Trent’anni di imprese e follie
di Francesco Forte
da Ideazione, marzo-aprile 2004
Le ultime vicende dei nostri grandi gruppi industriali, il crac
del gruppo Cirio e poi della Parmalat, inducono a riflettere sul
modello di capitalismo che si è sviluppato in Italia negli ultimi
trent’anni. Perché iniziare con gli anni Settanta? La politica
economica e il modello di capitalismo italiano attorno al 1972-73
si trovano a un bivio, fra una moderna economia di mercato
democratica di tipo europeo e un modello dirigista, basato sul
controllo del credito e della valuta e sul potere congiunto del
governo e delle parti sociali, che possiamo definire
neo-corporativo. Viene imboccata questa via, definita “nuovo
modello di sviluppo”, che termina rovinosamente attorno al 1980.
Dal 1981 inizia una seconda fase di ritorno al mercato, con un
modello, che schematizzando, può definirsi di neo-capitalismo
finanziario, in quanto basato sul rapporto fra banca e industria
anziché sul rapporto fra industria e mercato finanziario, e su una
prevalenza del modello del conglomerato su quello del core
business, con una cospicua presenza di imprese pubbliche, ma senza
più controlli selettivi del credito e con una crescente
liberalizzazione valutaria. La grande impresa privata che si
configura come conglomerato, con aspirazioni ai mercati globali, è
sempre a controllo, se non guida, familiare. Le imprese pubbliche,
abituate a far affidamento sui fondi di dotazione, per ripianare
le perdite e finanziare gli investimenti sono sempre
autoreferenziali. L’Eni e l’Enel si risanano, mentre l’Iri,
cresciuta irrazionalmente negli anni Settanta, comincia in modo
incerto la propria ristrutturazione.
Il
modello di neo-capitalismo finanziario entra in crisi agli inizi
degli anni Novanta, in coincidenza non casuale con l’ingresso
dell’Italia nella banda stretta dello Sme, con l’adesione al
Trattato di Maastricht e l’esplosione di tangentopoli. Dal
1991-92, con le estese privatizzazioni, una nuova svolta, con un
modello che, ancora schematizzando, definirei di neo-capitalismo
bicefalo: quello manageriale che punta sul core business e ai
mercati globali e guarda sempre più alla borsa e quello dei
compradores, basato sull’espansione mediante acquisizioni
finanziate con obbligazioni, una concezione giunta nel 2003 al
capolinea. Ciascuno di questi periodi ha avuto, al suo inizio, una
svolta, si può dire (quasi) traumatica, verso una strada diversa.
Nel maggio 1972 ebbe termine la quinta legislatura e,
virtualmente, si concluse l’epoca del centro-sinistra organico,
quello del quadripartito, iniziato nei primi anni Sessanta, in cui
l’Italia aveva fatto ingresso nel neo-capitalismo. I socialisti
ora, dopo la scissione dei socialdemocratici del 1969, erano poco
propensi al centro-sinistra, perché vi erano, nel paese, la
contestazione sindacale e il terrorismo, mentre i comunisti si
atteggiavano a partito d’ordine, capace di incanalare le masse
popolari al potere, con formule non rivoluzionarie. Il riformismo
socialista vacillava, i grandi capitalisti privati, comunque, non
vi simpatizzavano. Emergeva la linea della solidarietà nazionale e
dell’euro-comunismo organico.
Nel
capitalismo industriale italiano vi era allora una quota
importante di grandi imprese pubbliche: Iri, Eni ed Enel e, in
posizione minore, Efim ed Egam, oltre alle tradizionali Ferrovie e
Poste e ad alcune grandi Municipalizzate. Sostanzialmente, le
imprese pubbliche e parte delle banche erano ancora un centro di
potere Dc. Ad esse si aggiungeva una quota altrettanto importante
di grandi imprese private, quasi tutte di antica data e a guida
familiare, collegate alla finanza laica di Mediobanca: Fiat,
Pirelli, Olivetti, Marzotto, Italcementi dei Pesenti, ed accanto
ad esse la Montedison, nata dalla fusione fra Montecatini ed
Edison. Alcune nuove arrivate medio-grandi come la Zanussi
(elettrodomestici), la Ferrero (dolciumi di massa), la Sir di
Rovelli (chimica di base ed intermedia), il gruppo Ferruzzi
(industrie agro-alimentari) non avevano potere carismatico nel
mondo industriale. Ma l’economia industriale italiana in questo
decennio ebbe anche un altro sviluppo, non patologico, nella
piccola e media impresa, non solo del triangolo industriale, ma
ora anche del Nord- Est e dell’Adriatico.
