Finanziaria/2. Ma si deve osare di più
di Gianfranco Genovesi
[23 nov 04]
Nella Legge Finanziaria 2005 converge, puntualmente come ogni
anno, l’insieme variopinto, complesso e disordinato delle
molteplici categorie che compongono la società italiana. Non per
niente è stata coniata l’espressione “assalto alla diligenza” per
sintetizzare le spinte contrapposte delle diverse forze economiche
e sociali alla ricerca di soddisfazione delle rispettive istanze.
I regolamenti parlamentari sempre più stringenti e il grande
lavoro preliminare delle commissioni delle due Camere, hanno
cercato di ridurre l’effetto caotico dell’approvazione o del
diniego di migliaia di emendamenti. Il problema è che la Legge
Finanziaria appare sempre meno utile per le esigenze dinamiche
dell’economia e del rispetto dei parametri imposti dall’Unione
Europea. La Finanziaria del 2005 è una manovra di contenimento.
Non ha il respiro della visione strategica di lungo periodo, in
presenza delle sfide della globalizzazione. L’obiettivo principale
è che il rapporto tra deficit e Pil non superi il 3% l’anno, come
promesso ai partner europei. Non volendo agire sui capitoli di
spesa più consistenti: sanità, scuola e pensioni, si è deciso di
dare una sforbiciata del 2% alla crescita delle spese correnti,
senza nessuna selezione delle stesse.
In pratica non si agisce più sulla stima del deficit tendenziale
dell’anno seguente, ma si prende a misura la spesa corrente
effettiva dell’anno in corso, che non può aumentare più del 2%. La
regola, se correttamente applicata su tutto il bilancio dello
Stato, permetterebbe nel 2008, a regime, risparmi per quasi 30
miliardi di euro. Noti istituti di ricerca, invece, sulla base di
accurate simulazioni, sono scettici sull’efficacia
dell’applicazione pratica di questo strumento e prevedono un
deficit tendenziale del 3,6%, accompagnato ad una crescita
asfittica dell’economia dell’1,7%. Il problema di fondo è che lo
Stato italiano intermedia oltre il 50% dell’intero Pil. Quindi,
l’effetto perverso della riduzione della spesa corrente è la
riduzione dei trasferimenti verso i fornitori della Pubblica
Amministrazione, deprimendo ancor di più il mercato. Anche il
tanto discusso taglio delle imposte è appena un’elemosina,
considerando le risorse disponibili. L’unica soluzione per dare
una scossa al sistema Italia è quello di affrontare il nodo delle
privatizzazioni. Solo attraverso una politica aggressiva di
dismissioni ed un deciso arretramento dello Stato dal ruolo di
imprenditore si potrà aprire una stagione di riforme per la
riduzione del carico fiscale e conseguente aumento delle risorse
monetarie a disposizione di famiglie ed imprese.
Questo si scontra con la cultura dominante nei movimenti politici
e in parte nella società, che vede la Pubblica Amministrazione al
centro dei processi di crescita e di rilancio dell’economia.
Niente di più sbagliato. La concorrenza ed il libero mercato
tendono a premiare l’innovazione, la creatività e la competitività
del sistema-paese, mentre uno Stato troppo presente deprime queste
forze e tende, per forza di cose, a replicare il modello
autoreferente di sopravvivenza dei privilegi di pochi e delle
nicchie protette dalla concorrenza. Non basta tagliare del 10% il
costo delle auto blu o invogliare i privati a gestire i beni
culturali dello Stato. E’ necessaria una vera rivoluzione
liberale, anche impopolare inizialmente, che dia un segno di
discontinuità rispetto al passato e rilanci l’ottimismo e la
voglia di intraprendere e di investire. Servono mercati finanziari
più moderni e più sicuri. In tal senso è davvero deprimente che
non si sia riusciti a far decollare la legge per la riforma del
risparmio, nonostante i drammi causati dai tracolli di Parmalat,
Cirio, Giacomelli, ecc. La sensazione è che si viva alla giornata
senza un disegno strategico lungimirante. Quante Leggi Finanziarie
basate sul concetto di “raschiare il fondo del barile” con inutili
diatribe e schermaglie su aspetti marginali e residuali ci
aspettano?
23 novembre 2004
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