Libera impresa in libero mercato
intervista a Luigi Zingales di
Cristiana Vivvenzio
da Ideazione, marzo-aprile 2004
Il piglio è pacato, sicuro, la parlata cadenzata, leggero accento
veneto. Luigi Zingales, considerato oggi uno dei maggiori
economisti del mondo, scuola Bocconi, è partito dall’Italia poco
più che ventenne, “quando – racconta lui – mi venne pagata una
borsa di studio per andare a perfezionarmi all’estero”. Oggi,
quarant’anni appena compiuti, vive a Chicago, insegna Finanza
all’Università eppure non ha smesso di guardare all’Italia con lo
sguardo indagatore dello scienziato e con la passione del
connazionale. “All’inizio della mia carriera, nessuno ha mai
pensato di pagarmi per ritornare, altrimenti chissà…”. Negli Stati
Uniti il suo libro è già uscito. Un volume scritto a quattro mani
con Rajan Raghuram – anche lui professore di materie finanziarie
alla Graduate School of Business dell’Università di Chicago – che
porta il titolo provocatorio: Salvare il capitalismo dai
capitalisti. In Italia uscirà ad aprile per Einaudi e certamente
non mancherà di fornire spunti di riflessione per interpretare
l’attuale situazione in cui versa il capitalismo italiano, ferito
ma non colpito a morte dai casi giudiziari.
Professor Zingales, la tesi centrale del
libro sostiene che “i veri nemici del capitalismo siano proprio i
capitalisti”: che cosa significa? Sembrerebbe quasi un ossimoro.
Nessuna contraddizione in termini. Un mercato veramente libero
crea competizione. La competizione mina il predominio delle
imprese esistenti, costringendole ogni giorno a riguadagnarsi la
propria posizione sul mercato. Nella misura in cui tali imprese
esercitano un’influenza politica tenderanno ad usare la loro
capacità di pressione per proteggere le proprie quote di mercato,
andando di fatto, quindi, contro il libero mercato. In questo
senso i nemici del mercato e della libera concorrenza sono i
capitalisti. Del resto, solo un mercato libero può creare le
condizioni ideali alla crescita economica, alla competizione, alla
concorrenza e all’innovazione.
Ma a vostro avviso è sempre vero che i
capitalisti danneggiano il capitalismo?
Assolutamente no. Questa tendenza è più forte quando la proprietà
è eccessivamente concentrata e quando le imprese sono meno
efficienti, sono meno in grado, cioè, di entrare in concorrenza e
in competizione tra loro. Uno degli obiettivi del libro che
abbiamo scritto Rijan Raghuram ed io è stato proprio quello di
cercare di individuare quali politiche favoriscono maggiormente la
coincidenza tra gli interessi dei capitalisti e quelli del
capitalismo. Non siamo degli utopisti, sappiamo perfettamente che
il denaro può avere una grossa influenza sulle scelte politiche.
Quindi, così almeno ci pare di poter affermare, l’unico modo per
garantire la sopravvivenza di lungo periodo del mercato è che gli
interessi del mercato stesso non confliggano troppo con gli
interessi del capitalista, o, meglio ancora, che gli interessi del
capitalista non entrino in conflitto con quelli del mercato.
Abbiamo diverse proposte che potrebbero fornire risposte positive
in questo senso.
Quali, per esempio?
Come prima soluzione sarebbe necessario aprire maggiormente le
frontiere al libero scambio di beni e capitali. Sotto la minaccia
della competizione internazionale le imprese vogliono una
infrastruttura efficiente, che permetta loro di competere ad armi
pari. Il libero scambio di beni e capitali è il meccanismo più
importante per promuovere mercati più efficienti e più
competitivi. In questo campo, il movimento antiglobalizzazione
sbaglia completamente. Piuttosto che renderci schiavi delle
multinazionali, la globalizzazione ci libera dalla schiavitù delle
élite locali. A questo si potrebbe aggiungere – ecco una seconda
ipotesi di intervento – una revisione del regime fiscale corrente,
che oggi, di fatto, sussidia le imprese inefficienti: che se non
producono profitti non pagano imposte. Vorremmo un’imposizione
basata un po’ più sulla ricchezza e un po’ meno sul reddito, per
penalizzare le imprese inefficienti. In terzo luogo, sosteniamo
una riforma del sistema del welfare volta a proteggere le persone
e non le imprese. Spesso i sussidi a produttori inefficienti sono
dissimulati dietro nobili cause. Quando la Fiat chiede aiuto allo
Stato, usa il potenziale danno inflitto ai lavoratori come scusa
per trasferire alla collettività le perdite causate dal suo
management inefficiente. Per permettere alle imprese di fallire
abbiamo bisogno di un sistema che protegga i lavoratori.