Anni Settanta, il capitalismo
neo-corporativo
Dal 1971 al 1980 gli occupati nell’industria crescono del 12 per
cento, ma, mentre aumentano gli occupati nelle imprese sino a 50
addetti, ristagnano quelli nelle imprese fra i 50 e i 500 e calano
del 9,7 per cento quelli nelle imprese da mille addetti in su. In
parte si tratta di un decentramento produttivo fisiologico, in
parte spinto dalla pressione sindacale nelle maggiori imprese. In
parte maggiore ciò si spiega con la dinamica del micro-capitalismo
schumpeteriano dei distretti industriali. Una parte delle
piccolo-medie imprese cresciute in fretta alla fine degli anni
Sessanta, però, con i rincari dei costi del lavoro, era andata o
stava andando in crisi e veniva accolta nella Gepi, inizialmente
concepita come agenzia di ristrutturazione e rilancio industriale,
che si era trasformata in un centro di economia assistita. Ma
anche nella grande impresa la congiuntura internazionale difficile
generava problemi critici. Così il primo governo della nuova
legislatura, quello Andreotti, costituito da Dc, Pli e Psdi, con
appoggio esterno del Pri con una maggioranza parlamentare del 52,8
per cento dei seggi, fu chiamato a fare le scelte di rigore
richieste dai repubblicani. Ma la prova fallì. La lira dovette
uscire dal serpente monetario europeo. E dopo breve tempo ritornò
il centrosinistra, in cui per altro la grande industria non
credeva più. Il premier Mariano Rumor non aveva gran polso. Nei
primi cento giorni la troika economica con La Malfa al Tesoro,
Colombo alle Finanze, e Giolitti al Bilancio operò bene. Ma
intervenne la guerra del Kippur, il rialzo del prezzo del
petrolio, la crisi finanziaria europea. La contestazione
seguitava, anzi si accresceva. L’economia italiana, come ebbi a
dire allora in un convegno manageriale, si trovò, così, a un
bivio. Fare ingresso nel modello di una moderna democrazia
industriale europea, basata su regole del mercato e su una
coerente politica fiscale e dei redditi, oppure illudersi con un
“diverso modello o meccanismo di sviluppo”, quale quello che
nebulosamente prospettavano il Pci di Berlinguer e la sinistra
democristiana che con esso simpatizzava. Che era in realtà, un
modello neo-corporativo, in cui i comunisti avrebbero garantito
l’ordine sociale, in cambio della partecipazione al potere, con un
accordo parlamentare organico e soprattutto tramite il sindacato
unitario, da loro controllato, che veniva ammesso alle decisioni
di politica economica.
Nel
1974 avvenne la svolta verso i comunisti. La Confindustria
presieduta da Giovanni Agnelli siglava con i sindacati, nel
gennaio 1975, l’accordo sul punto unico di contingenza,
sponsorizzato dai comunisti. E il sistema capitalistico italiano
imboccava la via del dirigismo. La spesa pubblica aumentava,
mentre la pressione fiscale non si accresceva di altrettanto.
L’onere del debito pubblico veniva però occultato mediante il suo
acquisto da parte della Banca Centrale. Questa, per poter reggere
al peso, aveva stabilito, d’accordo con il governo, un tetto al
credito totale all’economia: che pertanto veniva razionato dal
sistema bancario. Nel 1976 veniva reintrodotto il controllo
dell’esportazione dei capitali, con pene severe per chi avesse
costituito disponibilità valutarie all’estero. L’inflazione, che
nel 1972 era al 5 per cento, nel 1973 era salita al 9, nel 1974 al
16. I bilanci delle imprese erano, pertanto, pressoché
illeggibili. L’economia industriale si sviluppava in un clima di
capitalismo drogato e distorto in cui, mentre Enrico Berlinguer e
Claudio Napoleoni teorizzavano l’austerità, in realtà i consumi
aumentavano sotto la spinta dell’aumento dei benefici
pensionistici, della protezione della scala mobile, che
inizialmente doveva proteggere solo il salario minimo ma venne
estesa a ogni parte della retribuzione dei lavoratori privati e
pubblici, dei deficit dei servizi pubblici e dell’assunzione
assistenzialistica da parte dei lavoratori delle imprese private
in crisi delle imprese pubbliche e della Gepi. Negli anni Settanta
la sola Iri acquisì 55 imprese e ne cedette 18. Anche i
pensionamenti anticipati, riguardanti le ristrutturazioni di
grandi imprese, venivano finanziati dallo Stato. Frattanto le
imprese pubbliche, che in precedenza avevano obbedito a criteri di
economicità, oramai finanziavano i propri investimenti con il
ricorso a fondi di dotazione statali e spesso ricorrevano allo
Stato per il ripiano delle perdite.
