Finanziaria/1. Una manovra strutturale
di Francesco Forte
da Ideazione, novembre-dicembre 2004
[23 nov 04]

La legge finanziaria per il 2005-2007 è una legge strutturale, che comporta una manovra triennale significativa nel medio e lungo termine. Ove si sia in grado di ripeterla, per un certo numero di anni, i nostri problemi di un’economia pubblica troppo grossa e di una fiscalità eccessiva che frena la crescita, sarebbero risolti. E lo Stato sociale rimarrebbe, ma sarebbe meno ingombrante e più amico dello sviluppo. Infatti, per le spese pubbliche comprimibili dello Stato, delle regioni e degli enti locali è stata adottata la regola che non possano crescere più del tasso di inflazione. Per le entrate tributarie si è cercato di adottare la regola per cui gli imponibili riguardanti redditi personali diversi da quelli di lavoro dipendente, che mirano al reddito medio, vanno aggiornati tenendo conto della dinamica di tale reddito medio, con uno scarto temporale rispetto ad essa, a favore del contribuente.

Con manovre di questa natura è possibile diminuire la percentuale del settore pubblico rispetto all’economia. E sarebbe stato meglio che questa metodologia fosse adottata sin dall’inizio della legislatura, per rendere possibile la riduzione dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e dell’Irap sulle imprese. Infatti, se nel complesso le entrate crescono come il Pil e le spese crescono solo con il tasso di inflazione, posto un tasso di crescita reale del Pil medio annuo del 2%, in un quinquennio si crea un cuneo del 10%, fra entrate e spese, che consente la riduzione del peso del governo sull’economia, dal 45 al 38%, azzerando il deficit pubblico. Si tratterebbe di una modifica strutturale di enorme portata. La pressione fiscale e contributiva passerebbe dal 43 al 36%: una rivoluzione copernicana. Il rapporto fra debito pubblico e Pil dal 106% potrebbe scendere al 90. Naturalmente non tutte le spese pubbliche possono essere mantenute a lungo costanti in termini reali. E non sempre il Pil può crescere del 2%. Ma applicando questa regola con una crescita della spesa in termini reali dell’1%, nell’ipotesi di crescita del Pil del 2% annuo, in un quinquennio, con deficit al 3%, la dimensione del governo scenderebbe al 40% e la pressione fiscale al 38: un livello, che può consentire un maggiore sviluppo economico, pur con uno Stato sociale considerevole.

La tesi che viene avanzata dalla sinistra, secondo cui applicando il parametro del 2% alle spese delle regioni e degli enti locali si lede la loro autonomia e si sacrificano servizi pubblici essenziali, non regge. Per quanto riguarda il primo argomento, esiste, dall’epoca dell’ingresso dell’Italia nell’unione monetaria europea, un patto di stabilità interno che impone alle regioni e agli enti locali vincoli di bilancio compatibili con gli impegni dell’Italia in Europa. Non si è mai sostenuto che essi ledessero la loro autonomia. Certo la ledevano, ma per adempiere a norme internazionali superiori a quelle del nostro ordinamento, che non ha più autonomia completa, in politica fiscale, dopo l’ingresso nell’euro. Ora i vincoli del patto di Amsterdam non possono riguardare solo il saldo, perché il risanamento finanziario a cui siamo impegnati è di carattere strutturale, quindi coinvolge le entrate e le spese che sono le determinanti strutturali del saldo. Quanto al secondo argomento, sono state stabilite deroghe al tetto del 2% in relazione a spese, come quelle sanitarie, che non possono rimanere costanti in termini reali se si vogliono prestare i servizi ritenuti essenziali. Ma i bilanci delle regioni e degli enti locali, che hanno registrato continui ampliamenti in questi anni, dispongono certamente di margini per garantire il tetto del 2%, senza venir meno ai servizi essenziali. Nel caso dello Stato vi può essere il rinvio di qualche opera faraonica ma, nel complesso, dato che per le grandi opere si fa largamente appello al cosiddetto project financing, ossia al finanziamento privato, non pare che ci debbano essere riduzioni del volume degli investimenti. Berlusconi vorrebbe portare al 2,5-8% la regola per le grandi opere. Ma ritengo che sia meglio salvaguardare la somma che servirebbe a questo scopo, per finanziare la riduzione delle imposte. Per le spese per l’assunzione di nuovo personale, il tetto del 2%, o quello maggiore stabilito in casi particolari, opererà un blocco automatico ai concorsi. La nuova regola, insomma, ha dei problemi iniziali di applicazione, in relazione a decisioni prese quando essa non c’era, ma una volta messa in atto, opera in misura strutturale, impedendo decisioni che la contraddicano.

L’importanza di questa impostazione sta nello spazio che crea per la riduzione delle imposte. La pressione delle imposte dirette italiane è eccessiva, con riguardo all’Ire (così si chiama, dopo la riforma Tremonti, la vecchia Irpef) e con riguardo all’Irap. Basti osservare che attualmente l’aliquota del 23% si applica solo sino al reddito di 15mila euro lordi annui. Per lo scaglione di reddito fra 15mila e 29mila si applica l’aliquota del 29%, per quello fra 29 e 32mila euro quella del 31%, per quella da 32mila euro sino a 70mila il 39%. Dai 70mila euro in su l’aliquota è il 45%. Tralasciando il tema dei redditi più alti, vi è una massa di cittadini che con redditi appena sopra i 15mila euro lordi paga il 29%. Le distorsioni che ciò crea, ad esempio con riguardo alla denuncia degli affitti degli immobili, e con riguardo agli incentivi retributivi, sono molto rilevanti. Il programma del governo prevedeva una riduzione di circa 2,5-3 punti della pressione fiscale, nel quinquennio, concentrati sull’Ire. Ma non erano ancora emersi i problemi di competitività nei riguardi dei paesi nuovi entranti nell’Ue e le difficoltà della nostra crescita economica, dovute al ristagno dell’economia tedesca.

Ne consegue la necessità di destinare alla riduzione dell’Irap una quota sostanziale di riduzioni fiscali. L’Irap rende un 3% del Pil. L’Ire, dopo le consistenti riduzioni apportate negli ultimi anni, rende un 10%. Per dimezzare l’Irap e ridurre dello 1,5% l’Ire (questo è il costo minimo della manovra per arrivare alle due aliquote del 23 e 33%, dopo avere effettuato la prima tranche con un costo dello 0,5 del Pil) occorrerebbe disporre di un 3% del Pil. Per il 2005 viene messo sul piatto lo 0,5 del Pil. Per l’anno successivo altrettanto. Il resto dopo le elezioni. Siamo in ritardo. Ma questa azione strutturale, a condizione che si tenga il timone sulla regola strutturale del tetto alla spesa, è ancora possibile. Non penso sia risolutiva per il rilancio della nostra economia e per l’emersione di una parte cospicua dell’economia sommersa, ma è certo indispensabile.

23 novembre 2004

 

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