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Dubbi legittimi sullo sciopero
di Tiziano Buzzacchera*
[06 ott 05]
Perdonate la nota personale: qualche giorno fa, navigando su
Internet, mi è capitato, dando velocemente uno sguardo alle
dichiarazioni piovute dopo lo sciopero dei metalmeccanici, di
imbattermi in queste parole: “A Torino la Fiom ha rotto l’unità”
(firmato, pure le virgolette, Antonino Regazzi, segretario
generale della Uilm). Bene: l’unità sindacale s’è rotta (solo a
Torino, pazienza). A noi, invece, hanno rotto qualcos’altro (si
può dire?). E’ cominciato l’autunno caldo. E quanto ci farebbe
piacere che facesse già freddo! La conflittualità (ma è persino
ovvio) non giova certo all’economia. Altra banalità: gli scioperi
sono tutto fuorché mirati esclusivamente a tutelare i “diritti dei
lavoratori”. E’ dubbio anche solo pensare che le tensioni fra
rappresentanze sindacali e mondo imprenditoriale possano frenare,
fare marcia indietro, arretrare di un passo. Lo sciopero, infatti,
è solo un tappeto disteso su un pavimento di sottintesi
ideologici. Il datore di lavoro sfrutta il lavoratore, non gli
garantisce i giusti diritti. Inoltre, è in una posizione di
vantaggio rispetto al prestatore d’opera. Da queste convinzioni
sboccia la teoria secondo la quale la sospensione delle
prestazioni di lavoro sarebbero un mezzo per riequilibrare le
disparità. Addirittura, la nostra Costituzione ha sdoganato la
prassi delle astensioni collettive come un “diritto”(art.40).
In realtà, gli ostacoli che presenta questa interpretazione,
indubbiamente generosa dal punto di vista giuridico, sono molti.
Non lo dico io: lo diceva un grande studioso liberale, Bruno
Leoni, secondo il quale “qualificare lo sciopero come un diritto
significa introdurre un concetto contraddittorio, una specie di
monstrum giuridico”. Esso, infatti, è un’astensione dal lavoro in
pendenza di contratto e, come tale, “dovrebbe essere, in base ai
principi generali dell’ordinamento giuridico, un illecito civile,
per l’inadempienza contrattuale in cui si concreta”. Optando per
questa soluzione, tuttavia, pur essendo eliminati gli intralci
formali, si complicano i problemi sostanziali. Infatti, essa
“comporta gravi difficoltà perché introduce nell’ordinamento una
contraddizione: mentre da un lato si consacra – nel nostro come
negli altri ordinamenti civili – il principio generale che nessuno
sia arbitro di liberarsi a piacimento degli obblighi
contrattualmente assunti verso terzi, nel particolare caso del
contratto di lavoro si rinuncia invece ad applicare tale
principio.”
Ora, ipotizziamo che il lavoratore possa liberamente astenersi dal
lavoro. Benissimo. Tuttavia l’azienda, a questo punto, dovrebbe
avere la possibilità di prendere misure adeguate, di instillare
qualche provvedimento. Se al datore di lavoro questo non è
concesso, allora la negoziazione non è più tale. E’ solo un
ricatto, puro e semplice. Un ricatto il cui peso il sindacato ha
fatto valere anche a livello politico, negli ultimi decenni,
confermando implacabilmente un’azzeccata e puntuale previsione
formulata dallo stesso Leoni: “se si ammette che il potere delle
organizzazioni dei prestatori d’opera sia legittimamente
esercitato anche quando tende, per mezzo dello sciopero, ad
influire sulla linea politica del governo, al di fuori del normale
meccanismo delle elezioni”, scriveva Leoni (nel 1953!), “allora
conviene accettare la sostituzione di quest’ultimo con un governo
estemporaneo e irresponsabile dei sindacati”. Chi negherebbe un
ruolo di crescente importanza, certo particolare ma ben presente e
rilevante, del sindacato nella vita politica?
Ma l’aspetto più disastroso della filosofia dello sciopero è la
demolizione dell’autonomia individuale. Le astensioni dal lavoro
trasformano in una guerra di trincea quello che sarebbe un normale
rapporto di scambio (una prestazione lavorativa in cambio di un
reddito). Il lavoro, infatti, non è un diritto dei lavoratori né
tanto meno un obbligo dell’imprenditore. E’ solo una relazione fra
persone e, come ogni rapporto, se io sono soddisfatto lo
prolungherò. In caso contrario, ci si lascia. Abbandoniamo la
teoria e torniamo allo sciopero dei giorni scorsi. Che è stato un
grande successo. Grande partecipazione politica. Adesioni alle
stelle. Eccetera. S’è detto tutto questo, e molto di più. Fermi un
attimo, però: per che cosa protestavano i sindacati? Recitava,
ammiccante, uno striscione: “Più salari, più diritti, più
occupazione”. Ma non è forse la tela sempre più opprimente di
diritti (privilegi, suona meglio), di restrizioni burocratiche sui
licenziamenti e di salari spinti artificialmente verso l’alto ad
aver costretto molte imprese a percorrere altri sentieri, ad
andarsene dal nostro paese, a “delocalizzare” (brutta parola)?
Hanno creato la malattia e, invece di curarla, pretendono di
estenderla. Complimenti: se non altro, riescono ancora a
strapparci un sorriso.
06 ottobre 2005
*
Tiziano Buzzacchera è il titolare del blog
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