Si
costruivano, nel Mezzogiorno, le cosiddette “cattedrali del
deserto” della chimica di base e della siderurgia. Il tasso di
crescita del Pil, con queste droghe e distorsioni, rimase elevato:
+3 per cento, nel 1973, l’anno della crisi petrolifera, +5,4 per
cento l’anno successivo, -2,8 per cento nel 1975 in relazione alle
esigenze di stabilizzazione, ma ancora +8 per cento nel 1976, +4,2
per cento nel 1977 e poi +5,4 per cento nel 1978 e +6,8 per cento
nel 1979, anno elettorale. Indi tre anni magri (con un +3,1, un
+1,6 e un +0,73 di crescita del Pil) nei quali questo modello
artificioso entrò in crisi, in parte per proprie ragioni di
insostenibilità, in parte per il mutamento che cominciava a
delinearsi nel quadro politico. Frattanto l’Iri era passata da
357mila addetti nel 1970 a 557mila nel 1980. L’Eni da 65mila a
123mila. Contando gli addetti alle Poste, alle Ferrovie, alle
municipalizzate si arrivava a un milione di addetti nell’industria
pubblica, mentre il sistema delle banche era, anche a prescindere
da quelle dell’Iri (Comit, Credito Italiano, Banco di Roma), tutto
pubblico (Bnl, Imi, Crediop, Banco di Napoli, Banco di Sicilia,
Mediocredito Centrale eccetera) o sotto il controllo pubblico
(Casse di Risparmio, Monte dei Paschi di Siena, San Paolo di
Torino).
Questa epoca, però, non si può denominare tanto di economia mista
quanto di capitalismo neo-corporativo ibrido: con la Montedison
controllata dal 1971 ufficialmente dal gruppo Eni, ma in realtà da
Mediobanca, imprese private come la Sir, finanziate interamente da
banche pubbliche a medio termine come l’Imi; grandi imprese come
la Fiat, che aveva potuto ottenere la svalutazione della lira, nel
1975, per riacquistare competitività sul mercato internazionale.
Tutti fruivano, a vario titolo, di crediti agevolati.
Nel
1977, nella “Relazione sullo stato dell’industria italiana”, che
costituiva il documento programmatico della nuova politica
industriale dirigista, si presentava il seguente quadro. La legge
464 del 1972, nel 1977, aveva erogato la sua intera dotazione di
813 miliardi. La legge 183 del 1976 di incentivazione delle
imprese del Nord aveva appena stanziato 1120 miliardi. La legge
675 del 1977 di riconversione e ristrutturazione industriale, che
aveva introdotto un modello di dirigismo industriale selettivo
basato su piani di settore, concordati fra governo, industriali e
sindacati, che a me parve neo-corporativo, era stata dotata di
4560 miliardi. La legge di incentivazione delle industrie del
Mezzogiorno 853 del 1971, dotata di 3920 miliardi era stata
interamente utilizzata e la nuova legge 183 del 1976 aveva
stanziato 5980 miliardi.
L’Imi, dal 1971, aveva ricevuto a vario titolo 1060 miliardi, come
apporto statale, per i suoi crediti agevolati. E circa 1500
miliardi erano stati stanziati presso il ministero della Marina
Mercantile per credito navale e cantieristica, di cui 900 ancora a
disposizione. Secondo il Bianchi (2002) i fondi disponibili nel
1977 consentivano un totale di 25mila miliardi di incentivazioni
industriali, sotto forma di crediti agevolati e contributi in
conto capitale.
