Romeo e Giulietta all'Opera di Roma
di Giuseppe Pennisi

Dopo lo sfarzoso, costoso e discusso “Marie Victoire” di Ottorino Respighi, la Fondazione Teatro dell’Opera di Roma ha importato dal Massimo di Catania un allestimento parsimonioso de “I Capuleti ed i Montecchi” di Vincenzo Bellini. Una scena unica per i sei quadri in due atti: un’immensa scalinata, pochi elementi aggiuntivi (il letto, il sepolcro), alcuni fondali. Le scene, i costumi e la regia essenziale di Roberto Laganà Manoli funzionano bene. Peccato che la parsimonia venisse estesa anche alle luci, come se l’intera vicenda fosse una partita in notturna tra le squadre delle due famiglie. “I Capuleti ed i Montecchi” sono una delle opere relativamente meno rappresentate del peraltro scarno catalogo belliniano, troncato – come è noto – dalla morte a solo 34 anni. Mentre sono in repertorio corrente a Zurigo, Londra e New York, hanno invece poca fortuna sulle scene italiane: le difficoltà vocali ed una drammaturgia che poco o nulla ha a che fare con l’immaginario popolare della tragedia shakespeariana. La tragedia, e specialmente una tragedia d’azione come “Romeo e Giulietta”, non si addice al bel canto poiché le convenzioni di questo stile fanno perno sulla melodia e sull’agilità per esaltare le atmosfere.

In “I Capuleti ed i Montecchi” gran parte dei “fatti” sono avvenuti prima che si alza il sipario; Romeo è già in esilio a Padova e rientra a Verona travestito da ambasciatore; all’amore tra i due rampolli di famiglie avverse ed a quello di Tebaldo per Giulietta sua promessa sposa, si aggiunge una dimensione ignota a Shakespeare ed a Bandello ma a cui Bellini rispecchia la propria autobiografia: la figura di Capellio come “padre padrone”. Il dramma diventa borghese, con velature tipiche del primo scorcio dell’Ottocento; la tragedia viene sublimata dall’intrecciarsi di due voci femminili (un mezzo ed un soprano – nell’impostazione originaria Bellini avrebbe voluto due soprani) contrappuntato da un tenore di coloratura (Tebaldo), un baritono di agilità (Lorenzo, medico non frate come in Shakespeare) ed un basso (il “padre padrone”). C’è, però, anche l’orchestra, il cui ruolo viene spesso sottovalutato nei lavori di Bellini precedenti il capolavoro estremo (“I Puritani di Scozia”).
Nello Santi ne svela i segreti sia nell’impetuosa sinfonia e nel flusso che si giustappone alla melodia vocale sia soprattutto negli assoli (formidabili quelli del clarinetto, del violoncello e del corno). Evidenzia un Berlini orchestratore di dimensioni rossiniane. Questo è senza dubbio uno dei punti di grande forza dell’esecuzione romana.

Il peso dello spettacolo grava soprattutto sulle spalle di chi dà corpo e voce ai due amanti. Romeo è una Sonia Ganassi in piena e grande maturità vocale; Giulietta un’Adriana Marfisi che le tiene testa nello svettare verso cime ardimentose (quelle della scrittura belliniana). Oscuro e dominatore “comme il faut” il Capellio di Franco de Grandis. Agile il Lorenzo di Frano Fufi. Tibaldo è un tenorino di grazia, più che di coloratura (Francesco Piccoli), e di volume contenuto a cui non giova certo l’ampia dimensione del Costanzi.

5 marzo 2004
 

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