Un deficit di competitività
di Massimo Lo Cicero
da Ideazione, marzo-aprile 2004

La percezione di un progressivo declino della struttura industriale italiana si è diffusa negli ultimi anni anche in ragione di una marcata tendenza declinante del ciclo congiunturale. La difficoltà accusata dall’economia nazionale nel fronteggiare questa congiuntura negativa è stata, in altre parole, imputata ad un processo di indebolimento – dal carattere, insieme, carsico e strutturale – che avrebbe agito anche quando, negli anni Novanta, le condizioni di contesto erano meno ostili. Un recente volume di Luciano Gallino, un saggio presentato da Pierluigi Ciocca ad una riunione della Società italiana degli economisti e l’ultimo rapporto di Mediobanca sui dati cumulativi di bilancio delle principali società italiane confermano come questa percezione sia diffusa e forniscono molti elementi oggettivi che generano interrogativi stimolanti sia sui sintomi alla base di questa diagnosi che sulle possibili terapie che dovrebbero discendere dalla sua condivisione. Il giudizio di Ciocca è molto netto sia in ordine agli atteggiamenti imprenditoriali che all’evidenza macroeconomica. Scrive il vicedirettore generale della banca centrale che “superata la recessione del 1992-93 la quota dei profitti sul reddito nazionale, il saggio del profitto sul capitale investito, il rendimento degli attivi d’impresa sono tendenzialmente aumentati. Si sono situati su valori in media superiori a quelli degli anni precedenti la recessione. Correlativamente la condizione finanziaria delle imprese è migliorata sia nel grado d’indebitamento sia nel costo del servizio del debito. Queste tendenze sono più marcate nel settore terziario (70 per cento circa dell’economia italiana). Le variazioni nel tasso di imprenditorialità dei produttori non sono misurabili. Ma hanno prevalso la prudenza, il consolidamento delle posizioni, atteggiamenti più da ordinaria amministrazione che non d’attacco”.
Questo comportamento, che sembra tradire una sorta di deficit di fiducia nei confronti del futuro, da parte dei gruppi dirigenti dell’economia nazionale, si affianca a fenomeni oggettivi rilevanti e, probabilmente, concorre anche nel determinare l’esistenza di quei medesimi fenomeni.

Sia sul fronte della domanda effettiva che su quello delle condizioni in cui si realizza l’offerta aggregata nel sistema. In termini di produttività e di capacità di competere, infatti, “nella contabilità ex post relativa all’ultimo decennio il rallentamento nel prodotto (Pil) pro capite – rispetto al decennio precedente – è scaturito dallo scemare sia dell’applicazione di lavoro sia della dinamica della sua produttività. Il rallentamento nella produttività del lavoro – che sembra situata su alti livelli – è scaturito dalla minor crescita della produttività totale dei fattori (indebolita nel progresso tecnico non incorporato e nella organizzazione aziendale) più che da quella della intensità di capitale. Sono tutte conferme, queste, di una economia strutturalmente meno capace di impiegare bene il lavoro, innovare, applicare il progresso tecnico, competere. Il dato più preoccupante è la flessione – fino ai valori negativi nella sfavorevole congiuntura degli ultimi anni – subita dalla dinamica della produttività del lavoro e della produttività totale. Quest’ultima ha visto ridursi il ritmo di incremento nella più gran parte dei settori” prosegue Ciocca.

Per chiudere la descrizione delle conseguenze economiche di quegli atteggiamenti anche sull’altra lama delle forbici dell’economia. “Dal lato della domanda aggregata il rallentamento è concentrato nel minor contributo dei consumi, privati e pubblici, con le esportazioni nette incapaci di compensare recando un sufficiente apporto positivo. Fonte di domanda potenzialmente inesauribile, le esportazioni sono anche un importante indicatore della capacità dell’economia di esprimere produzioni di qualità a bassi prezzi. È allarmante che quelle italiane abbiano vistosamente perduto quota nel mercato mondiale, dopo la pressoché ininterrotta fase di incremento postautarchia avviatasi nel dopoguerra e culminata nei primi anni Novanta. Il limite del made in Italy è nei prezzi alti. Ma è anche nella qualità, nella composizione merceologica, nel vecchio pertinace modello di specializzazione. Gli esportatori italiani sembrano meno in grado di rispondere al mutare dei vantaggi comparati rinnovando i prodotti, riallocando le risorse. Al tempo stesso – così come rappresentata dalle statistiche – la produzione delle imprese italiane all’estero non sembra ancora divenuta un sostituto rilevante dell’esportazione”.