La crisi del neo-corporativo
Per dare un’idea dell’importanza di questa cifra, basta
considerare che il Pil del 1977, a prezzi correnti, era 214mila
miliardi. Il boom di investimenti nel Mezzogiorno a ciò connesso
generò la crescita abnorme di settori come la chimica di base e
intermedia e la siderurgia. Ne susseguirono rovinose chiusure,
come quella del centro siderurgico di Bagnoli, della Liquichimica
di Raffaele Ursini, della Sir di Rovelli, assorbiti nel 1982
dall’Enichem, che li smantellò, anziché rilanciarli, depurati dai
doppioni, non essendo interessata alle innovazioni tecnologiche
nella chimica ed avendo altri problemi di riorganizzazione nel
settore petrolifero, in cui aveva assorbito il gruppo Monti,
accollandosi mille miliardi di debiti. Il Bianchi, circa la
politica industriale degli anni neo-corporativi, osserva che “la
nuova fase di programmazione democratica, come si chiamava allora,
implicò un processo continuo e defatigante di mediazione e
concertazione trilaterale – governo, forze sindacali e forze
imprenditoriali – ad ogni livello e per ogni materia in un
contesto in cui, alla fine, il processo di decisione politica
veniva demandato alla negoziazione di quegli stessi interessi che
si intendevano regolare”.
Ma
ciò non serviva neppure alla pace sociale. Nel 1979, a causa degli
scioperi, la Fiat perse una produzione di 200mila autovetture e
chiuse in rosso con 200 miliardi di lire di perdite operative. Il
tasso di assenteismo oscillava fra il 15 e il 20 per cento. La
produttività era scesa a un po’ meno di due terzi di quella
tedesca. Le Brigate Rosse, nel frattempo, avevano ferito 27
dirigenti Fiat e, il 21 settembre del 1970, l’ingegner Ghiglieno,
capo della programmazione auto, era stato ucciso a rivoltellate in
una strada di Torino. Seguì il licenziamento di 61 operai
sospettati di legami con il terrorismo. Grandi scioperi di
protesta: Berlinguer si recò ai cancelli di Mirafiori, per
sostenerli e sponsorizzarli. Ma la marcia dei quarantamila quadri
e capi operai Fiat per il ritorno all’ordine in fabbrica segnò la
fine del modello del capitalismo ibrido neo-corporativo. Iniziava,
faticosamente, il ritorno al mercato.
La prima rottura fra la grande industria e il “nuovo modello di
sviluppo” avvenne nel dicembre del 1978: quando l’Italia dovette
votare per lo Sme, il Sistema monetario europeo, un regime di
cambi quasi fissi, preludio della moneta unica europea. I
comunisti votarono contro mentre i socialisti, alla cui guida era
giunto Bettino Craxi, si astennero, rendendo possibile l’adesione
italiana. La maggioranza parlamentare per lo Sme contrastava con
la formula di governo, che aveva dominato negli anni Settanta e
con le aspirazioni europee del capitalismo italiano.
Anni Ottanta, il neo-capitalismo finanziario
Il grado di apertura internazionale dell’economia italiana dato
dalla somma delle importazioni ed esportazioni in rapporto al Pil
che era del 35 per cento nel 1970 era diventato del 40 per cento
nel 1980. La grande industria privata italiana puntava su un nuovo
centro-sinistra moderato, formato dal pentapartito Dc, Psi, Psdi,
Pri, Pli. Il partito preferenziale del raggruppamento di
Mediobanca, dominato dalla Fiat era, come nel passato, quello
repubblicano, ora guidato da Giovanni Spadolini. Il legame della
grande industria con i liberali era invece sempre più esile. La
sua vocazione, in effetti, non era quella di una economia di
mercato liberale, anche se, oramai, aspirava a una dimensione di
mercato europeo e a regole di capitalismo europeo. Il mercato
azionario, il capitalismo popolare dei fondi di investimento, la
public company erano aliene dalle aspirazioni del capitalismo
italiano. Esso si ispirava al modello renano, del legame
finanziario fra industria e banca. Il finanziamento
dell’investimento veniva affidato principalmente
all’autofinanziamento e al credito bancario, mediante quello
ordinario e quello a medio e lungo termine, in cui il ruolo
bancario dello Stato rimaneva dominante, tramite l’Imi, il
Mediocredito centrale e altri Istituti.
