Spike Lee, perfetto a metà
di Domenico Naso
[14 mag 06]

Un film tecnicamente perfetto. Una recensione che inizia così non può che essere trionfale, direte voi. Ebbene, lo è solo per metà. Perché Inside Man, il nuovo film di Spike Lee, è effettivamente perfetto a metà.

E’ un capolavoro di tecnica cinematografica, ben girato, con un grande cast, con una colonna sonora splendida (l’orientaleggiante canzone Chayya Chayya è bellissima). Eppure, uscendo dalla sala, in bocca rimane un po’ di amaro. Forse semplicemente perché Spike Lee ci presenta una pellicola in cui il cattivone non è il rapinatore (un enigmatico e fascinoso Clive Owen), né la strana e potensissima “mediatrice” (una sensuale e stranamente femminile Jodie Foster), tantomeno il poliziotto afroamericano in odore di promozione (un ingrassato Denzel Washington). Il cattivo è lo sporco capitalista, il diavolo della finanza che ha fatto affari con i nazisti. Connubio esplosivo che “obbliga” lo spettatore a odiare fin dal primo momento il vecchio banchiere interpretato da Christopher Plummer.

La trama è presto riassunta: un commando di rapinatori fa irruzione in una banca del centro di Manhattan, tenendo in ostaggio 50 persone. Lo scopo sembra banale: svuotare il ricchissimo caveau. E invece no. C’è qualcos’altro che spinge Clive Owen e il suo gruppo di strani e aggressivi rapinatori. Una cassetta di sicurezza, infatti, nasconde da 60 anni diamanti di valore inestimabile appartenuti ad una famiglia di ebrei europei. Le pietre preziose erano state requisite dai nazisti e consegnate al presidente della Banca. Ma nella stessa cassetta c’è qualcosa che ha un valore simbolico ancora più importante: i documenti che provano la collaborazione tra il banchiere e il Terzo Reich. Inizia un tourbillon di trattative, mediazioni sottobanco, interventi politici e tensione, alternando ritmi lenti a momenti di grande velocità e azione. Per ovvi motivi non sveliamo il finale ma è opportuno riflettere sui significati simbolici della pellicola di Spike Lee.

Uno spettatore non accecato dal politically correct (in effetti la parola "nazisti" metterebbe i brividi a chiunque!) può salvarsi dalla deriva alla Robin Hood che fagocita il film? La risposta è convintamente affermativa, almeno per chi dal politically correct rifugge con decisione. Pur apprezzando il film tecnicamente, infatti, non si può fare a meno di notare come l’anticapitalismo del regista abbia inficiato una pellicola potenzialmente perfetta, un possibile capolavoro. E’ giusto far apparire romantico e buono un rapinatore che tiene in ostaggio 50 persone all’interno di una banca? E’ giusto far apparire furba e intrigante una donna senza scrupoli che fa affari con il nipote di Bin Laden? No, non lo è. O almeno non dovrebbe esserlo quando dall’altro lato ci viene presentato il Demonio capitalista, che deve le sue fortune al Terzo Reich.

L’utilizzo del jolly nazionalsocialista è una furbesca mossa per mettere lo spettatore con le spalle al muro. Nessuno può perdonare un collaborazionista, nessuno può cercare di comprendere le ragioni di un uomo senza scrupoli che ha fatto affari con i macellai di Hitler. Il trionfo del politically correct travestito da cattivo, dunque. Una trovata astuta solo all’apparenza ma che è facilmente smascherabile da un occhio non conformista.

14 mag 2006

 

 


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