più autentica interpretazione di essa! I comunisti votarono la Costituzione perché ritennero che in essa, in parte nei suoi princìpi fondamentali e in alcuni suoi meccanismi, si potesse realizzare quel tipo di Costituzione emanata, anche se poi non attuata, nelle democrazie orientali, che, soltanto in linea di principio il pluralismo politico e sindacale realizzarono in regime però di democrazia consociativa, guidata dall’egemonia dei partiti popolari e dal prospettato sindacato unitario, in cui non il principio di maggioranza, proprio dei regimi liberali costituiva la regola del deliberare democratico, ma il principio della più ampia maggioranza delle parti antifasciste che avevano combattuto insieme nella Resistenza e che insieme avevano edificato la Costituzione. Questo spiega il perché movimenti, almeno fino a ieri non ancora “antifascisti”, non fossero legittimati come soggetti democratici della vita parlamentare e politica, benché i loro rappresentanti fossero eletti, e numerosi, in Parlamento e negli altri consessi elettivi di governo e di amministrazione degli enti locali con suffragio democratico da centinaia di migliaia di cittadini.

Le origini del rifiuto del “principio maggioritario” sono lontane: nel medioevo, nel primo governo elettivo che si conosca, quello dei grandi ordini religiosi e soprattutto delle Abbazie benedettine, il principio della maior spes fu temperato più da quello della maior et melior spes! E non volgarmente “reazionaria”, ma sottilmente sostanzialista fu la lunga e tenace avversione della dottrina politica cattolica e della Chiesa, consacrata mirabilmente nel Sillabus del Beato Pio IX, alla democrazia elettiva intesa come democrazia del numero. E la convinzione che alla “legittima democraticità sostanziale” di una decisione non basti il voto della maior pars, ma occorra quello della melior pars, è presente nella richiesta, ancor oggi attuale, che le decisioni importanti vengono prese “mediante accordi”, con il “concorso più vasto”: e non a caso questa “dottrina” è coltivata da coloro le radici etiche e storiche delle cui convinzioni democratiche affondano nell’humus del pensiero comunista o “aristocratico-azionista” o cattolico-sociale. Ma questa Costituzione ha ormai esaurito la sua funzione, tanto che la vediamo sostituita da successive e ricorrenti “costituzioni di fatto”, secondo il capriccio di partiti e capi dello Stato.

Certo, a Giorgio Bocca non manca il coraggio e l’intelligenza di far del mito, una verità, e in verità mitica tradurre la falsità storica o almeno la manipolazione di essa. Quel che manca però a Giorgio Bocca è il grande respiro rivoluzionario che solo se comunista egli potrebbe avere! Esso gli permetterebbe allora non solo di “giustificare”, anche se con insulti ed invettive!, ma anzi di “glorificare” i “crimini” partigiani del dopo 25 aprile 1945. Egli si chiude in una timorosa negazione della realtà, che ricorda il Pcus che per decenni negò, ma per fini tattici, la responsabilità sovietica nell’eccidio di Katin, eccidio che invece per un “comunista” ortodosso avrebbe dovuto esser giudicato, perché “doveva essere giudicato”, e per molti fu, una misura prudente, utile e necessaria per la edificazione del socialismo in Polonia, ponendo come presupposto di essa l’eliminazione fisica, nelle persone dei 15 mila ufficiali polacchi trucidati, di una buona parte della classe dirigente “borghese” e anti-russa di quel paese, che sarebbe stato difficile assai “cooptare” in una Polonia comunista, a differenza delle classi contadine e piccolo-borghesi.

E forse un comunista ortodosso può giustamente chiedersi, con tragico coraggio ma serena e oggettiva sincerità di marxista-leninista, se senza le “stragi” ordinate da Lenin e da Stalin, senza l’annientamento dei kulaki, senza i gulag, sarebbe stato possibile fare di una accozzaglia di contadini analfabeti, di piccoli-borghesi corrotti, di operai ignoranti e poltroni, dalle cento lingue e dai mille costumi, dalle decine di razze e colori, un grande, unito e forte popolo e un grande, unito e forte paese: il glorioso ed eroico popolo sovietico e la grande e potente Urss, sotto la guida di un vittorioso partito, il Pcus. E non può anche non chiedersi (ma a dire il vero questa domanda ha tante volte tormentato me stesso...) se, senza il popolo sovietico, senza l’Urss, edificata anche grazie ai “gulag”, e senza il Pcus, irrobustito dalle “purghe”, sarebbe stato mai possibile battere la Germania e sradicare il nazismo, il “male assoluto”. E perché Giorgio Bocca non ha almeno allora lo stesso “coraggio intellettuale” e “politico” dei giovani delle Br (esemplarmente “illuminato” dal bel e tragico film di Bellocchio sul rapimento Moro!), e non afferma senza tremore che senza cinquantamila italiani eliminati non si sarebbe forse potuto nel dopoguerra battere e sradicare il fascismo ed edificare Repubblica e democrazia? Colpevoli o innocenti? E che domanda sarebbe mai questa da morale borghese per giudicare dei fatti della Storia? E’ la “terribilità” dei grandi movimenti che conta!

