“Un libro tra le pieghe della sconfitta”
intervista a Giovanni Sabbatucci di Pino
Bongiorno
Sul libro del diplomatico Maurizio Serra, “Dopo la caduta.
Episodi del Novecento” abbiamo rivolto alcune domande al
professor Giovanni Sabbatucci, ordinario di Storia contemporanea
all’Università La Sapienza di Roma.
Professor Sabbatucci, Serra nel suo ultimo
lavoro prende in esame alcune “esperienze” novecentesche
accomunate soltanto dall’epilogo fallimentare. Esse, si legge
nell’introduzione di Ludovico Incisa di Camerana, sarebbero
state, per quanto diverse, “quattro esperienze di modernità
mancata”. Che ne pensa? La convince questa tesi che tiene
insieme vicende altrimenti per nient’altro assimilabili?
Trovo la tesi convincente per quanto riguarda l’accostamento fra
Norimberga e Tokyo da un lato e la fine della Ddr dall’altro. Mi
sembra più forzata l’inclusione di Fiume: episodio che, pur
tenendo conto delle sue numerose implicazioni simboliche, resta
tutto sommato marginale nella storia dell’Europa del primo
dopoguerra e più ancora in una prospettiva di lungo periodo.
Credo inoltre che ci si debba guardare dall’abuso del termine
“modernità”, che è sicuramente una (anzi la) parola-chiave della
storia contemporanea, ma rischia proprio per questo di poter
essere usata per spiegare ogni cosa e il suo contrario.
A proposito del fallimento dell’impresa di
Fiume, Serra scrive che D’Annunzio non avrebbe capito che gli
accordi di Parigi segnavano “il passaggio sostanziale della
guida politica dalla vecchia alla nuova sponda dell’Atlantico” e
perciò si sarebbe lanciato in un tentativo inevitabilmente
destinato all’insuccesso. E’ d’accordo?
Sono d’accordo. Ma aggiungo di non aver mai considerato
l’impresa fiumana come una proposta dotata di una qualsivoglia
coerenza o plausibilità. Forse in questo giudizio influisce la
mia profonda antipatia nei confronti del D’Annunzio politico,
che considero il prototipo dell’intellettuale velleitario e
irresponsabile che si considera investito di una missione da
nessuno affidatagli. Nel confuso miscuglio di nostalgia e di
contestazione, di garibaldinismo fuori tempo e di
proto-terzomondismo che troviamo in quell’esperienza, si possono
individuare molti motivi ricorrenti del Novecento europeo: si
tratta però, a mio parere, dei peggiori.
Particolarmente interessante è anche
l’accostamento tra Hirohito e Vittorio Emanuele III che Serra
dipinge con tratti simili. Perché, allora, il loro destino è
stato così diverso?
Le analogie sono evidenti. E Serra le coglie con molta finezza.
C’è da chiedersi perché dei due uno si salvò e l’altro no.
Perché Mac Arthur arrivò a “rendere omaggio al protocollo
imperiale” mentre Vittorio Emanuele fu abbandonato al suo
destino, ovvero al voto popolare. Forse è una questione di
tempi: se la resa italiana fosse arrivata un anno più tardi e la
questione istituzionale fosse stata rinviata a dopo l’inizio
della guerra fredda, anche la monarchia italiana si sarebbe
salvata. Anche se questo fosse avvenuto, però, la sua funzione
sarebbe stata essenzialmente decorativa, come accadde del resto
in Giappone. Nel mondo a guida americana non c’era (giustamente)
più posto per figure di monarchi-governanti al di fuori delle
logiche partitiche e parlamentari.
Di notevole importanza anche le pagine
dedicate alla Germania dell’Est. Serra sottolinea a più riprese
la soggezione psicologica, il complesso d’inferiorità di Stalin,
e in precedenza dei Russi e degli zar, nei confronti della
Germania e giudica, soprattutto, la Rdt “la grande “mal aimée”
del mondo comunista. Invece della fanciulla dei suoi sogni, il
Cremlino era stato costretto ad impalmarne la sorella scialba e
bruttina, pur di continuare a far parte di una famiglia tanto
ambita”. Che pensa di questo sentimento di amore-odio, di
attrazione-repulsione, di fiducia-diffidenza nutrito dai russi
per i tedeschi?
E’ questo il saggio più ampio fra i quattro contenuti nel libro
e anche il più affascinante. E’ un abbozzo di quella storia
della Germania dell’Est che mi piacerebbe un giorno leggere. Il
sentimento di amore-odio della Russia nei confronti della
Germania (che da parte sua contraccambia con sincero disprezzo)
ha radici antiche, che risalgono almeno ai tempi di Marx, o di
Federico il Grande, o ancora più indietro. La storia della Rdt è
una ulteriore testimonianza della contraddittorietà di questo
rapporto: mentre la storiografia comunista – in questo d’accordo
con il filone radical-democratico anglosassone – afferma, e non
solo per giustificare le sue conquiste, la continuità fra
tradizione prussiana e Germania nazista (ricordo il titolo di un
libro dello storico sovietico Erusalimskji, "Da Bismarck a
Hitler"), il regime comunista tedesco, evidentemente con
l’appoggio dell’Urss, si sforza di creare una sorta di Prussia
in sedicesimo, di Prussia “buona”, riallacciandosi
all’esperienza di Weimar e della “Prussia rossa”, ma cercando
anche di recuperare fili di continuità con l’età imperiale. E’
un tentativo che oggi ci appare disperato (causa anche la
drastica mutilazione territoriale cui era stato sottoposto
proprio il nucleo storico della vecchia Prussia: quella però era
la Prussia cattiva, la Prussia degli Junker e dei cavalieri
teutonici…), ma che fu avallato da fior di intellettuali, non
escluso Thomas Mann. Anche questa è una storia tutta da
raccontare.
29 gennaio 2004
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