Caro Pansa, ti spiego io l’ira di Bocca
di Francesco Cossiga
da Ideazione, gennaio-febbraio 2004
E’ proprio vero che la storia vera, e cioè il racconto secondo verità e
quindi completo, non condizionato, suggestionato o peggio distorto e senza
censure, e non orientato da interessi attuali di parte che inducono alla
manipolazione dei fatti, aperti alla conoscenza e al giudizio del lettore,
magari anche esprimendo su di esso il proprio storicizzato giudizio,
puranco politico ed etico, può essere solo storia del passato e mai del
presente, e di cui a stento si può solo fare superficiale cronaca. Ne è la
dimostrazione il bel libro di Giampaolo Pansa “Il sangue dei vinti”, edito
da Sperling & Kupfer, nella collana di “Saggi” dedicati alla storia
contemporanea. Ho letto con sofferenza e sconcerto, ma non con
scandalizzata meraviglia, il racconto in questo libro ampiamente
documentato delle stragi e delle carneficine che, al di fuori di ogni
orizzonte di giustizia, anche “sommaria”, nei confronti di responsabili di
crimini, sono state compiute a Guerra di Liberazione finita e cioè dopo il
25 aprile 1945.
E ciò avvenne quindi dopo la sconfitta in Europa della Germania nazista e
l’annientamento in Italia della Rsi; dopo che le sconfitte forze armate
germaniche, comprese le SS, le Waffen SS anche non germaniche, i reparti
di Polizia e la Gestapo – in alcuni casi a bandiere spiegate e al suono
delle loro bande militari, e dopo aver assistito senza intervenire e senza
essere attaccati, allo scatenamento della guerra civile tra italiani delle
due parti e al loro reciproco massacro – iniziarono, non disturbati né
dagli Alleati né dai partigiani, lo sgombero del Nord-Italia, secondo gli
accordi tra il Comando Supremo Alleato del Mediterraneo e il Comando
Militare delle Forze germaniche in Italia stipulati in Svizzera tra Allen
Dulles, il rappresentante dell’Oss – il servizio informativo americano e
per le operazioni speciali, che ne aveva avuto delega e mandato dalle Tre
Potenze operanti nel teatro europeo – e il Waffen-SS Generale d’Armata
Karl Wolf Capo delle SS, delle Waffen SS, della Gestapo e delle altre
Forze di Polizia germaniche in Italia. E tutto ciò alle spalle del Governo
Regio italiano, del Cnlai e del Cvl da una parte e del governo e dei
Comandi della Rsi dall’altra, entrambi totalmente tenuti all’oscuro.
Ho letto con sofferenza queste pagine perché, essendo stato a quei tempi –
pur trovandomi in Sardegna e avendo solo diciassette anni – un fervente
antifascista e non essendo riuscito un gruppo di giovani amici, tra cui
Sergio Siglienti e Celestino Segni e io stesso, a trovare presso i Comandi
alleati in Sardegna alcun ascolto alle nostre richieste di essere
regolarmente arruolati nelle forze armate alleate o del Regno del Sud, per
combattere il “tedesco invasore”, sono stato quindi politicamente e
civilmente educato, anche successivamente, nel “mito” della Resistenza
quale guerra patriottica di liberazione. Anche per questo non posso che
contemplare con profondo dolore – anche per rispetto ai partigiani caduti
con le armi in pugno, ai militari delle Forze regolari di liberazione, ai
militari e civili vittime dei lager o della crudeltà germanica – i crimini
politici e comuni che furono commessi da non poche formazioni partigiane
comuniste dopo il 25 aprile 1945.
