L'armonia metalmeccanica, il Dpef e le riforme
di Giuseppe Pennisi
Circa cinque anni, in un saggio su Ideazione scritto a quattro
mani con Giuseppe De Filippi, si annunciava la fine di quella che
chiamavamo “la grande armonia metalmeccanica”, la lunga fase,
iniziata con gli “accordi interconfederali” degli Anni 70 e
esaltata nella “concertazione” e nei “patti sociali” del primo
scorcio degli Anni 90, in cui le principali scelte di politica
economica veniva fatte tramite intese tra grande industria e
grande sindacato; a Governo e Parlamento veniva poi dato il
compito di ratificarle.
Si respira aria di ritorno alla “grande armonia metalmeccanica” in
questo momento in cui, a ragione in parte della frammentazione
risultante dal sistema elettorale proporzionale, i due
schieramenti paiono fortemente indeboliti. Il neo Presidente della
Confindustria ha parlato di ritorno alla “concertazione” sin dal
suo discorso di insediamento a fine maggio; ha ripreso il tema
chiudendo il seminario del 21 giugno sulle previsioni economiche e
precisando, fortunatamente, che si dovrebbe trattare si un
“dialogo” rivolto non al passato (ad esempio, gli accordi del 1992
e del 1993) ma al futuro (al 2003).
Siamo alla vigilia della definizione del Documento di
programmazione economica e finanziaria (Dpef) per i prossimi
esercizi finanziari. In che modo la “grande armonia
metalmeccanica” (in una sua nuova veste e guisa) può contribuire a
risolvere i nodi del Paese. Quali che siano le scadenze formali
c’è un termine davvero perentorio: il 5 luglio, il giorno in cui i
Ministri economici e finanziari dei 12 Paesi dell’area dell’euro
si riunisce a Bruxelles per decidere se dare seguito o meno
all’indicazione della Commissione Europea di emettere nei
confronti dell’Italia un “allarme preventivo” in quanto
l’indebitamento netto della pubblica amministrazione starebbe per
superare il limite del 3% sancito nel “patto di crescita e di
stabilità” (il patto, per gli amici). Secondo le stime
dell’Esecutivo di Bruxelles, il rapporto deficit: pil dell’Italia
non resterà al 2,9% (come previsto dal Governo) ma arriverà al
3,2%. Sempre secondo stime che circolano a Bruxelles, terminati
gli effetti delle “una tantum”, il rapporto arriverebbe al 4%-4,5%
nel 2005 , ove non si intervenissimo energicamente subito. Dato il
forte peso del debito pubblico (circa il 106% del pil) non
possiamo chiedere ed ottenere una deroga, senza una modifica a
vasto raggio del “patto”. Le proposte sul tappeto vanno, comunque,
tutte nel senso di rendere più rigorosi i criteri per i Paesi con
i più alti stock di debito. Come delineare un documento che possa,
da un lato, rispettare le linee principali del programma di
governo e, dall’altro, mantenere il deficit nell’alveo del “patto”
e non avere, quindi, implicazioni negative sul rapporto tra stock
di debito e pil?
Non c’è altra strada che quella del contenimento della spesa
pubblica di parte corrente. Dato che già molta strada è stata
fatta per la razionalizzazione degli acquisti di beni e servizi da
parte della pubblica amministrazione, ciò vuole dire incidere
sulle spese per il personale e sui trasferimenti alle famiglie ed
alle imprese. Quali che siano le misure specifiche, si colpisce
proprio l’elettorato (il 45% del totale) che pur spostandosi da un
partito ad un altro ha riconfermato la propria fiducia alla Casa
delle Libertà.
Le revisioni delle aliquote tributarie potrebbero in parte
compensare queste ferite, ove riguardassero i ceti medio-bassi e
fossero accompagnate da misure a supporto delle famiglie. I loro
effetti sulla domanda potrebbero essere forti e portare a
recuperare gettito, ma ciò non si verificherebbe che dopo un paio
di anni. Mentre è il nodo è adesso: il 5 luglio 2004. Il “dialogo”
potrebbe essere, comunque, utile alla rimodulazione delle
aliquote.
Soprattutto, però, nell’esame da parte dei Ministri dell’area
dell’euro non contano solo gli aspetti strettamente contabili, ma
anche la qualità della strategia complessiva. La carta vincente
potrebbe essere un Dpef che dia la priorità alla riforme: oltre a
quella tributaria, a quelle in materia di tutela del risparmio e
della previdenza. Sono, infatti, le riforme a dare credibilità, e
robustezza, ai numeri.
L’esperienza, però, prova che la “grande armonia metalmeccanica”
non facilita necessariamente riforme di vasto respiro. Lo
documenta un saggio di Val Koromzay , direttore degli studi Paesi
del Segretariato dell’Ocse, pubblicato sull’”Oecd Observer” il 14
giugno, proprio il giorno dopo le elezioni europee in Italia. Il
saggio è molto ampio: dagli ostacoli al riassetto dei sistemi
previdenziali a quelli alle liberalizzazioni delle licenze (dei
negozi, dei taxi), dalle barriere alla revisione del fisco alle
politiche agricole. La conclusione è amara: le riforme scattano
principalmente di fronte a situazioni di crisi. Koromzay cita vari
esempi: dalle riforme in Scandinavia negli Anni 90 a quelle in
Nuova Zelanda, Olanda e Gran Bretagna negli Anni 80, a quelle più
recenti portate avanti nel Sol Levante. Ci sono tecniche per
realizzarle anche se non si è in situazione di crisi. La
“concertazione tripartita tra parti sociali e Governo” – afferma
Koromzay - non è necessariamente la strada da scegliere: gli
organismi tripartiti rischiano di diventare un “governo ombra”,
senza avere la base del suffragio elettorale.
25 giugno 2004
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