Il Mezzogiorno immobile
intervista a Massimo Lo Cicero di Angela Regina Punzi

Dal primo maggio dieci nuovi paesi entreranno nell'Unione Europea. Eppure il messaggio forte che parte da Melfi è che il Sud d'Italia non è un'area affidabile: meglio guardare ad Est. Il tentativo della Fiom di impedire la riapertura dello stabilimento Fiat è un segnale negativo a tutti gli imprenditori, soprattutto stranieri, interessati ad investimenti produttivi nel Mezzogiorno. Il professor Massimo Lo Cicero, docente di Economia all’università di Roma Tor Vergata, spiega perché dopo cinquant’anni di intervento straordinario il Sud ancora non risorge e come imparare dagli errori commessi in tutti questi anni.

Professore, il Mezzogiorno è riuscito ad uscire dall’empasse in cui ristagna ormai da tempo immemorabile?

I tempi sono maturi per fare una valutazione critica del passato e cercare di capire dagli errori che certamente quel passato. Uno dei metodi che si è cercato di sviluppare in questi anni per lo sviluppo del Sud è la cosiddetta programmazione negoziata, lanciata dall’attuale presidente della Repubblica Ciampi, allora ministro del Tesoro, nel 1998 a Catania nel famoso convegno “Cento idee per il Mezzogiorno”. Eravamo alla fine degli anni Novanta, siamo nel 2004, e il Mezzogiorno è rimasto uguale. La Svimez ha pubblicato di recente un volume di oltre 500 pagine, finanziato dalla regione Campania, in cui sono state riclassificate e ricalcolate le serie storiche del reddito dall’Ottanta ad oggi su base omogenea. Dallo studio emerge che quello che è successo in tutti questi anni è: niente. Certamente in questi anni molte energie sono state profuse e certamente c’è stata grande attivazione, disponibilità ed entusiamo degli enti locali. Ma se guardiamo ai fondamentali dell’economia nel Mezzogiorno continua ad esserci un terzo della popolazione, un quarto del prodotto interno lordo e la metà dei disoccupati italiani.

Che cos’è che non ha funzionato?

Tutto sommato forse la macchina che si è messa in moto avrebbe anche potuto funzionare. Ma se fosse stata pensata per lo sviluppo della Lombardia o del Piemonte. Le procedure della prgrammazione negoziata sono pensate per una società che è in grado di funzionare. Al contrario, il sottosviluppo ancora presente al Sud dipende dal fatto che la società non è abbastanza strutturata. E’ quindi necessario pensare delle procedure che integrino questa società con energie e risorse che siano in grado di renderla strutturata. Da uno studio della Banca d’Italia sul sistema industriale emerge che l’industria italiana, e in particolare quella meridionale, è troppo piccola ed è troppo lontana dalla politica della tecnologia. Oggi non c’è nessuno che non abbia almeno un computer e tre telefonini. L’Italia non produce né personal computer né telefoni portatili. Produciamo invece scarpe, abbigliamento e altro del settore che nel mondo non si vendono più. Non possiamo pensare che quasi 22milioni di meridionali possano vivere di beni culturali e di turismo.

Ma possibile che non sia proprio cambiato nulla?

Dagli annali della Svimez emerge che c’è un problema di fondo che nel corso del tempo non è stato rimosso. Se prendiamo come indicatore della crescita il reddito pro capite notiamo che questo non è variato di molto. Nel 2004, dopo otto anni di programmazione negoziata e cinquant’anni di intervento straordinario, il tasso di occupazione nel Mezzogiorno è di 10 punti percentuali inferiore a quello del Nord e il reddito per occupato è del 25% inferiore. Il Mezzogiorno produce mediamente meno e offre meno possibilità di impiego alla gente del Sud. La strada per lo sviluppo quindi è ancora tutta in salita. Ecco perché è necessario imparare dai nostri errori o saremo condannati in futuro a ritrovarci nello stesso posto in cui ci troviamo oggi.

Di quali errori parla?

Mi riferisco in particolare a cinque errori commessi in questi anni. Primo: troppa volatilità regolamentare. Nella programmazione negoziata sono stati emanati troppi decreti da parte di tutti: dei ministeri, delle regioni, dei comuni. Questo sicuramente non giova alla crescita. Secondo: dimensione troppo locale degli interventi. Troppo localismo non ripaga. E’ necessario guardare un po’ più in grande. Terzo: troppa presenza pubblica. I tavoli di concertazione sono affollati di assessori, consiglieri, sindacalisti. Ma dove sono gli impreditori? Lo sviluppo locale non si può fare solo con uomini della vita pubblica, ma anche con i privati.

Gli altri due quali sono?

Gli altri due sono elementi che secondo me sono stati assolutamente sottovalutati e sui quali è invece opportuno iniziare a ripensare. Il primo è la scomparsa del mercato dei capitali nel Mezzogiorno. Nell’ambiente meridionale non c’è più un sistema di intermediari finanziari capace di dialogare con lo sviluppo locale. Il sistema bancario italiano ha giustamente realizzato un grande progetto di concentrazione tanto che oggi oggi ci sono sì meno banche, ma sicuramente molto più forti che in passato. Eppure la prima banca italiana non entra nella lista dei primi 25 grandi gruppi bancari europei. Come fanno quindi le imprese meridionali, che sono troppo piccole, troppo specializzate in settori locali, troppo lontane dalla tecnologia, ad incontrarsi con i grandi gruppi bancari internazionali? E’ come se un pigmeo volesse parlare con un gigante.

Ne manca ancora uno…

L’altro elemento è il rischio allargamento. Nonostante questa riconciliazione abbia un enorme valore politico l’idea dell’Europa a 25 non ha solo vantaggi. Questo allargamento si compie infatti mentre l’Ue è in piena stagnazione, quando le economie industriali di Germania e Francia stentano a ripartire, senza che i 15 paesi originari abbiano la forza di reggere il Patto di Stabilità e con un cambio euro/dollaro che non avremmo mai immaginato potesse toccare queste quotazioni. Già oggi la Slovacchia è l’area dove puntano le industrie automobilistiche, già oggi le industrie tedesche si muovono verso la Polonia. Rischiamo di avere un’Europa che cresce al di là del muro di Berlino e ristagna da questa parte. Inoltre noi abbiamo sempre detto che il Mezzogiorno è la punta europea nel Mediterraneo. Ma oggi nel Mediterraneo c’è una guerra. Non so se le truppe torneranno a casa oppure continueranno a combattere, se i soldati saranno comandati da Bush o da Kofi Hannan, ma di certo questa guerra non finirà domani. Gli scambi si faranno ad Est, si faranno in Cina o in America, ma a Sud si rischiano le granate. Ci auguriamo tutti che questa guerra finisca il prima possibile, ma ancora per un bel po’ di tempo gli unici che potranno fare affari nel Mediterraneo saranno i mercanti d’armi.

30 aprile 2004

a.punzi@libero.it

 

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