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              Una lunga 
              domenica pomeriggiodi Paola Liberace
 
 Finito Sanremo, ognuno si alza dalla propria poltrona come dopo 
              una partita dei Mondiali di calcio, e dice la propria sulla 
              formazione. Ha fallito, è riuscito, poteva essere peggio, era un 
              vero disastro; di fronte ai risultati positivi, si ribadiscono i 
              picchi negativi e viceversa, di fronte alle sconfitte dell’Auditel 
              si esaltano le percentuali appena confortanti dei giorni 
              successivi. Eppure, viene da chiedersi: ci saremmo forse accorti, 
              quest’anno, che c’era un Festival di Sanremo, se non ci fosse 
              stato quella singolare carovana di organizzatori, improvvisatori, 
              conduttori, direttori, veri e finti attori, in un susseguirsi di 
              annunci, smentite, querele, litigi, diffamazioni, esibizioni e 
              apparizioni? E’ vero, non si è trattato di un festival 
              convenzionale; per quanto suoni esagerata la definizione di 
              “innovazione”, utilizzata per difendere i discutibili risultati 
              d’ascolto, va riconosciuto il tentativo di cambiare in qualche 
              modo il linguaggio della manifestazione – nei costrittivi limiti 
              imposti da un lato dalle richieste esorbitanti, dall’altro dalla 
              defezione delle major.
 
 Tutto questo non basta ancora per spiegare come mai, per la prima 
              volta nei cinquant’anni televisivi della sua storia, Sanremo si 
              sia fatto sorpassare dalla concorrenza. Anzitutto, quest’anno 
              esisteva una concorrenza, che ha organizzato una 
              controprogrammazione mirata (senza arrivare a definirla 
              “aggressiva”) per giocare ad armi pari. E’ stata insomma rotta la 
              tregua che, in tutti gli anni passati, aveva suggerito alle 
              televisioni private di non tentare neppure di scalfire il 
              conclamato monopolio di ascolti del festival. Se invece quest’anno 
              è stata opposta un’alternativa, è stato anzitutto perché si è 
              ormai aperta la possibilità, anzi la necessità dell’alternativa 
              alla maratona sanremese. E che alternativa: nella manica delle 
              reti Mediaset era nascosto nientedimeno che l’asso del reality 
              show, anzi: del re dei reality, il “Grande Fratello”, condito da 
              escamotage corrideschi per farlo assomigliare ad una gara 
              dilettantistica, sospeso tra il comico e l’interessante. Non a 
              caso, nonostante nelle altre serate siano state sfoderate 
              trasmissioni come “Il meglio di Elisa di Rivombrosa”, e a dispetto 
              del basso profilo tenuto dalle altre reti Rai che hanno ceduto la 
              loro fetta di share all’ammiraglia, l’unica serata nella quale è 
              crollata la linea di difesa è stata proprio quella del Gf. Lo 
              spettacolo, verrebbe voglia di dire, non abita più qui: tra le 
              mura dei teatri, con le platee che applaudono e le scenografie 
              incorniciate da fiori. L’hanno capito gli autori del Festival, che 
              hanno tentato di risollevarne le sorti buttandola sulla parodia, e 
              puntando tutto su un altro formato recente, quello della domenica 
              pomeriggio di Rai Due, pur di salvare il salvabile. Non è stato un 
              trionfo, ma va già bene così: prendere atto che la musica è 
              cambiata è il primo passo per cambiare la musica, per non dare più 
              nulla per scontato. per smettere di pretendere da Sanremo ciò che 
              Sanremo non può più essere e, almeno da quest’anno, anche 
              ufficialmente non è più.
 
              
              10 marzo 2004
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