Il contrasto tra l’andamento degli anni Novanta e la radice dello sviluppo economico intervenuto dopo la conclusione della seconda guerra mondiale è evidente e lo stesso Ciocca lo rileva in termini molto netti: “L’economia italiana si era “miracolosamente” sviluppata a ritmi brillanti dal dopoguerra ai primi anni Settanta. Da allora ha prevalso una tendenza al rallentamento. Essa è colta da tutti gli indicatori: reddito (assoluto e pro capite, effettivo e potenziale), consumi, produttività, esportazioni. Rispetto al passato, ma anche rispetto a economie più avanti nel terziario, i risultati sono specialmente deludenti nel decennio seguito alla lacerazione rappresentata dalla crisi valutaria del 1992. Dopo il primo trimestre del 2001 l’espansione dell’attività produttiva è stata pressoché nulla: la più lunga fase di ristagno in mezzo secolo. Superamento di un ritardo storico nello sviluppo, traumi salariali e petroliferi, squilibri del settore pubblico, instabilità macroeconomica possono dare ragione, almeno prima facie, del rallentamento negli anni Settanta e Ottanta. Meno agevole è spiegare l’insoddisfacente prestazione successiva, prospettare politiche e comportamenti, tentare previsioni per il medio termine”.

Il rapporto di Mediobanca

La lettura del rapporto di Mediobanca, di cui si è già detto prima, conferma come il 2002 presenti, nella rappresentazione contabile che si ricava consolidando tra loro i bilanci delle principali imprese italiane, un risultato negativo per un valore di quasi 8 miliardi di euro mentre, nell’anno precedente, il medesimo valore risultava essere positivo per oltre 9 miliardi di euro. Stiamo parlando di poco meno di duemila imprese – rispetto alle 45.000 che occupano almeno venti addetti – ma esse rappresentano il 52 per cento degli investimenti, il 55 per cento delle vendite all’estero, cioè delle esportazioni nazionali, il 46 per cento del fatturato ed il 33 per cento degli occupati totali. Nel solo 2002 l’occupazione nell’industria cala di oltre 21.000 unità mentre nel terziario la riduzione si ferma a poco più di 2.000 posti di lavoro. Quando si guarda agli ultimi tre anni, invece, la riduzione degli occupati nell’industria si adegua a 51.000 unità: con 24.000 posti di lavoro che vengono meno nel settore dei mezzi di trasporto ed altri 22.000 in quello della produzione di energia. Timidi segnali di una tendenza espansiva, sempre negli ultimi tre anni per i quali Mediobanca processa le informazioni dei bilanci delle principali imprese italiane, si osservano nel settore delle costruzioni – con un saldo positivo di 900 posti di lavoro, ed in quello della produzione di occhiali, con 2.400 nuovi occupati. Aumenta, tuttavia, nel triennio il capitale investito nel complesso delle principali imprese italiane: cioè l’insieme delle immobilizzazioni tecniche e finanziarie che rappresenta la base materiale del processo produttivo. Dedotte le tasse quel capitale rende mediamente un 7 per cento annuo, il return on investment (roi) after tax, ma il costo medio del capitale, cioè le dimensioni dell’onerosità della provvista finanziaria necessaria per garantire la copertura del fabbisogno rappresentato da quegli investimenti, risulta essere sistematicamente superiore. Lo spread si riduce nel 2002, rispetto ai due anni precedenti, ma resta tuttavia positivo solo perché scende il costo medio del capitale e non perché aumenti il rendimento degli investimenti in cui si fissa quella disponibilità finanziaria.