Altrimenti la resistenza politica alla “distruzione creatrice” del
mercato è troppo forte.
Caso Parmalat a parte, le piccole e medie
imprese italiane sono state considerate da larga parte degli
economisti un punto di forza dell’economia locale, e anche
nazionale, basterebbe pensare a tutto l’indotto industriale del
centro-nord-est...
Certamente lo sono state e lo sono tuttora. Le Pmi italiane
soddisfano contemporaneamente le due condizioni enunciate sopra:
competitività e diffusione del potere economico. E quindi, come
tali, rappresentano anche il nerbo della domanda a favore del
libero mercato in Italia.
Eppure mi sembra che proprio in questa
dimensione d’impresa si realizzi il più eclatante esempio di
identificazione del capitalista con il capitalismo…
La proprietà all’interno della piccola impresa è molto
concentrata. Questo non è un male. Quello che importa è che la
presenza di molte piccole imprese fa sì che il potere economico
sia più diffuso all’interno della società. Il grosso pericolo è
che la concentrazione del potere economico in poche mani renda il
potere politico asservito agli interessi di pochi capitalisti.
Laddove invece esiste una maggiore distribuzione del potere
economico c’è una maggiore domanda di mercato da parte delle
imprese. La storia, come sempre, insegna. Pensiamo al paese dove
per primi si sono affermati gli ideali di democrazia e libero
mercato: l’Inghilterra. Non è una coincidenza che questo sia anche
il primo paese in cui si è sviluppata una proprietà agricola
diffusa. Tra il Quattrocento e il Cinquecento la vendita delle
terre confiscate dai sovrani alla Nobiltà prima e alla Chiesa poi
creò una classe di piccoli imprenditori agricoli che fece da
contraltare al potere del sovrano, e della grossa nobiltà. Questa
base ha fatto sì che in Inghilterra si realizzasse a partire dal
Seicento uno sviluppo democratico oltre che economico. Questo
concetto secondo me vale tuttora. Il libero mercato promuove la
concorrenza e l’ingresso nella competizione di nuovi soggetti
economici, un concetto che va di pari passo a quello democratico.
Non esiste sistema economico più democratico del capitalismo, e
ogni sua distorsione presenta anche elementi di rischio.
Quanto vale tutto ciò per il caso italiano?
Mi viene da dire che vale soprattutto per l’Italia. Naturalmente
la proprietà più importante non è più quella della terra ma quella
delle imprese, tuttavia la distribuzione diffusa della proprietà
delle imprese ha un valore di per sé. L’Italia mostra ancora un
grandissimo livello di competitività. Anche se il capitalismo
italiano di oggi appare deficitario per almeno due aspetti.
Quali, professore?
Il primo è che in Italia manca la media impresa. E questo comporta
il rischio che la proprietà sia eccessivamente dispersa. Quando la
proprietà è troppo frammentata nessuno ha l’interesse di
mobilitarsi politicamente per domandare un maggiore rispetto dei
diritti di proprietà. E ciò indebolisce la domanda politica di
leggi che tutelino e disciplinino il mercato, leggi fondamentali
per lo sviluppo economico e politico del nostro paese. Quindi c’è
il rischio di essere troppo piccoli. Il secondo fattore che mi
sembra preoccupante è rappresentato dal fatto che se fino ad oggi
la piccola impresa italiana è stata estremamente abile ad
adattarsi ai vari mutamenti economici che sono intervenuti in
questi anni, oggi la sfida si è fatta maggiore, ed è rappresentata
da quell’outsourcing nei confronti della Cina di cui tanto si
parla. Quando l’outsourcing c’è stato con la Romania le nostre
piccole imprese erano in prima fila. La Romania è molto vicina
all’Italia sia geograficamente sia culturalmente. Anche al piccolo
imprenditore con una cultura media del Veneto era possibile un
contatto con quel paese. Creare quel contatto con la Cina richiede
un salto di qualità notevolissimo. Temo che i nostri imprenditori
facciano più fatica, per le differenze culturali, linguistiche,
per la minor comprensione dei modi di operare all’estero.