Dopo un periodo di transizione, rinasceva il centro-sinistra, nel
1981, con il governo Forlani, cui succedettero due governi
Spadolini e poi, dal 1983 al 1987, i due governi Craxi. L’Italia
tornava al sistema di mercato, pagando, per altro, un prezzo
altissimo per il divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia, che
comportò un balzo del debito pubblico, prima sommerso. E per
l’abolizione della scala mobile, che comportò la rinuncia al
controllo della spesa pubblica, resa difficile, del resto, dal
voto segreto sul bilancio e sulla legge finanziaria, abolito solo
nell’ottobre del 1988, dopo una dura battaglia contro
l’opposizione comunista. Inoltre venivano al pettine i nodi
dell’errata politica industriale degli anni Settanta.
Nel
quinquennio 1980-84 i governi versarono a Iri, Eni, Gepi, Efim ben
22.130 miliardi, a fronte di perdite consolidate di 19mila. La
quota dell’Iri fu di 15.230 miliardi: esso aveva perso 3.700
miliardi nel biennio 1979-80 e ne perse altri duemila annui nei
seguenti cinque anni. L’Enel nel triennio 80-82 ricevette
6.600mila miliardi, di cui 5mila per ripiano di perdite,
essenzialmente dovute alla politica di tariffe sotto costo,
rivolte ad evitare gli scatti di scala mobile. Tutto ciò rallentò
la politica di risanamento del bilancio, generando una ulteriore
crescita del debito pubblico. Ma la grande industria italiana si
andava risanando. Nel 1986, l’Iri torna in attivo. La Fiat
presenta un utile record di 2360 miliardi. L’Eni, tornato
all’utile nel 1985, con la presidenza di Franco Reviglio,
diventava sempre più una compagnia chimico-petrolifera
multinazionale, liberandosi degli altri settori. Non riusciva però
a decidersi sulla chimica di base e intermedia, estranee al suo
core business. Nel 1981 la Montedison passa sotto Gemina, holding
finanziaria privata controllata da Mediobanca, Fiat, Pirelli,
Bonomi (BiInvest) e altri. Amministratore delegato è Mario
Schimberni. Snia della Montedison, con la sua chimica militare
passa al gruppo Fiat. Nel 1986 l’Iri cede alla Fiat l’Alfa Romeo.
Nel 1984 Gemina conquista il gruppo Rcs. Nel 1985 Schimberni scala
BiInvest e poi con questa Fondiaria controllata da Mediobanca,
cercando di fare della Montedison una public company slegata dalle
banche. Gemina esce da Montedison.
Nell’ottobre il tentativo di Mario Schimberni di fare della
Montedison una public company, con un azionariato diffuso subisce
una svolta. Raul Gardini acquisisce, per il gruppo Ferruzzi, il
14,5 per cento delle azioni Montedison. Passerà in un anno al 40
per cento. Schimberni viene dimissionato. Nel 1988, la Fiat
allontana il manager Vittorio Ghidella: prevale così la strategia
finanziaria di Romiti, che punta al conglomerato multinazionale e
trascura l’auto.
Nel 1989 l’Eni e la Montedison-Ferruzzi creavano un ibrido del
settore chimico e chimico petrolifero, denominato Enimont, con
proprietà paritetica. Una insensata architettura in cui la finanza
dei conglomerati prevaleva sulla managerialità. Alla fine del
1990, l’intero gruppo, dopo due anni di scontri, passerà all’Eni,
ma anche la Montedison-Ferruzzi era oramai al dissesto,
essenzialmente a causa dei limiti del modello organizzativo. E
altrettanto il gruppo Olivetti, che non aveva puntato abbastanza
sull’innovazione tecnologica concentrata in un core business e si
era dispersa in molteplici avventure. Nel ’92 crolla, sotto
ingenti perdite, l’Efim, holding elettromeccanica con alcune
brillanti imprese di tecnologia avanzata, privo di core business e
disperso in disparate avventure.