Certo, la lucida e drammatica distinzione tra “guerra patriottica”,
“guerra civile” e “guerra di classe” nella realtà e nella storia della
Resistenza italiana, operata da un sincero “convertito antifascista” e
animo certamente nobile e onesto quale è Norberto Bobbio, mi aveva già
allarmato, ma prima ancora avevo raccolto il racconto, quasi sussurrato,
di amici che avevano combattuto la guerra partigiana nel Nord. Alberto
Marcora ad esempio, che mi avevano rivelato come i partigiani “non
comunisti” si dovevano spesso... guardare le spalle, proprio mentre
combattevano contro i reparti militari nazi-fascisti. Ho letto con
sofferenza queste pagine, ma anche con profonda ammirazione: per il
coraggio dolorante con il quale un democratico, un antifascista, un
comunista degli anni giovanili, Giampaolo Pansa, le ha scritte, così come
aveva già scritto su gli stessi temi e con eguale sincerità e onestà, se
pur con una diversa “calligrafia letteraria”, il bel romanzo I figli
dell’aquila che narra la storia di un giovane che dopo l’8 settembre 1943
scelse con onestà in nome dell’ “amore” la Repubblica sociale italiana.
Comprendo così come egli debba aver sofferto, e forse soffra tuttora, per
le durissime parole e ingiusti giudizi, al limite ingiuriosi, espressi su
di lui con sincerità e onesta violenza, da un altro antifascista e
galantuomo quale è il grande giornalista e valoroso partigiano Giorgio
Bocca: “Un libro vergognoso”, ha infatti scritto quale lapidario commento
a Il sangue dei vinti, travolto dalla sua struggente passione
antifascista, ma anche dalla innata faziosità del post-azionista deluso, e
che a motivo della sua delusione cerca di eliminare comunque le cause di
essa. Ma perché questo duro contrasto tra due galantuomini, democratici e
antifascisti entrambi?
Giampaolo Pansa è non solo un uomo libero, ma anche un liberal
all’inglese, per il quale la “verità” conta per il “bene”, sia storico che
civile, più che l’“utile” politico qualunque. Giorgio Bocca è certamente
un uomo libero anch’egli, ma, vetero e post-azionista “rancoroso” quale è,
non certo “liberal”... e non è il solo esemplare. Ne abbiamo infatti di
più importanti perfino al vertice dello Stato. Peraltro, non dimentico il
profluvio di critiche e insulti che ricevetti quando, primo capo dello
Stato dell’Italia repubblicana “fondata sulla Resistenza”, mi recai in
dolorante pellegrinaggio riparatorio a onorare i “patrioti”, tra cui una
donna valorosa, dell’epica Brigata Partigiana Osoppo nel luogo ove, per
ordine del IX Corpus Jugoslavo, elementi di vertice di una brigata
comunista “garibaldina”, mi sembra la “Val Natisone”, dopo aver attratto
in una trappola a Malga Porzus i componenti dello stato maggiore della
“Osoppo” – poi tutti silenziosamente decorati al valor militare – ivi li
trucidò freddamente. Fui autorevolmente sconsigliato dal fargli rendere
gli onori militari (a proposito, perché Carlo Azeglio Ciampi non pone
riparo al mio errore? Perfino l’Unità e il freddo e razionale Luciano
Violante lo elogerebbero: ed è tutto dire!).
Per cinquant’anni quasi ci si vergognò non degli assassini dei partigiani
della “Osoppo” in parte rifugiatisi all’Est con l’aiuto del Pci e del
Guardasigilli dell’epoca (ne conobbi in Slovenia uno, peraltro affranto
dal rimorso), ma dei “martiri” trucidati, tra cui vi era anche il fratello
di Pier Paolo Pasolini, Guido – perfino ignorato nella biografia del
fratello sopravvissuto... – sui cui si arrivò anche a gettare l’infamante
dubbio di… tradimento e collaborazionismo con i germanici. Pur essendo,
quindi, pienamente solidale con Giampaolo Pansa (ma non vorrei con la mia
solidarietà comprometterlo ancora di più...), credo però di poter
comprendere, se pur con qualche difficoltà, anche la posizione di quel
“galantuomo”, anche se fazioso, nel senso trecentesco del termine (come lo
fu Dante insomma) che è Giorgio Bocca.