Professor Zingales, che tipo di limiti pone
la microdimensione dell’impresa nel rapporto tra sistema bancario
e sistema aziendale? E come incide questa particolarità nel
rapporto tra banche ed imprese in Europa e negli Stati Uniti,
anche considerando le sue recenti analisi sulla differenza tra
questi due sistemi bancari?
La piccola dimensione delle imprese italiane rende più difficile
il finanziamento sul mercato e più facile quello bancario,
soprattutto se le banche sono piccole. In Italia la piccola
impresa non può che finanziarsi attraverso l’istituto bancario,
poiché proprio la dimensione renderebbe proibitivo l’accesso ai
mercati. Infatti i mercati si basano sulle economie di scala.
Perciò il progressivo spostamento del sistema finanziario europeo
verso il mercato, che è di per sé un fatto positivo, può avere
conseguenze negative per la nostra piccola impresa. Un esempio
sono i nuovi accordi di Basilea sul capitale delle banche. Basilea
II – il nuovo accordo di regolamentazione del capitale bancario –
introduce sconti sul capitale minimo per quelle banche in grado di
quantificare meglio il rischio dei loro prestiti. Per quantificare
i rischi, però, le banche hanno bisogno di dati dalle imprese.
Ebbene, non sono così convinto che nella piccola dimensione
d’impresa sia disponibile tutta questa informazione. Parlo per
eccesso, ma addirittura potrebbe non esserci nemmeno bisogno di
un’informazione contabile completa. Talvolta tale informazione non
viene prodotta anche a causa di come è utilizzato il sistema
fiscale. Anzi, le piccole imprese italiane oggi hanno un incentivo
maggiore ad avere contabilità in nero, che non può essere girata a
terzi né – figuriamoci – essere inserita nei sistemi di data-base
delle banche. Ciò rende molto difficile per il sistema bancario
del nostro paese possedere questi dati e quindi risulta molto
difficile ridurre il costo del credito al sistema delle imprese.
Tutto ciò avrà un impatto negli anni a venire. Alcune imprese si
sposteranno, miglioreranno il proprio grado di trasparenza ma ce
ne saranno altre che troveranno o il costo del credito più elevato
o addirittura l’impossibilità di accedervi.
Pregi e difetti del capitalismo
all’italiana. A suo avviso il capitalismo che si è imposto negli
anni del miracolo economico e nella successiva stagflazione nel
nostro paese – come commistione di assistenzialismo pubblico e
impresa privata – può o deve essere parzialmente salvato?
No. La commistione tra potere politico e potere economico in
Italia è sempre stata molto dannosa. Pensiamo alle imprese
pubbliche. Nell’immediato dopoguerra sono state gestite dai
politici nell’interesse dei privati. Mediobanca (inizialmente
controllata a stragrande maggioranza dallo Stato) usava i soldi
dello Stato per proteggere gli interessi dei capitani di industria
nazionali. Poi, verso la fine della Prima Repubblica, l’impresa
pubblica è stata gestita dai politici nell’interesse dei partiti.
Mai nell’interesse dei cittadini. L’assistenzialismo ha quindi
permesso al capitalismo italiano di socializzare le perdite,
privatizzando i profitti. Detto questo, ammiro chi è riuscito a
farsi da sé in Italia perché tutto il sistema è fatto contro
l’iniziativa privata. Chi riesce fa tre o quattro volte la fatica
che si fa negli Stati Uniti, anche solo per la difficoltà di
essere in regola. Se si tenta di essere in regola con tutto si
impazzisce. Le quantità di regole sono talmente elevate che è
impossibile rispettarle tutte.
A suo avviso da che cosa dipende?