Fragilità e frammentarietà del sistema economico

Emergono da questi dati due singolari caratteri del nostro tessuto imprenditoriale. L’assoluta densità del nocciolo duro delle imprese nazionali – quelle 1941 società censite da Mediobanca che rappresentano almeno la metà dell’intero sistema economico – e la grande dispersione dell’altra metà del sistema che si compone delle residue 43.000 imprese italiane che danno lavoro ad almeno venti addetti, per dilatarsi ulteriormente all’universo delle imprese italiane che, nelle stime dell’Istat, supera i quattro milioni di unità, con una media di occupati per impresa che non arriva alle cinque persone.
Questa eterogeneità nel grado di densità organizzativa del sistema delle imprese appare come un connotato di ambiguità anche sotto il profilo funzionale. Evidentemente si può parlare di organizzazioni strutturate solo nel caso delle imprese censite da Mediobanca ma, come la cronaca recente ci ha insegnato, anche per queste imprese la posizione del dominus proprietario – cioè il fondatore o l’erede di una dinastia che si identifica con la proprietà dell’impresa – risulta assolutamente rilevante.

Questo è tanto più vero quando si passi a considerare le oltre quarantamila piccole e medie imprese ed è assolutamente scontato quando si prendano in esame i quattro milioni di imprese che, in definitiva, rappresentano solo dei grumi di lavoro individuale, aggregato sul piano delle relazioni interpersonali. Ne segue che l’Italia non ha una struttura manageriale di controllo del processo produttivo e non può contare sul regime di corporate governance come elemento di garanzia nell’amministrazione degli interessi coinvolti nella proprietà delle imprese e nel rischio che deriva dall’attività di produzione ed investimento che quelle imprese realizzano in condizioni di incertezza. Ma, sulla base di questa evidenza, risulta chiaro che il mercato dei capitali ha solo una funzione marginale e minimale nell’allocazione delle risorse disponibili. Le imprese risultano prevalentemente finanziate dal debito anche quando sono di medie e grandi dimensioni. Anzi, è proprio grazie alla dilatazione dell’indebitamento che le famiglie proprietarie riescono a controllare complessi organizzativi la cui dimensione trascende abbondantemente il patrimonio delle famiglie medesime.

La conclusione è che questo sistema imprenditoriale presenta due elementi di rischio sistemico abbastanza preoccupanti: una elevata fragilità finanziaria ed una forte interconnessione tra grappoli di imprese. Ognuna delle prime duemila società risulta essere il punto apicale di una filiera di fornitori intermedi e di ulteriori unità decentrate. La definizione abituale di questa morfologia la identifica con i tratti di un vasto decentramento, nel quale vari e diversi “cespugli produttivi” si dispongono lungo i rami di filiere industriali molto articolate.

Si tratta di catene di interessi correlati in cui l’anello determinante è la grande società, che fronteggia il mercato finale e dovrebbe assorbire i costi di ricerca, sviluppo ed ingegnerizzazione del prodotto. A questi costi si somma il rischio derivante dal coordinamento di un insieme eterogeneo e frammentato di fornitori, nei confronti dei quali valgono relazioni fiduciarie e contrattuali ma non esiste alcun tipo di controllo gerarchico. Circostanze che, congiuntamente, determinano l’esistenza di un importante rischio operativo generato dal processo di gestione dell’intero sistema. Questo rischio si cumula con i rischi derivanti dall’investimento in ricerca e sviluppo e si somma alla difficoltà di fronteggiare un mercato internazionale che tende ad integrarsi e a diventare sempre più competitivo.

Tutta questa piramide di rischi e di costi si poggia su un elevato grado di indebitamento e l’intera economia italiana, appare, quindi, caratterizzata da un elevato grado di instabilità. Concorre nella formazione di questo giudizio sulla instabilità sistemica del paese l’ulteriore circostanza che, nel corso degli anni Novanta, sia notevolmente aumentata la concentrazione del sistema bancario, sistema che supporta, amministrandone il debito, l’insieme delle imprese e rimane, di conseguenza, una sorta di garante ultimo dell’affidabilità economica dell’intero paese.