Di Giampaolo – che tante volte mi criticò aspramente come “politico” e
soprattutto come presidente della Repubblica – ricordo bene il coraggio
con cui, nella drammatica corrispondenza dai cancelli di Mirafiori, appena
il giorno dopo l’attentato a Carlo Casalegno (il 16 novembre del ’77) a
Torino, ebbe il coraggio di rivelare che aveva potuto dolorosamente
constatare come alla gran massa degli operai della Fiat, almeno a quelli
di Mirafiori, del sequestro del grande giornalista antifascista Carlo
Casalegno colpito dal “terrorismo rosso”, non importasse nulla, ed anzi
qualcuno avesse lanciato la parola d’ordine: “Dieci, cento, mille
Casalegno!”.
Ero allora ministro dell’Interno e la corrispondenza di Pansa non mi
piacque affatto: non dubitai certo che non corrispondesse al vero, ma alla
strategia politica di lotta contro il terrorismo, era a mio avviso più
“utile” il mito della classe operaia compatta contro il terrorismo, che
non la verità. E ricordo anche che alla vigilia delle elezioni del 1976 –
quelle del tanto da Aldo Moro temuto “sorpasso” della Dc da parte del Pci
– egli raccolse una bella ma sconvolgente intervista a Enrico Berlinguer,
nella quale il leader comunista, superando l’anti-atlantismo classico del
Pci (“servi degli americani!”), dichiarava che il comunismo italiano
accettava ormai pienamente il Patto atlantico e che anzi, sotto il suo
ombrello, sentiva più sicura la sua autonomia: erano iniziati i tempi
dell’eurocomunismo. Certo, la “vulgata” confidenziale fatta circolare tra
gli allibiti quadri medi del partito, fu (ma io non vi ho prestato mai
fede, conoscendo l’uomo!) che la sconvolgente dichiarazione fosse stata
addirittura autorizzata dal Pcus su richiesta di Berlinguer, al fine di
aiutare i “compagni italiani” nelle imminenti elezioni che sembravano
decisive per il futuro del Pci e dell’Italia.
Perché, dunque, comprendo l’“ira” di Giorgio Bocca? Perché essa è
l’espressione di una “cultura politica”, direi anche e perfino di un’etica
politica, nel senso macchiavellico e gramsciano del termine, che ha
egemonicamente plasmato quasi cinquant’anni di vita culturale, civile e
politica di gran parte della sinistra italiana e dei compagni-di-strada di
essa (Bobbio, Galante Garrone, Eugenio Scalfari e tanti altri) e
inconsapevolmente o meno ieri, ma anche oggi, di molti cosiddetti
“cattolici democratici” e che, unitamente all’ancora largamente imperante
lascito della “egemonia culturale” marxista e para marxista nelle
università e nell’editoria, ha segnato profondamente e tuttora segna lo
spirito del paese.
Basti pensare al valore “religioso” che un pur santo monaco, sacerdote di
Santa Romana Chiesa, ex-politico (mai iscritto peraltro al partito della
Dc, anche se stranamente nominato da Alcide De Gasperi… vice-segretario
politico di esso!, ma eletto nelle file della stessa), don Giuseppe
Dossetti, negli ultimi anni della sua vita, nel suo sogno quasi
neo-giobertiano di una unitaria riforma politico-ecclesiale insieme dello
Stato e della Chiesa, diede alla Resistenza e alla Costituzione, quasi
auspicando per il futuro un “quasi Concilio Nazionale-Assemblea
Costituente”. E lo permea tuttora, a sentire la “predicazione laica”,
“patriottarda” e “nazional-qualunquista” di quel “buon uomo”, ma peraltro
certamente gran galantuomo, che è Carlo Azeglio Ciampi.
