L’Eroe cinese e il Bene supremo
di Salvatore Vescina
Con un incasso record nella prima settimana di proiezione “Hero”
ottiene un grande successo di pubblico negli Stati Uniti. Per
Quentin Tarantino siamo al cospetto di “un capolavoro assoluto”.
Il regista di Kill Bill è il grande sponsor di questa pellicola
girata ad Hong Kong nel 2001, distribuita insolitamente prima in
Dvd che nelle sale americane. Chi appartiene a una generazione
cresciuta a pane e Bruce Lee, B-movies di kung fu e cartoni
giapponesi, Marvel Comics e Matrix, non può non essere quasi
d’accordo con Tarantino. “Hero”, è un magistrale film di arti
marziali grazie a Jet Li – più volte campione nazionale cinese di
wu shu – alle spettacolari coreografie, agli scenari mozzafiato e
al sapiente impiego di effetti speciali che restano rigorosamente
al servizio del film (a differenza di quanto accade in molte
produzioni hollywoodiane). Ma a rendere Hero un’opera d’arte è
soprattutto lo stretto legame tra l’impianto narrativo e la
qualità pittorica delle immagini. Tutto il film, infatti, è
incentrato intorno al dialogo tra il protagonista - l’eroe senza
nome cui va il merito di aver eliminato i tre pericolosi assassini
che avevano attentato alla vita del monarca Ying Zheng - e
quest’ultimo. Il primo spiega come è riuscito a neutralizzare
ciascuno dei tre, il secondo confuta tale ricostruzione per
affermare la propria versione dei fatti. Ogni episodio ha un
colore prevalente (alla Kieslowski). Resta negli occhi,
sopratutto, quello dominato dal rosso.
Siamo nel terzo secolo avanti Cristo, sei regni si contendono la
supremazia, tra questi quello del Qin, governato da Ying Zheng un
tiranno sanguinario che ambisce a diventare (come poi avverrà)
imperatore della Cina. A ostacolare i suoi piani sono tre
assassini Sky (Yen), Broken Sword (Leung) e Flying Snow (Cheung)
che da soli fronteggiano l’esercito penetrando nel palazzo reale
per uccidere il despota. Questo tentativo fallisce sol perché,
inspiegabilmente, Spada Rotta desiste. Da quel momento nessuno
potrà più distare meno di 100 passi dal sovrano, eccetto colui che
avrà ucciso tutti e tre gli assassini. Questo privilegio è
riconosciuto a un guerriero senza nome che si scoprirà essere a
sua volta un attentatore. Quest’ultimo, come Spada Rotta prima di
lui, rinuncerà al proprio proposito quando comprenderà che Ying
Zheng è il solo a poter imporre la pace alla Cina, sicché le
atrocità e le sofferenze dispensate da costui non sono dettate da
sadismo e ambizione personale bensì funzionali al bene collettivo.
Il guerriero senza nome sarà, quindi, ben felice di farsi
trafiggere dagli arcieri reali, in ossequio all’ordine e alla
certezza del diritto. Tutto in coerenza con gli insegnamenti di un
filosofo occidentale, tal Niccolò Machiavelli, il cui Principe è
citato per estratti prima dei titoli di coda. C’è da chiedersi:
valgono ancora questi precetti? In Cina pare decisamente di sì,
oltre ad Hero lo affermano annualmente tutti i rapporti sui
diritti (?) umani e civili. Dalle nostre parti dopo Machiavelli
abbiamo avuto altri filosofi e sperimentato altre forme di
governo. Incluse dittature che ci hanno lasciato opere di grandi
artisti del cinema di propaganda. Primo tra tutti Eisenstein con
capolavori di genere come “Ivan il Terribile” (1945) e “Alexander
Nevsky” (1938), che celebrano lo Stalinismo con sceneggiature
convincenti, invenzioni impressioniste, fotografia prodigiosa,
simbolismo subliminale, personaggi archetipici e colonne sonore
che hanno fatto la storia della musica.
La morale però è sempre quella: il capo ha sempre ragione e le sue
azioni, anche se costano al popolo lacrime e sangue (il che è
ontologico), sono sempre orientate al bene supremo.
L’antigermanico Alexander Nevsky venne ritirato dalle sale dopo
brevissimo tempo perché intempestivo dopo il patto
Molotov-Ribbentrop. E a proposito di curiosità, forse non tutti
sanno che “Il trionfo della volontà” (documentario della
Riefenstahl sul VI congresso del partito nazista, 1934) venne
insignito della medaglia d’oro alla esposizione internazionale di
Parigi nel 1937. E allora, perché stupirci se il presidente della
giuria di Cannes, l’uomo che ha premiato l’antibushiano Fahrenheit
9/11, loda senza riserve l’apologia del regime cinese?
9 settembre 2004
salvatore.vescina@katamail.com
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