Nonostante la velocità e l’intensità di quel processo di integrazione, tuttavia, il mercato creditizio non ha ancora determinato la nascita di banche dalle dimensioni tali da poter essere annoverate tra le prime grandi banche del sistema europeo. Le nuove grandi banche italiane, in altre parole, potrebbero essere scalate dalle grandi banche europee in una ripetizione – che rischia di tradursi in una nemesi – di quanto è già avvenuto negli anni Novanta in Italia, quando le grandi banche – che operavano nell’area più sviluppata del paese ed erano cresciute grazie alla relazione reciproca con un sistema di imprese più denso e più vigoroso – hanno scalato la proprietà delle banche meridionali, rese patrimonialmente fragili dal regime di sussidi largamente elargito alle imprese delle aree in cui esse operavano. La debolezza delle banche meridionali derivava dalla ridotta capacità di competere delle imprese cui esse erogavano credito, in ragione dei sussidi che ne avevano reso facile la gestione ma debole la capacità endogena di sopravvivenza. Una stagione congiunturale negativa – la prima metà degli anni Novanta – ha svelato la fragilità delle imprese meridionali ed ha tradotto in perdite patrimoniali i crediti inesigibili, che le banche vantavano verso quelle imprese. Ne è seguito il processo di concentrazione bancaria di cui si è già detto.

La lunga stagione deflattiva che oggi attraversa l’economia europea, la fragilità del sistema imprenditoriale italiano e la possibilità di scalare le banche, che ne garantiscono il finanziamento, potrebbero generare un ulteriore trasferimento del controllo, sia sul sistema industriale che su quello finanziario, ad attori di dimensione europea. Del resto, come insegnano i padri dell’economia politica, sono le dimensioni del mercato che fanno la dimensione dell’impresa. E la dimensione economica in cui agiscono le imprese italiane è quella del mercato unico europeo che, tra l’altro, accusa una crescita molto più lenta di quella del mercato che si riconosce nel dollaro americano.

Efficienza e capacità di competere

A questa morfologia frammentaria e fragile si affianca un tratto di inefficienza economica e di confusione strategica. Dai dati di Mediobanca già citati emerge che il rendimento medio realizzato dalle grandi imprese italiane è sistematicamente inferiore, negli ultimi tre anni, al costo medio dei mezzi finanziari che esse utilizzano per realizzare i propri investimenti. Il primo, cioè il rendimento degli investimenti, si allinea al 7 per cento annuo mentre il secondo risulta essere pari all’8 per cento nei primi due anni e per poi ridursi al 7,5 per cento.

La confusione strategica del sistema emerge quando si rifletta alla circostanza che le imprese italiane – in presenza di questa pericolosa asimmetria, che ribalta e rende negativi gli effetti del leverage finanziario sul patrimonio degli azionisti ed indebolisce oggettivamente il sistema bancario – incrementano la dimensione dello stock di capitale investito e riducono il ricorso al fattore lavoro nei propri processi di produzione.

Il fatto che la produttività del capitale sia inadeguata rispetto al costo degli investimenti, ma che questo fattore della produzione venga comunque sostituito al lavoro nella struttura delle ricette produttive, deve essere interpretato come un dato di confusione strategica o come l’effetto di un vincolo nell’utilizzo delle capacità operative delle risorse umane, giudicato tanto ingestibile nella sua rigidità da spingere le imprese ad accollarsi il costo del differenziale di rendimento tra investimenti e mezzi finanziari piuttosto che il costo di irreversibilità generato dalla dilatazione delle dimensioni delle risorse umane stabilmente impiegate nella propria organizzazione. Quale che sia la risposta – confusione strategica o vincolo ingestibile alla radice della scelta inefficiente – restano operanti le sue conseguenze in termini di incapacità di competere. Una incapacità che, nelle nuove condizioni di stabilità monetaria imposte dall’adozione della moneta unica e dalla sua forza relativa rispetto al dollaro americano, si cumula con la indisponibilità della soluzione tradizionalmente adottata dal sistema economico italiano per ritrovare la forza di competere sui mercati internazionali in presenza di una dilatazione sistematica dei propri costi: la svalutazione della moneta nazionale rispetto alle valute dei paesi ai quali si rivolgevano le esportazioni nazionali.