Dopo che l’Italia (e smettiamola con la storiella dell’ “Italia che ha
vinto la guerra”!), aveva subito una vergognosissima sconfitta e, per
essere stata essa auspicata da moltissimi italiani (tra di esse le
famiglie antifasciste dell’epoca, compresa la mia), ma soprattutto per il
tradimento del monarca e dei suoi “generali”, aveva celebrato, per dirla
con Salvatore Satta, il de profundis della patria; dopo che
drammaticamente, proprio durante l’Assemblea Costituente, il paese ancora
una volta era stato spezzato in due, si dovette ricorrere per salvarne la
“pace interna”, al “mito” dell’unità dell’antifascismo nell’antifascismo e
nell’unità della e nella Resistenza (tutti rigorosamente scritti e anche
pronunziati in maiuscolo!) per edificare la Repubblica e su cui fondare ed
in forza del quale legittimare la Costituzione. E a ciò si dovette
ricorrere anche al fine di evitare di far precipitare il paese in una
guerra civile, dolorosa conseguenza della spaccatura dell’Europa e del
mondo, e che avrebbe visto certamente la vittoria militare e politica del
comunismo sovietizzante o – nel caso, anch’esso probabile di una sua
sconfitta in una insurrezione armata per intervento militare degli
anglo-franco-americani in nome dei “principi di Yalta” – avrebbe visto la
tragica affermazione di un “regime di colonnelli massoni” filo americani,
in entrambi i casi con la morte della appena rinata democrazia!
Per questo, appunto, lo ripeto, ci si inventò quale mito fondante della
Repubblica e della Costituzione il mito dell’ unità antifascista, in uno
con il mito della Resistenza unitaria e con il mito della Liberazione. I
“miti” contengono sempre certamente una parte di “verità” – ché altrimenti
sarebbero solo …favole o peggio menzogne – ma non sono la “verità”. E alla
fine, se dei miti si abusa o anche quando essi si consumano per il passare
del tempo o per l’emergere del reale, la “verità” si ribella! E così, ad
esempio, un modestissimo testo costituzionale, quale è la Costituzione del
1948 – su cui si abbatté giustamente il giudizio negativo e sarcastico di
Piero Calamandrei – una “costituzione” da Cnl, scopiazzata da qui e da lì
a metà tra il codice cattolico-sociale di Camaldoli di larga ispirazione
corporativistica e la formalmente bella Costituzione sovietica del 1936. E
così si arrivò ad inventarsi invece la formula: della “Repubblica fondata
sui lavoratori” proposta da Palmiro Togliatti, che avrebbe avuto un senso
grande se marxisticamente e illuministicamente intesa, la formula ridicola
della “Repubblica fondata sul lavoro” di dossettiana invenzione, che è
quasi roba da dopolavoro fascista! E così la Costituzione del 1948 è
diventato un “opus magnum”, e come tale viene celebrato, almeno prima e
dopo i pasti principali e tutti i giorni della settimana, dal nostro Capo
dello Stato. E invece tutti, ma proprio tutti, vogliono cambiarla.
Certo, questa Costituzione ha un grande merito: è il “Piccolo Trattato
della Yalta interna italiana” che ha contribuito a salvare il paese dalla
guerra civile, e che ha trovato giustamente nel primo e grande
“compromesso storico De Gasperi – Togliatti – Andreotti”, la sua più
autentica attuazione. Anche se il Pci – ricordo personalmente le accuse e
le perorazioni di Renzo Laconi, il grande comunista sardo che fu poi
chiamato a contestare e contrastare in Parlamento – considerò non solo
politicamente, ma anche istituzionalmente illegittime le deliberazioni
adottate dal Parlamento, senza il loro voto, ad esempio nel caso
dell’approvazione della così detta legge-truffa e dell’adesione
dell’Italia all’Alleanza Atlantica prima e poi alla Comunità europea:
illegittime ancorché approvate a maggioranza, perché non frutto di un
accordo preventivo con il Pci e senza il voto di esso. Perché era appunto
l’accordo ciellinistico, da Fronte popolare e soprattutto l’intesa Pci-Dc,
che costituiva per il Pci il fondamento e la causa legittimante della
Costituzione, ponendosi anche come legale regolare del suo funzionamento
legittimo e democratico.
