La guerra degli endorsement
di Simone Incontro
[07 apr 06]
Se i tormentoni delle scorse settimane sono stati i sondaggi (e
relativi risultati), i faccia a faccia televisivi (e le loro
regole), ha suscitato un forte dibattito l’editoriale del
direttore del Corriere della Sera del 9 marzo, Paolo Mieli che
si schierava (“to endorse”, si direbbe nei paesi anglosassoni) a
favore del centro sinistra e di Romano Prodi. I giornali vicini
al centrodestra hanno aperto con titoli molto forti: “Il
Corriere di Prodi” (Il Tempo), “Il Corriere dell’Unione” (Il
Giorno), “Il Corriere della Sinistra” (Libero) ed hanno
attaccato l’alone d’indipendenza che circonda il giornale
milanese. Il Manifesto ha prodotto il titolo “Rosso di Sera”,
Biagi, intervistato da Repubblica, ha difeso Mieli ed ha parlato
del caso anomalo italiano ed ha trovato autorevole l’intervento
del direttore del “Corsera” e Ferruccio de Bortoli del Sole 24
Ore, ha definito il fondo del direttore di via Solferino
“chiaro, netto e coraggioso”.
L’editoriale di Mieli, come ricorda Il Riformista, è un evento
che ha ben pochi precedenti nella storia del quotidiano più
venduto in Italia, seppure bisogna ricordare che Sergio Romano
si era espresso, a poche ore dal voto in America nel 2004, a
favore di Kerry e, in occasione del referendum sulla
fecondazione assistita, il “Corsera” aveva invitato i propri
lettori ad andare a votare.
Ma cosa deve fare un giornale? Indicare apertamente la sua
preferenza o non dichiararla affatto? Qual è il confine tra
equidistanza e partigianeria? Il Professore di Storia e di
Comunicazione politica all’Università di Padova, Fabrizio
Tonello, autore de “La nuova macchina dell’informazione”
(Feltrinelli, 1999), scrive che il giornalismo d’informazione,
indipendente ma strettamente legato all’establishment, si è
costituito in America per riflettere “l’opposizione tra coloro
che fanno la politica in azioni, parole e pensieri, e coloro che
la subiscono, tra l’opinione agente e l’opinione agìta”. La
situazione d’Oltreoceano ci farà comprendere meglio queste
ultime riflessioni. Il professore Ferdinando Fasce, già docente
di Storia dell’America del Nord all’Università di Bologna, ora a
Genova ed autore de “La democrazia degli affari” (Carocci,
2000), intervistato per l’occasione, sostiene che alla fine
dell’Ottocento i due giornali moderni (il World di Joseph
Pulitzer di ed il Journal di Randolph Hearst) e lo stesso New
York Times, ufficialmente, non appoggiavano alcun partito, ma
poi, a partire dal XX secolo, la tradizione dei quotidiani
americani è stata quella di schierarsi, non in modo
pregiudiziale, a ridosso dalla data delle elezioni, attraverso
degli editoriali che prendono il nome di “endorsement”.
Si è arrivati, così, alle ultime votazioni del 2004 e la
maggioranza dei quotidiani, tra cui i più prestigiosi (New York
Times, Washington Post e Boston Globe), hanno apertamente
appoggiato lo sfidante del presidente Bush, John F. Kerry. Il
settimanale New Yorker, per la prima volta nella sua storia, si
è schierato per un candidato alla presidenza. Dalla parte di
Bush, invece, il Wall Street Journal, la gran parte dei giornali
locali, e, con grande sorpresa di molti osservatori
internazionali, il Chicago Tribune.
Dan Amundson, research director del Center for Media and Public
Affairs, un centro indipendente di Washington che studia i media
americani, in un’intervista telefonica, ha affermato che gli
endorsement dei giornali per i candidati alla presidenza o al
Senato americano non hanno un grande effetto, al contrario, le
dichiarazioni di voto delle testate locali per le elezioni alla
Camera o nei distretti, dove ci sono persone poco note al
pubblico, esercitano grande influenza sull’elettore indeciso.
Amundson sostiene che i repubblicani hanno lavorato a fondo per
trent’anni per accusare tutti i grandi media nazionali (compresi
i network televisivi) di essere liberal, di sinistra e, quindi,
per nulla indipendenti. Lo stratega di Bush, Karl Rove, mette
allo stesso livello della Pravda il New York Times ed il
presidente americano, intervistato nel libro “Strategery” di
Bill Sammon, parla di un lento e inesorabile declino dei media
tradizionali (mainstream media) e di una crescita di quelli
alternativi (alternative media) tra cui l’incremento
esponenziale di blog.
Sarà interessante notare, a bocce ferme, quali saranno stati gli
effetti dell’endorsement di Mieli, peraltro così anticipato nei
tempi rispetto alla consuetudine anglosassone. In Italia,
secondo gli ultimi studi, solo il 31 per cento usa regolarmente
internet, ma la scelta del Corriere aveva suscitato una protesta
tra i blog vicini al centrodestra piuttosto vivace. Certamente
l’esito del voto non sarà deciso né da Mieli né dai ragazzi in
pigiama italiani. ma potrebbe essere stata anche il primo round
di una sfida fra giornalismo tradizionale e blog destinata a
fare scintille nei prossimi anni.
07 apr 2006
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