Partendo dall’esame delle ragioni che determinano la fragilità reale della nostra economia, insomma, si ritrovano le medesime cause che spiegano la tensione sui prezzi interni all’indomani dell’adozione dell’euro. L’assenza di una struttura competitiva dei mercati alimenta la capacità di “piccoli monopolisti locali” di aumentare il prezzo dei generi per i quali la domanda di consumi è più rigida. Questa dinamica dei prezzi asimmetrica per settori, che viene interpretata come inflazione differenziale dai consumatori che ne restano vittime, si traduce in una redistribuzione del reddito tra strati sociali che penalizza ulteriormente le imprese: perché alimenta la insoddisfazione dei lavoratori dipendenti e ne innalza il tasso di conflittualità.

La fragilità finanziaria dell’economia nazionale – e non poteva essere altrimenti – è solo l’altra faccia di una sua fragilità economica che si manifesta come conseguenza del rifiuto sistematico rispetto all’accettazione di un regime esplicito di competizione nell’esercizio delle attività economiche e nella riduzione delle barriere, normative e comportamentali, che si oppongono alla libera circolazione delle merci, degli uomini e dei capitali finanziari. Studiosi autorevoli affermano che, all’indomani della implosione delle economie socialiste, esista oggi un nuovo spazio analitico per l’economia istituzionale. Essa non deve cimentarsi con l’analisi comparata di due ordinamenti che si fondino, alternativamente, sul mercato – inteso come luogo di coordinamento delle molteplici scelte gestite autonomamente da soggetti imprenditoriali vari e diversi tra loro – o sullo Stato, inteso come luogo accentrato di ogni decisione che incide sul coordinamento dei processi di produzione e consumo nell’ambito di un’economia chiusa ovvero di un’economia che affidi allo Stato medesimo anche il monopolio delle relazioni economiche e finanziarie con il resto del mondo. Se si condivide una opzione sistemica in favore della soluzione di mercato, occorre ancora confrontare tra loro e valutare soluzioni istituzionali capaci di offrire una solida base di riferimento al mercato in termini di tutela della competizione e di efficiente produzione di beni pubblici o meritori, il coordinamento della produzione dei quali il mercato è incapace di garantire. Quando si guarda a questa soluzione dal punto di vista dei sistemi finanziari le implicazioni sono assai rilevanti. Non si tratta di regolamentare minuziosamente le singole funzioni possibili, in cui si può scomporre il funzionamento degli intermediari, ma di consentire la nascita di istituzioni finanziarie ciascuna delle quali soddisfi un bisogno presente tra gli operatori e completi, per questa strada, l’ordinamento del mercato medesimo. Ferma restando la tutela, attraverso autorità indipendenti dal governo dello Stato, della stabilità degli intermediari e del sistema monetario, della competizione tra intermediari e della limitazione della posizione dominante degli stessi nei confronti delle famiglie e delle imprese, della trasparenza nei comportamenti degli attori economici e delle informazioni riguardanti la loro solidità patrimoniale e la loro efficienza economica.

In ordinamenti di questo genere si assicura ai mercati la possibilità di funzionare e si impara dal giudizio che i mercati formulano sugli attori, espellendo coloro che non superano il regime della competizione. In ordinamenti alternativi – nei quali la concertazione tra interessi diversi alimenta una collusione contro le regole della competizione ed una redistribuzione della ricchezza che non premia l’efficienza ma solo la capacità di trovare convergenze tra alcuni ai danni degli altri – non si alimenta il circolo virtuoso tra competizione, mercato e crescita. Le imprese non raggiungono dimensioni adeguate rispetto a quelle dei mercati potenzialmente raggiungibili e le banche restano troppo vincolate da imprese, che non riescono a tenere a distanza ma con le quali sono costrette a colludere in ragione della prevalenza del debito rispetto agli strumenti mobiliari.

L’Italia di oggi appare troppo vicina al secondo genere di ordinamenti, ancor più di quanto non lo sia l’intera economia dell’euro rispetto all’economia che si riconosce e si esprime attraverso l’utilizzo del dollaro americano. Industrie e banche italiane sono le più esposte alla contraddizione tra dimensione globale del mercato ed asfissia competitiva sul piano locale e, proprio per questo, è più grande il rischio di un loro declino economico in ragione del declino sistemico della capacità di competere come stella polare del loro mercato.

30 marzo 2004

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