E a voler fare il giurista, nel senso di una scienza giuridica positiva ma
anche illuminata dalla storia civile, culturale e politica, la tesi
interpretativa della Costituzione propria del Pci non è forse priva di
qualche solido fondamento. Certo, le rivoluzioni silenziose con cui, con
la sua non attuazione, di fatto la Dc di De Gasperi operò la riforma della
Costituzione ha oscurato questa forse più autentica interpretazione di
essa! I comunisti votarono la Costituzione perché ritennero che in essa,
in parte nei suoi princìpi fondamentali e in alcuni suoi meccanismi, si
potesse realizzare quel tipo di Costituzione emanata, anche se poi non
attuata, nelle democrazie orientali, che, soltanto in linea di principio
il pluralismo politico e sindacale realizzarono in regime però di
democrazia consociativa, guidata dall’egemonia dei partiti popolari e dal
prospettato sindacato unitario, in cui non il principio di maggioranza,
proprio dei regimi liberali costituiva la regola del deliberare
democratico, ma il principio della più ampia maggioranza delle parti
antifasciste che avevano combattuto insieme nella Resistenza e che insieme
avevano edificato la Costituzione. Questo spiega il perché movimenti,
almeno fino a ieri non ancora “antifascisti”, non fossero legittimati come
soggetti democratici della vita parlamentare e politica, benché i loro
rappresentanti fossero eletti, e numerosi, in Parlamento e negli altri
consessi elettivi di governo e di amministrazione degli enti locali con
suffragio democratico da centinaia di migliaia di cittadini.
Le origini del rifiuto del “principio maggioritario” sono lontane: nel
medioevo, nel primo governo elettivo che si conosca, quello dei grandi
ordini religiosi e soprattutto delle Abbazie benedettine, il principio
della maior spes fu temperato più da quello della maior et melior spes! E
non volgarmente “reazionaria”, ma sottilmente sostanzialista fu la lunga e
tenace avversione della dottrina politica cattolica e della Chiesa,
consacrata mirabilmente nel Sillabus del Beato Pio IX, alla democrazia
elettiva intesa come democrazia del numero. E la convinzione che alla
“legittima democraticità sostanziale” di una decisione non basti il voto
della maior pars, ma occorra quello della melior pars, è presente nella
richiesta, ancor oggi attuale, che le decisioni importanti vengono prese
“mediante accordi”, con il “concorso più vasto”: e non a caso questa
“dottrina” è coltivata da coloro le radici etiche e storiche delle cui
convinzioni democratiche affondano nell’humus del pensiero comunista o
“aristocratico-azionista” o cattolico-sociale. Ma questa Costituzione ha
ormai esaurito la sua funzione, tanto che la vediamo sostituita da
successive e ricorrenti “costituzioni di fatto”, secondo il capriccio di
partiti e capi dello Stato.
Certo, a Giorgio Bocca non manca il coraggio e l’intelligenza di far del
mito, una verità, e in verità mitica tradurre la falsità storica o almeno
la manipolazione di essa. Quel che manca però a Giorgio Bocca è il grande
respiro rivoluzionario che solo se comunista egli potrebbe avere! Esso gli
permetterebbe allora non solo di “giustificare”, anche se con insulti ed
invettive!, ma anzi di “glorificare” i “crimini” partigiani del dopo 25
aprile 1945. Egli si chiude in una timorosa negazione della realtà, che
ricorda il Pcus che per decenni negò, ma per fini tattici, la
responsabilità sovietica nell’eccidio di Katin, eccidio che invece per un
“comunista” ortodosso avrebbe dovuto esser giudicato, perché “doveva
essere giudicato”, e per molti fu, una misura prudente, utile e necessaria
per la edificazione del socialismo in Polonia, ponendo come presupposto di
essa l’eliminazione fisica, nelle persone dei 15 mila ufficiali polacchi
trucidati, di una buona parte della classe dirigente “borghese” e
anti-russa di quel paese, che sarebbe stato difficile assai “cooptare” in
una Polonia comunista, a differenza delle classi contadine e
piccolo-borghesi.