Tuttavia gli anni Ottanta non furono affatto negativi per il
capitalismo italiano, perché in esso si sviluppò il nuovo modello
di capitalismo schumpeteriano del made in Italy, che oggi
costituisce, assieme ai distretti industriali diffusi in tutta
Italia, l’asse portante e la punta di diamante internazionale.
Imprese di nuovo capitalismo come Armani, Ferrero, Barilla,
Luxottica di Del Vecchio, Merloni, Benetton, Riva, Lucchini,
Techint, Caltagirone crescono negli anni Ottanta e si affermeranno
negli anni Novanta, come la nuova realtà di neo-capitalismo
manageriale, inserita nei mercati globali.
Anni Novanta, compradores e politica
Un altro discorso si deve, a questo punto aprire su quel che è
successo, negli anni dal 1992 in poi, con le privatizzazioni e le
liberalizzazioni accompagnate da licenze a nuovi gestori, che
hanno dato vita o stimolo al neo-capitalismo dei compradores. Il
primo grande episodio fu la cessione della Sme nel 1993, che ebbe
inizio quando al vertice dell’Iri c’era Franco Nobili, che la
offrì, mediante gara, in tre parti: Italgel, Cirio Bertolli De
Rica, ossia CBD e Gs Autogrill. Per la CBD erano in lizza
Eridania-Ferruzzi, Parmalat, Cragnotti, Granarolo, Unilever e
Fisvi, una finanziaria di cooperative meridionali capeggiata da
Carlo Saverio Lamiranda “politicamente vicino alla Dc ed
economicamente vicino a Cragnotti. Pardon, alias Cagnotti”.
Non
sappiamo cosa sarebbe accaduto se Nobili, frattanto arrestato per
presunti reati di tangentopoli (da cui fu poi assolto), fosse
rimasto presidente dell’Iri. Al suo posto subentrò nuovamente
Romano Prodi. “A sorpresa la Fisvi si aggiudicava la CBD
sbaragliando forti concorrenti tipo Unilever. Ma le sorprese non
finiscono qui. Lamiranda annunciava che avrebbe girato la Bertolli
ad Unilever e che avrebbe costituito una nuova società per
allearsi con Sergio Cragnotti, braccio destro di Raul Gardini
oppure con Calisto Tanzi, amico di De Mita”.
Dunque, in realtà Lamiranda era il brasseur di Unilever, di
Cragnotti e di Tanzi. Romano Prodi, poco prima di ridiventare
presidente dell’Iri, era stato consulente di Unilever, la società
che avrebbe ottenuto la Bertolli dalla Fisvi di Lamiranda, a sua
volta vincitrice della gara per CBD. L’acquisto diretto della CBD
da parte di Unilever avrebbe potuto essere suscettibile di
critiche. Quanto al duo Cragnotti-Tanzi, i loro interessi e
destini di parvenu del capitalismo dei compradores politicizzati,
si presentavano già allora intrecciati. “Lamiranda e Cragnotti si
allearono e costituirono la Sagrit destinata a contenere la CBD
[...]. Alla fine, dopo una giostra di passaggi, la Bertolli
passava alla Unilever, Lamiranda cedeva a Cragnotti la sua quota
di Sagrit e la Cirio andava a finire sempre a quest’ultimo”. L’Iri
incassò dalla privatizzazione di CBD la cifra di 310 miliardi. La
cessione di Italagel a Nestlé, fruttò invece 703 miliardi. Ed una
cifra di 740 fu ottenuta con la vendita di Gs
(supermercati)-Autogrill al gruppo Benetton.
Il
totale, ricavato dall’Iri, per la vendita della Sme, nel 1993,
pari a 1753 miliardi è sembrato un affare, al confronto della
cessione per circa 500 che Prodi aveva progettato nel 1985 e che
non era andata in porto. Tuttavia “dopo avere comperato per 740
miliardi di lire il gruppo Gs-Autogrill la cordata Benetton si
disfaceva, nel giro di tre anni, dei settori Gs-supermercati che
venivano comperati dalla francese Carrefur alla “modica” somma di
5000 miliardi di lire, mentre ai Benetton restava la proprietà di
Autogrill, Pavesi, Ristorante Ciao, Motta ed Alemagna, oltre a
tante altre aziende immobili, per un valore pari a 1500 miliardi.