Certamente è dovuto al modo in cui nel passato si è cercato di
risolvere alcuni problemi evidenti del capitalismo. Di fronte alle
ingiustizie e alle iniquità prodotte dalla versione degenerata del
sistema capitalistico che conosciamo in Italia, la risposta tipica
della sinistra è stata di imbrigliare il mercato e di limitare la
concorrenza. Molti capitalisti hanno approfittato di questa
regolamentazione, usandola a proprio vantaggio. Questo ha finito
per favorire la grande impresa. Pensiamo, ad esempio, alla cassa
integrazione guadagni: è stato un provvedimento indecente perché
invece di creare un sussidio di disoccupazione per tutti ha dato
la possibilità alle grandi imprese di “parcheggiare” la manodopera
eccedente a costo zero per loro. Da un lato, la grande impresa ha
usato l’assistenzialismo a suo vantaggio, dall’altro la piccola
impresa è spesso sopravvissuta in violazione di molte norme. Chi
ne ha fatto le spese sono state le medie imprese e la
competitività del mercato nel suo complesso.
La politica può tornare indietro, sciogliere
alcuni lacci stretti del passato?
L’Italia ha sperimentato una formula di capitalismo distorto. Nel
nostro paese non esiste una cultura “liberale” della competizione.
In Italia la competizione è vista come un fatto negativo, poiché
non esisteva o, laddove esisteva, era più per frodare la legge che
per tutelare l’interesse del consumatore, come avviene nella
maggior parte dei paesi più progrediti. Prima ancora di una
riforma legislativa è necessario un cambiamento di mentalità. Nel
1922 Brandeis, un grande riformista americano, scriveva “non
riponete troppa fiducia nelle leggi. Le istituzioni atte a porre
un rimedio tendono a cadere sotto il controllo del nemico e a
trasformarsi in strumenti di oppressione”. La sua lezione vale
anche oggi. Per questo la mia è innanzitutto una battaglia
culturale: prima bisogna cambiare la mentalità della gente, questa
poi esprimerà una nuova domanda a livello politico. Purtroppo
l’Italia è il paese in cui si è verificato il caso politicamente
più eclatante in cui la destra è stata influenzata dall’interesse
di un capitalista e la sinistra deve ancora staccarsi dalle idee
socialiste del passato. In Italia a sostenere la competizione e il
libero mercato ci sono pochissime persone, si contano sulle dita
di una mano. Non ci sono veramente gruppi politici di pressione…
Certo, non si intravedono molte speranze…
Può essere una visione pessimistica nel breve periodo. Ma credo
fortemente nella capacità di convincere le persone. Cambiare la
mentalità richiede molto tempo, ma sono convinto che le idee
migliori alla fine prevalgono. In questo sono un vero ottimista.
Come?
Non sono un leader politico, quello che cerco di fare è produrre
idee e stimolare dibattiti. Ciò che è più fattibile in questo
momento è far capire alla gente – e questa è la mia battaglia –
che cosa è veramente il mercato e che il mercato non è qualcosa
che favorisce i ricchi. Il sistema di libero mercato, quando messo
nelle condizioni di funzionare correttamente, è il miglior
meccanismo per ridurre la povertà, promuovere la crescita
economica, ed offrire a tutti le stesse opportunità. La stragrande
maggioranza degli economisti è convinta di questo. La sfida è
farlo capire alla gente comune, in particolar modo in Italia. Ma
se lo si riesce a far capire le cose possono davvero cambiare.
L’importante è cominciare a sollevare il problema, creare
dibattiti intorno ad esso, mobilitare l’opinione pubblica
attraverso i giornali, le riviste, i convegni, le attività delle
Fondazioni.
Tornando ancora una volta al libro, voi
proponete una sorta di “terza via”: una sintesi tra sistema
keynesiano e neo-liberismo, sostenendo che: “un mercato veramente
libero occupa quella delicata zona tra assenza di regole e
presenza di norme soffocanti” e che “è proprio perché questo
terreno è così limitato che il capitalismo nella sua forma
migliore è instabile e degenera facilmente in un sistema dominato
dai grandi operatori di mercato”. Ma allora come si può allargare
lo spazio di operatività del libero mercato? Che differenze ci
sono tra la “terza via” da lei proposta e il “capitalismo
popolare” della rivoluzione thatcheriana? E soprattutto, quali
misure, secondo lei, dovrebbe adottare il governo italiano oggi?