E forse un comunista ortodosso può giustamente chiedersi, con tragico
coraggio ma serena e oggettiva sincerità di marxista-leninista, se senza
le “stragi” ordinate da Lenin e da Stalin, senza l’annientamento dei
kulaki, senza i gulag, sarebbe stato possibile fare di una accozzaglia di
contadini analfabeti, di piccoli-borghesi corrotti, di operai ignoranti e
poltroni, dalle cento lingue e dai mille costumi, dalle decine di razze e
colori, un grande, unito e forte popolo e un grande, unito e forte paese:
il glorioso ed eroico popolo sovietico e la grande e potente Urss, sotto
la guida di un vittorioso partito, il Pcus. E non può anche non chiedersi
(ma a dire il vero questa domanda ha tante volte tormentato me stesso...)
se, senza il popolo sovietico, senza l’Urss, edificata anche grazie ai
“gulag”, e senza il Pcus, irrobustito dalle “purghe”, sarebbe stato mai
possibile battere la Germania e sradicare il nazismo, il “male assoluto”.
E perché Giorgio Bocca non ha almeno allora lo stesso “coraggio
intellettuale” e “politico” dei giovani delle Br (esemplarmente
“illuminato” dal bel e tragico film di Bellocchio sul rapimento Moro!), e
non afferma senza tremore che senza cinquantamila italiani eliminati non
si sarebbe forse potuto nel dopoguerra battere e sradicare il fascismo ed
edificare Repubblica e democrazia? Colpevoli o innocenti? E che domanda
sarebbe mai questa da morale borghese per giudicare dei fatti della
Storia? E’ la “terribilità” dei grandi movimenti che conta!
Quella terribilità che poi costituì la “divisa” delle Br, le quali,
coerentemente e per reagire all’insuccesso politico del massacro dei
cinquantamila, rivendicarono appunto a se stesse – se pur utopicamente, ma
non senza qualche valido titolo – la missione di realizzare o concorrere a
creare le condizioni per l’attuazione della “terza fase” della Resistenza,
la “guerra di classe”, per l’affermazione della dittatura comunista del
proletariato. La prima fase della Resistenza era la “guerra patriottica di
liberazione”; la seconda fase, conclusa parzialmente, era la “guerra
civile” contro il fascismo, ma non arrivò a sradicarlo totalmente e
risparmiò anzi il suo humus conservatore borghese. Certo, rinunziare alla
vita ordinaria, darsi alla pericolosa “clandestinità”, impugnare le armi,
uccidere persone anche se solo “politicamente” colpevoli, uomini miti come
Aldo Moro o Roberto Ruffilli, o essere uccisi come Margherita Cagol, è
certamente più duro che non pronunziare o scrivere articoli
“resistenziali”. E poi, essi non erano neanche pagati…
Penso dunque che dobbiamo essere grati a Giampaolo Pansa di questo libro
realistico, sereno, severo, coraggioso e vero. Esso ci aiuta a comprendere
l’origine ideologica, l’ “etica politica”, la forte ispirazione da
“Resistenza espropriata”, della sovversione di sinistra degli anni
Settanta-Ottanta, e soprattutto delle Brigate rosse. Ricordo quasi con
commozione il racconto fattomi del suo passaggio in clandestinità, da un
militante del Pci, poi arruolatosi nelle Br, che uscito io dal Quirinale,
visitai, ferito e ammalato in carcere, un vecchio partigiano comunista,
che aveva valorosamente combattuto nella guerra civile, nell’ambito della
“guerra patriottica”, con l’animo però volto con speranza alla “terza
fase” di essa: la “guerra di classe” per l’avvento del comunismo e
l’instaurazione della dittatura del proletariato, lo schieramento tra i
paesi del “socialismo reale”, guidato dal Pcus e dall’Urss contro
l’“imperialismo capitalista” dell’Occidente – quando egli gli comunicò la
sua decisione di darsi alla clandestinità e alla lotta armata, gli
consegnò un’arma da lui usata nella lotta partigiana, dicendogli:
“Riprendi ora tu, con questa, da comunista, la lotta da dove siamo stati
fermati!”. Parole tremendamente illuminanti ma in fondo anche “nobili” e
illuminate. Ma a Giampaolo Pansa dobbiamo esser grati in modo particolare
noi antifascisti democratici che, pur ammettendo che l’Italia e non solo
il fascismo furono sconfitti quell’8 settembre in cui morì la Patria,
hanno creduto e credono ancora nel valore etico, certo più politico che
militare, della Resistenza e della Lotta di liberazione.