Quella terribilità che poi costituì la “divisa” delle Br, le quali, coerentemente e per reagire all’insuccesso politico del massacro dei cinquantamila, rivendicarono appunto a se stesse – se pur utopicamente, ma non senza qualche valido titolo – la missione di realizzare o concorrere a creare le condizioni per l’attuazione della “terza fase” della Resistenza, la “guerra di classe”, per l’affermazione della dittatura comunista del proletariato. La prima fase della Resistenza era la “guerra patriottica di liberazione”; la seconda fase, conclusa parzialmente, era la “guerra civile” contro il fascismo, ma non arrivò a sradicarlo totalmente e risparmiò anzi il suo humus conservatore borghese. Certo, rinunziare alla vita ordinaria, darsi alla pericolosa “clandestinità”, impugnare le armi, uccidere persone anche se solo “politicamente” colpevoli, uomini miti come Aldo Moro o Roberto Ruffilli, o essere uccisi come Margherita Cagol, è certamente più duro che non pronunziare o scrivere articoli “resistenziali”. E poi, essi non erano neanche pagati…

Penso dunque che dobbiamo essere grati a Giampaolo Pansa di questo libro realistico, sereno, severo, coraggioso e vero. Esso ci aiuta a comprendere l’origine ideologica, l’ “etica politica”, la forte ispirazione da “Resistenza espropriata”, della sovversione di sinistra degli anni Settanta-Ottanta, e soprattutto delle Brigate rosse. Ricordo quasi con commozione il racconto fattomi del suo passaggio in clandestinità, da un militante del Pci, poi arruolatosi nelle Br, che uscito io dal Quirinale, visitai, ferito e ammalato in carcere, un vecchio partigiano comunista, che aveva valorosamente combattuto nella guerra civile, nell’ambito della “guerra patriottica”, con l’animo però volto con speranza alla “terza fase” di essa: la “guerra di classe” per l’avvento del comunismo e l’instaurazione della dittatura del proletariato, lo schieramento tra i paesi del “socialismo reale”, guidato dal Pcus e dall’Urss contro l’“imperialismo capitalista” dell’Occidente – quando egli gli comunicò la sua decisione di darsi alla clandestinità e alla lotta armata, gli consegnò un’arma da lui usata nella lotta partigiana, dicendogli: “Riprendi ora tu, con questa, da comunista, la lotta da dove siamo stati fermati!”. Parole tremendamente illuminanti ma in fondo anche “nobili” e illuminate. Ma a Giampaolo Pansa dobbiamo esser grati in modo particolare noi antifascisti democratici che, pur ammettendo che l’Italia e non solo il fascismo furono sconfitti quell’8 settembre in cui morì la Patria, hanno creduto e credono ancora nel valore etico, certo più politico che militare, della Resistenza e della Lotta di liberazione.

Ammettendo gli eccessi consumati dalla Resistenza, e purificandola dalle finalità e dalla liberazione della Patria con la sconfitta del nazifascismo e della edificazione della democrazia, nobilita e onora coloro che impugnarono le armi contro l’invasore germanico nelle tragiche e tristi giornate della “morte della Patria” e che “resistettero” nei campi di concentramento per i militari, nei lager per i politici, con le armi in mano nelle città, nelle campagne e su i monti: dai caduti di Cefalonia ai partigiani delle Langhe, dai partigiani della Osoppo ai marò, ai paracadutisti e ai fanti del Corpo Italiano di Liberazione, ai “gappisti” dei centri urbani, in prima linea quelli socialisti di Roma con Giuliano Vassalli ed altri, che ebbero la temerarietà e l’abilità di liberare Giuseppe Saragat e Sandro Pertini dalle mani dei fascisti e della Gestapo, dagli assassinati delle Fosse ardeatine per fatti loro non imputabili, a quelli di Marzabotto, ai torturati e uccisi di via Tasso, dimenticati perché non “omogenei” alla retorica della “Resistenza espropriata”.

Ed il libro di Giampaolo Pansa ha anche un altro valore, direi politico ed insieme etico-teorico; d’esser materiale storico di grande utilità per affrontare il non ancora risolto problema: “rivoluzione-riforme”, “violenza-democrazia”, “insurrezione-terrorismo-liberazione”. Un problema con grande lucidità e coraggio affrontato da giovani storici francesi che hanno scritto ultimamente appassionati libri in difesa del “giacobinismo” e del “Terrore”, pur essi legittimi perché necessari alla causa delle libertà e della democrazia e con una riabilitazione “anti-furetiana” del “Terrore” e della terribile giustizia, come condizione e premessa per l’avvento del “regno della libertà e della modernità” del diciannovesimo secolo. E’ risolto infatti il problema del “terrorismo” contro arabi e britannici delle forze ebree delle Irgun Zwei Leumi e della “Banda Stem”? E sarebbe potuto nascere di fatto lo Stato d’Israele senza il terrore ai britannici e agli arabi in Palestina?

E senza il crudele “terrorismo”, politicamente e in parte religiosamente ispirato, anche da parte di ragazzi e ragazze palestinesi, il problema dello Stato palestinese sarebbe ancora all’ordine del giorno non solo dei paesi d’Europa e d’America, ma degli stessi così detti paesi arabi moderati? E per riprendere il discorso iniziale, avrebbe potuto esserci una “Resistenza”, che indubbiamente ebbe il suo asse politico e militare portante nel Pci, senza la “strage di Porzus” e senza la prospettiva della eliminazione di cinquantamila preti, fascisti, antifascisti non comunisti, cento in più, cento in meno, non sembra contare, poi trucidati? E quanto accade in Iraq è “terrorismo” o “resistenza”? Non do risposte, pongo domande. E a farmi porre anzitutto a me stesso queste domande concorre certamente il libro di Giampaolo Pansa ed anche le dure critiche ad esso rivolte da Giorgio Bocca. Grazie, quindi a Giampaolo Pansa ed anche però a Giorgio Bocca!

12 marzo 2004

Giampaolo Pansa, "Il sangue dei vinti", Sperling & Kupfer, Milano, 2003, pp. 380 – euro 17,00


 

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