A conti fatti, la cordata Benetton avrebbe realizzato oltre
cinquemila miliardi di lire. Si badi che i conti in tasca ai
Benetton sono stati fatti dagli esposti arrivati alla Procura di
Perugia, via la Procura di Salerno”. Calisto Tanzi ha sostenuto,
nel gennaio del 2004, che l’acquisto gli fu imposto, a quel
prezzo, da Capitalia, guidata da Geronzi. Ma il prezzo,
considerato il potere di marketing del gruppo acquisito, era di
tutta convenienza. E semmai, metteva in luce come le
privatizzazioni che avevano dato origine a Eurolat di Cirio
fossero state a suo tempo fatte a prezzi molto buoni per l’abile
Cragnotti. Eurolat di Cirio, nel 1997, fatturava 1280 miliardi di
lire ed era leader del latte fresco.
Cirio e Parmalat: gli errori di Cragnotti e
Tanzi
Parmalat nel 1997, fatturava, nel settore latte in Italia 1230
miliardi di lire, prevalentemente nel prodotto a lunga
conservazione. Il suo fatturato complessivo italiano era di 2174
miliardi di lire. Con Eurolat, dunque, Parmalat fece, sul mercato
nazionale del latte, un salto non solo dimensionale, ma
qualitativo di natura fondamentale. Divenne impresa leader nel
latte, non solo di lunga conservazione, ma anche fresco, così
potendo giustificare in termini di marketing, anche le attività
collaterali nelle bevande, che andavano negli stessi negozi.
L’errore di Cragnotti, che vendette bene ciò che aveva comperato a
prezzi di saldo, fu di avventurarsi in acquisti internazionali,
anziché usare la liquidità per ridurre la sua esposizione bancaria
eccessiva. L’errore di Tanzi fu, analogamente, di non concentrarsi
su questo core business e di buttarsi a capofitto in compere di
imprese internazionali a debito.
Alcuni compradores, come il gruppo Olivetti della Cir di Carlo De
Benedetti tramite Omnitel, poi rivenduta, sono riusciti a salvarsi
dal naufragio. Altri come Benetton, sono riusciti a insediarsi
stabilmente nel settore dei servizi e delle gestioni autostradali.
Altri come Pirelli, mediante la acquisizione di Telecom, dopo il
duplice passaggio a Fiat e a Olivetti scalata da Colaninno, sono
riusciti a riconvertire il core business da quello della gomma e
dei cavi a quello della Telefonia.
Per
la Fiat la storia è opposta. Dal 1996 quando Gianni Agnelli,
lasciava la presidenza di Fiat Holding, la Fiat si lanciò nella
diversificazione dall’auto, con ambiziosi acquisti a vasto raggio,
a debito. Ha acquisito una quota importante di San Paolo Imi e
fallito, nel 1999, il tentativo di controllo di Telecom Italia,
mediante l’acquisto di un pacchetto di minoranza, nel 2001, è
entrata come uno dei principali partner, con Electricité de
France, in Italenergia Spa, controllante di Edison Spa, che, con
le privatizzazioni, è diventato il più importante operatore
privato nel settore dell’energia elettrica in Italia. Da “non solo
auto”, Fiat stava per passare a “non più auto”, con l’accordo con
General Motors che, in cambio del 20 per cento del pacchetto
azionario di Fiat auto, si impegnava a rilevarne nel 2004 il
resto.
La
Fiat però nel 2002 è quasi andata al collasso. Nel 2003, Umberto
Agnelli ha dismesso imprese in precedenza acquistate ma non
considerate essenziali, onde ridurre l’indebitamento e ha di nuovo
puntato sull’auto con manager capaci. Ora la Fiat, tornata al core
business, si sta riprendendo bene. Questa parabola è emblematica
dell’indirizzo che dovrebbe prevalere, nel capitalismo italiano,
dopo che la parte più rampante e politicizzata dei compradores
della Seconda Repubblica è caduta in frantumi. Purtroppo non è
caduta da sola, ha coinvolto duecentomila risparmiatori che hanno
perso le loro obbligazioni.
Caduto, con i crac degli anni Settanta e poi con tangentopoli, il
sogno del polo chimico, negli anni Novanta, la grande industria
italiana, intenta ad acquistare più che a creare, non si è
dedicata ai settori di punta delle innovazioni tecnologiche.
30 marzo 2004 |