Ammettendo gli eccessi consumati dalla Resistenza, e purificandola dalle
finalità e dalla liberazione della Patria con la sconfitta del
nazifascismo e della edificazione della democrazia, nobilita e onora
coloro che impugnarono le armi contro l’invasore germanico nelle tragiche
e tristi giornate della “morte della Patria” e che “resistettero” nei
campi di concentramento per i militari, nei lager per i politici, con le
armi in mano nelle città, nelle campagne e su i monti: dai caduti di
Cefalonia ai partigiani delle Langhe, dai partigiani della Osoppo ai marò,
ai paracadutisti e ai fanti del Corpo Italiano di Liberazione, ai
“gappisti” dei centri urbani, in prima linea quelli socialisti di Roma con
Giuliano Vassalli ed altri, che ebbero la temerarietà e l’abilità di
liberare Giuseppe Saragat e Sandro Pertini dalle mani dei fascisti e della
Gestapo, dagli assassinati delle Fosse ardeatine per fatti loro non
imputabili, a quelli di Marzabotto, ai torturati e uccisi di via Tasso,
dimenticati perché non “omogenei” alla retorica della “Resistenza
espropriata”.
Ed il libro di Giampaolo Pansa ha anche un altro valore, direi politico ed
insieme etico-teorico; d’esser materiale storico di grande utilità per
affrontare il non ancora risolto problema: “rivoluzione-riforme”,
“violenza-democrazia”, “insurrezione-terrorismo-liberazione”. Un problema
con grande lucidità e coraggio affrontato da giovani storici francesi che
hanno scritto ultimamente appassionati libri in difesa del “giacobinismo”
e del “Terrore”, pur essi legittimi perché necessari alla causa delle
libertà e della democrazia e con una riabilitazione “anti-furetiana” del
“Terrore” e della terribile giustizia, come condizione e premessa per
l’avvento del “regno della libertà e della modernità” del diciannovesimo
secolo. E’ risolto infatti il problema del “terrorismo” contro arabi e
britannici delle forze ebree delle Irgun Zwei Leumi e della “Banda Stem”?
E sarebbe potuto nascere di fatto lo Stato d’Israele senza il terrore ai
britannici e agli arabi in Palestina?
E senza il crudele “terrorismo”, politicamente e in parte religiosamente
ispirato, anche da parte di ragazzi e ragazze palestinesi, il problema
dello Stato palestinese sarebbe ancora all’ordine del giorno non solo dei
paesi d’Europa e d’America, ma degli stessi così detti paesi arabi
moderati? E per riprendere il discorso iniziale, avrebbe potuto esserci
una “Resistenza”, che indubbiamente ebbe il suo asse politico e militare
portante nel Pci, senza la “strage di Porzus” e senza la prospettiva della
eliminazione di cinquantamila preti, fascisti, antifascisti non comunisti,
cento in più, cento in meno, non sembra contare, poi trucidati? E quanto
accade in Iraq è “terrorismo” o “resistenza”? Non do risposte, pongo
domande. E a farmi porre anzitutto a me stesso queste domande concorre
certamente il libro di Giampaolo Pansa ed anche le dure critiche ad esso
rivolte da Giorgio Bocca. Grazie, quindi a Giampaolo Pansa ed anche però a
Giorgio Bocca!
12 marzo 2004
Giampaolo Pansa, "Il sangue dei vinti", Sperling & Kupfer, Milano, 2003,
pp. 380 – euro 17,00
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