Scarcerateli senza pietà
di Vittorio Mathieu
Le nuove università sono più dinamiche, e Milano Bicocca ha
invitato Davide Garland, star della sociologia Usa, a un convegno
su “Pena, controllo sociale e modernità”, in concomitanza con
l’uscita di un libro di Garland “La cultura del controllo” (il
Saggiatore 2004). Vedere la pena in funzione del controllo sociale
discende da un equivoco del Beccaria, che intitolò “Dei delitti e
delle pene” il suo celebre opuscolo, ma chiamò “pena” un mezzo per
difendere la società. In verità, per difenderci dai nemici, li
combattiamo, ma non li sottoponiamo a pene nel senso giuridico
della parola. Però nel corso di due secoli l’equivoco ha svuotato
il concetto di pena, e nella seconda metà del Novecento ha
indebolito anche la difesa della società. Ora è in corso una
reazione, che il Garland puntualmente registra, ma che rischia di
andare fuori bersaglio se non si chiariscono anzitutto i concetti.
Il Garland (che non è un filosofo o un teorico generale del
diritto) cita solo di sfuggita il Beccaria e non nomina neppure
Kant, che del dovere di infliggere pene “retributive” e afflittive
è il principale teorizzatore.
La sua scrupolosa attenzione si limita agli autori e alle società
di lingua inglese, eccettuato Foucault, che non ama ma non riesce
a confutare. Le sue previsioni sulla capacità delle società del
Tremila di riprendere il controllo sui trasgressori, dopo la
pedagogia lassista del secondo Novecento, sono perciò
pessimistiche nel loro fondo, anche se lasciano la porta aperta
alla speranza. Dove Garland vede giusto è nel parlare di
“sovranità”. Il potere di irrogare una pena inerisce al sovrano, e
il giudice la esercita in nome del sovrano anche quando, come oggi
in Italia, il sovrano è identificato con il popolo. Ora il sovrano
ha il diritto di esercitare il potere di punire in quanto ne ha il
dovere, e lo ha in quanto rappresentante addirittura di Dio sulla
terra. Questo sfondo teologico è ormai dimenticato, con la
sparizione del concetto di sovranità di diritto divino: di
conseguenza si cercano per la pena giustificazioni accessorie,
parlando in particolare di rieducazione morale.
Che la pena – che per i reati più gravi è sempre oggi, in pratica,
una pena detentiva – sia per quel fine del tutto controproducente
dovrebbe indurre a riflettere; ed è consolante che Milano Bicocca
cominci a farlo. Ma farlo oggi è molto difficile, date le
premesse. Occorrerebbe spiegare perché infliggere una pena
afflittiva per ristabilire la giustizia sia un dovere. Un
tentativo di spiegare “Perché punire” lo feci, senza alcuna
pretesa di originalità, negli anni ’70, in un libro oggi
introvabile, che suscitò tra l’altro le ire di un giurista
eminente come Marcello Gallo. Da vari indizi scopro che non è
passato inosservato del tutto, anche se l’editore del tempo mi
distolse dal dargli per titolo “Scarcerateli senza pietà”.
2 marzo 2004
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