Tradizionalmente la terza via è stata sempre un compromesso tra un
sistema di mercato e un sistema socialista, dove lo Stato
interviene massicciamente nell’economia. In questa accezione la
nostra non è assolutamente una terza via. Noi critichiamo il
“capitalismo reale” per essere troppo poco competitivo. Abbiamo
una fiducia assoluta nelle capacità del mercato, ci consideriamo
in un certo senso ancora più estremisti dei tradizionali
sostenitori del capitalismo, ci opponiamo a qualsiasi tentativo
governativo di tenere in piedi aziende in fallimento con sussidi,
dazi o misure protezionistiche… Se invece consideriamo
l’alternativa tra il laissez-fair di chi pensa che ogni intervento
dello Stato sia negativo e chi, al contrario, predica un continuo
interventismo legislativo perché non si fida del mercato, allora
sì che ci sentiamo di rappresentare una terza via. Una via che
riconosce la fragilità politica del mercato, ma che riconosce
anche la necessità di regole per rendere il mercato più
competitivo. Il nostro ideale, infatti, non è la legge della
giungla, ma quello che gli inglesi chiamano un level playing field
(letteralmente “un campo di gioco eguale”). E non è un caso che
questo termine non abbia un esatta traduzione in italiano.
Torniamo all’Italia di oggi. Professore, a suo avviso il caso
Parmalat deve essere ricondotto esclusivamente ad una dimensione
nazionale o si è trattato di un affair globale? Sicuramente quanto
è successo con la Parmalat di Calisto Tanzi ha una dimensione
globale. Non solo perché prima di esso abbiamo assistito a
situazioni analoghe con Enron, WorldCom, Tyco, Healtshouth, Ahold,
eccetera. Ma perché le istituzioni americane sono pesantemente
coinvolte nel caso Parmalat. Americane erano molte delle banche
che prestavano a Parmalat, americane le banche d’affari che
vendettero le sue obbligazioni, consociate a ditte americane le
società di revisione che dovevano verificare i conti Parmalat, e
americana una delle autorità che doveva controllarla.
Che cosa materialmente si potrebbe fare per
limitare i danni e le conseguenze di un caso come Parmalat?
Sono sospettoso di fronte a proposte di nuove autorità e maggiore
regolamentazione. Per evitare le frodi societarie basterebbe
spezzare il muro di omertà che si crea all’interno delle imprese.
Tutte le frodi hanno richiesto la collaborazione (o almeno il
silenzio) di molti dipendenti. Non tutti questi dipendenti
beneficiavano dalle frodi, né tutti erano disonesti. Perché non
hanno parlato? Perché chi fa la “soffiata” non ha nulla da
guadagnare e molto da perdere. A rivelare una frode ci si guadagna
solo l’odio dei colleghi e ci si rovina la carriera: chi vuole
assumere un dipendente che ha fatto la “spia” in un’altra azienda?
In realtà tutto il mondo della finanza si basa sulla fiducia, e
quindi è facile che ne abusino coloro che, o perché in situazioni
di estrema difficoltà o per totale mancanza di scrupoli, sono
disposti a tutto, anche a falsificare, ingannare mentire. Per
cambiare questa situazione, ho avanzato una proposta semplicissima
che è quella di stabilire per legge un compenso per chi aiuta a
mettere in luce una frode, uno scandalo economico, rivelando
informazioni cruciali per lo svolgimento delle indagini
giudiziarie. Un premio per colui che in Italia si chiamerebbe, con
una espressione un po’ bruttina, “denunciante civico”. Pensate
forse che la truffa Parmalat sarebbe continuata per quindici anni
se ci fosse stato un premio del 10 per cento del valore della
truffa a chi dava notizie sufficienti ad individuarla? Ma sono
convinto che in Italia provvedimenti di questo tipo non verranno
mai accettati. La mentalità italiana è ancora lontana.
30 marzo 2004 |