Si fa presto a dire Patria
di Aldo G. Ricci
da Ideazione, gennaio-febbraio 2004

Le immagini del Vittoriano prima e della Basilica di San Paolo poi, insieme all’esposizione del Tricolore alle finestre, in occasione dei funerali dei caduti di Nassiriya, hanno indotto gran parte dei commentatori a proclamare il ritorno in grande stile di un sentire forte e radicato dell’appartenenza comune a un’unica Patria, insomma quasi una rinascita del patriottismo del buon tempo antico, come una volta veniva chiamato questo sentimento che è più facile provare che definire in termini razionali e oggettivi. A mente fredda, passata la commozione e la rabbia di quei giorni, possiamo affermare che sono interamente condivisibili quelle affermazioni formulate evidentemente sull’onda di una forte scossa emotiva? In parte risponderei di sì, ma solo in parte, perché è necessario fare una serie di precisazioni, che mi sembrano non secondarie, e che cambiano il quadro di riferimento, rendendolo più complesso di quanto possa essere racchiuso in una risposta tranchante.

Il problema della Patria è palesemente nell’aria dall’89, almeno da noi, quando cambiano i termini del mondo bipolare e ogni paese si guarda allo specchio interrogandosi, secondo le diverse peculiarità, sulla propria identità e sul proprio ruolo nel mondo sconosciuto che si sta preparando. Una domanda, naturalmente, che ha risposte più facili per quanti hanno alle spalle tradizioni e politiche consolidate; più difficili e tormentate in casi come il nostro, quando si comincia a dubitare della possibilità che la Patria sia morta con la disfatta del ’43 e poi con la guerra civile, senza riuscire a rinascere pienamente con la Resistenza, e poi con la Repubblica e la Costituzione. Una Patria che, secondo molti, non ha mai sanato interamente le ferite inferte dalla combinazione anomala di una doppia sconfitta e di una mezza vittoria, ma anche dalle appartenenze politiche contrapposte e spesso, tendenzialmente, inconciliabili, vivendo i lunghi anni tra la fine del conflitto e il disfacimento del mondo bipolare nella convinzione, e per molti nella speranza, di non dover essere più chiamata a scegliere, nei limiti in cui può esservi autonomia, chi e cosa essere sulla nuova scena mondiale.

In questo nuovo contesto, dove tutto è cambiato, dove l’Europa non riesce ad assumere quel ruolo di tutore capace di esonerarci da scelte e responsabilità alle quali non eravamo più abituati, fioriscono le riflessioni e i dibattiti sull’identità nazionale, sulla necessità di una riforma del sistema politico, sul nuovo bipolarismo, che ancora una volta stenta ad approdare a una legittimazione reciproca, secondo una tradizione di “divisività” della politica italiana, che risale addirittura alla nascita dello Stato unitario, e che è stata approfondita in una raccolta di saggi uscita proprio in questi giorni (“Due nazioni”, Il Mulino, a cura di Loreto Di Nucci ed Ernesto Galli della Loggia). Ma lo scenario mondiale non si è mosso verso quella “fine della Storia”, di cui alcuni hanno vagheggiato dopo l’89. A parte le tante guerre locali che non fanno audience, ci sono stati i Balcani prima e il Medio Oriente poi a ricordarci che l’epoca delle scelte non finisce mai. E se non fosse bastato è poi venuto l’11 settembre a imporci una nuova scala di priorità.

Da qui la necessità di scelte alle quali è stata chiamata anche l’Italia, ritrosa per storia e per indole a decidere su problemi di tale natura. Ma se le battaglie per le quote latte chiamano in causa soltanto il “patriottismo” degli allevatori, gli interventi militari sulla scena internazionale, prima in Kosovo, poi in Afghanistan, infine in Iraq appartengono invece a quella sfera delicatissima in cui un paese sceglie di esserci o di non esserci in base a una motivazione politica, e gli uomini impegnati a portare avanti quella scelta, destinata a pesare sul futuro dell’Italia e dell’intero mondo occidentale, e sulla quale la politica può e deve continuare a riflettere, sono il braccio armato chiamato a difendere quella scelta, sulla cui natura e sulle cui implicazioni non è questa, evidentemente, la sede per soffermarsi. E’ del tutto naturale quindi che la morte di alcuni di quegli uomini, come in ogni guerra, perché di guerra si tratta, rappresenti quanto di più tragico e simbolico insieme si possa immaginare per misurare il grado di patriottismo di un paese, anche se, come è stato osservato, non è sufficiente il lutto di un giorno per formulare una diagnosi precisa. Per giudizio unanime, quella prova è stata comunque superata con dignità e con fierezza, con l’eccezione di alcuni settori del tutto marginali. All’estero si è parlato di un’Italia in piedi nella battaglia internazionale per la difesa della democrazia.

I contrasti hanno taciuto per alcune ore, soverchiati dalle dichiarazioni di cordoglio. Anche la Chiesa ha fatto sentire forte e chiara la sua voce di sostegno alla lotta intrapresa, confermando, nei momenti cruciali ma non solo, il suo ruolo di supporto (talvolta addirittura sostitutivo) nella formazione di un’etica pubblica. Ma questa, ovviamente, è solo una faccia della medaglia. La “divisività” nazionale ha fatto subito la sua ricomparsa, trovando sempre vecchi e nuovi terreni da cui alimentarsi e sui quali crescere e prosperare. Accompagnata da un localismo esasperato e unanimistico, che è l’altra faccia della tendenza a dividersi. L’episodio di Scanzano, giusta o sbagliata che fosse la scelta del decreto modificato precipitosamente, con una regione compatta nel sostenere la propria estraneità al problema delle scorie (alla quale si accoderanno le altre regioni, con il risultato di farci dire dall’Europa dove mandarle, magari nel Terzo Mondo), è rivelatore della difficoltà di comporre interessi particolari e interessi generali, in una visione condivisa dell’interesse complessivo. Tutto questo può sembrare estraneo al problema da cui siamo partiti, ma, a ben vedere, non lo è affatto.

Se l’interesse particolare prevale su quello generale e soltanto il dolore comune (come la paura dei fratelli di pascoliana memoria) ci fa scoprire parte di un tutto, ma solo finché dura la notte, allora vuol dire che il problema Patria è ancora, almeno in parte, irrisolto. E’ irrisolto perché ne ritroviamo l’importanza proprio quando una tragedia collettiva ne evoca la presenza, per poi avvertirne il dissolversi e quindi l’assenza nel momento successivo, quando il trauma è assorbito e prevalgono contrasti e particolarismi. Contrasti e particolarismi che, si badi bene, appartengono alla fisiologia della vita associata, questo è evidente, ma che assumono nel nostro caso un di più di esasperazione, di “divisività”, in parte dovuto a comportamenti modellati ancora sul passato, che impedisce il salto verso un patriottismo quotidiano e positivo (e non solo occasionale e da trauma) di cui il nostro, come qualsiasi paese, ha un evidente bisogno. Si tratta di un bisogno forte, destinato a rafforzarsi con le difficoltà che si annunciano sulla scena europea in primo luogo (costituzione), ma anche internazionale: un bisogno a cui la politica dovrà, prima o poi, dare una risposta convincente.

13 febbraio 2004

 
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