Trent’anni di imprese e follie
di Francesco Forte
da Ideazione, marzo-aprile 2004

Le ultime vicende dei nostri grandi gruppi industriali, il crac del gruppo Cirio e poi della Parmalat, inducono a riflettere sul modello di capitalismo che si è sviluppato in Italia negli ultimi trent’anni. Perché iniziare con gli anni Settanta? La politica economica e il modello di capitalismo italiano attorno al 1972-73 si trovano a un bivio, fra una moderna economia di mercato democratica di tipo europeo e un modello dirigista, basato sul controllo del credito e della valuta e sul potere congiunto del governo e delle parti sociali, che possiamo definire neo-corporativo. Viene imboccata questa via, definita “nuovo modello di sviluppo”, che termina rovinosamente attorno al 1980. Dal 1981 inizia una seconda fase di ritorno al mercato, con un modello, che schematizzando, può definirsi di neo-capitalismo finanziario, in quanto basato sul rapporto fra banca e industria anziché sul rapporto fra industria e mercato finanziario, e su una prevalenza del modello del conglomerato su quello del core business, con una cospicua presenza di imprese pubbliche, ma senza più controlli selettivi del credito e con una crescente liberalizzazione valutaria. La grande impresa privata che si configura come conglomerato, con aspirazioni ai mercati globali, è sempre a controllo, se non guida, familiare. Le imprese pubbliche, abituate a far affidamento sui fondi di dotazione, per ripianare le perdite e finanziare gli investimenti sono sempre autoreferenziali. L’Eni e l’Enel si risanano, mentre l’Iri, cresciuta irrazionalmente negli anni Settanta, comincia in modo incerto la propria ristrutturazione.

Il modello di neo-capitalismo finanziario entra in crisi agli inizi degli anni Novanta, in coincidenza non casuale con l’ingresso dell’Italia nella banda stretta dello Sme, con l’adesione al Trattato di Maastricht e l’esplosione di tangentopoli. Dal 1991-92, con le estese privatizzazioni, una nuova svolta, con un modello che, ancora schematizzando, definirei di neo-capitalismo bicefalo: quello manageriale che punta sul core business e ai mercati globali e guarda sempre più alla borsa e quello dei compradores, basato sull’espansione mediante acquisizioni finanziate con obbligazioni, una concezione giunta nel 2003 al capolinea. Ciascuno di questi periodi ha avuto, al suo inizio, una svolta, si può dire (quasi) traumatica, verso una strada diversa. Nel maggio 1972 ebbe termine la quinta legislatura e, virtualmente, si concluse l’epoca del centro-sinistra organico, quello del quadripartito, iniziato nei primi anni Sessanta, in cui l’Italia aveva fatto ingresso nel neo-capitalismo. I socialisti ora, dopo la scissione dei socialdemocratici del 1969, erano poco propensi al centro-sinistra, perché vi erano, nel paese, la contestazione sindacale e il terrorismo, mentre i comunisti si atteggiavano a partito d’ordine, capace di incanalare le masse popolari al potere, con formule non rivoluzionarie. Il riformismo socialista vacillava, i grandi capitalisti privati, comunque, non vi simpatizzavano. Emergeva la linea della solidarietà nazionale e dell’euro-comunismo organico.

Nel capitalismo industriale italiano vi era allora una quota importante di grandi imprese pubbliche: Iri, Eni ed Enel e, in posizione minore, Efim ed Egam, oltre alle tradizionali Ferrovie e Poste e ad alcune grandi Municipalizzate. Sostanzialmente, le imprese pubbliche e parte delle banche erano ancora un centro di potere Dc. Ad esse si aggiungeva una quota altrettanto importante di grandi imprese private, quasi tutte di antica data e a guida familiare, collegate alla finanza laica di Mediobanca: Fiat, Pirelli, Olivetti, Marzotto, Italcementi dei Pesenti, ed accanto ad esse la Montedison, nata dalla fusione fra Montecatini ed Edison. Alcune nuove arrivate medio-grandi come la Zanussi (elettrodomestici), la Ferrero (dolciumi di massa), la Sir di Rovelli (chimica di base ed intermedia), il gruppo Ferruzzi (industrie agro-alimentari) non avevano potere carismatico nel mondo industriale. Ma l’economia industriale italiana in questo decennio ebbe anche un altro sviluppo, non patologico, nella piccola e media impresa, non solo del triangolo industriale, ma ora anche del Nord- Est e dell’Adriatico.

Anni Settanta, il capitalismo neo-corporativo

Dal 1971 al 1980 gli occupati nell’industria crescono del 12 per cento, ma, mentre aumentano gli occupati nelle imprese sino a 50 addetti, ristagnano quelli nelle imprese fra i 50 e i 500 e calano del 9,7 per cento quelli nelle imprese da mille addetti in su. In parte si tratta di un decentramento produttivo fisiologico, in parte spinto dalla pressione sindacale nelle maggiori imprese. In parte maggiore ciò si spiega con la dinamica del micro-capitalismo schumpeteriano dei distretti industriali. Una parte delle piccolo-medie imprese cresciute in fretta alla fine degli anni Sessanta, però, con i rincari dei costi del lavoro, era andata o stava andando in crisi e veniva accolta nella Gepi, inizialmente concepita come agenzia di ristrutturazione e rilancio industriale, che si era trasformata in un centro di economia assistita. Ma anche nella grande impresa la congiuntura internazionale difficile generava problemi critici. Così il primo governo della nuova legislatura, quello Andreotti, costituito da Dc, Pli e Psdi, con appoggio esterno del Pri con una maggioranza parlamentare del 52,8 per cento dei seggi, fu chiamato a fare le scelte di rigore richieste dai repubblicani. Ma la prova fallì. La lira dovette uscire dal serpente monetario europeo. E dopo breve tempo ritornò il centrosinistra, in cui per altro la grande industria non credeva più. Il premier Mariano Rumor non aveva gran polso. Nei primi cento giorni la troika economica con La Malfa al Tesoro, Colombo alle Finanze, e Giolitti al Bilancio operò bene. Ma intervenne la guerra del Kippur, il rialzo del prezzo del petrolio, la crisi finanziaria europea. La contestazione seguitava, anzi si accresceva. L’economia italiana, come ebbi a dire allora in un convegno manageriale, si trovò, così, a un bivio. Fare ingresso nel modello di una moderna democrazia industriale europea, basata su regole del mercato e su una coerente politica fiscale e dei redditi, oppure illudersi con un “diverso modello o meccanismo di sviluppo”, quale quello che nebulosamente prospettavano il Pci di Berlinguer e la sinistra democristiana che con esso simpatizzava. Che era in realtà, un modello neo-corporativo, in cui i comunisti avrebbero garantito l’ordine sociale, in cambio della partecipazione al potere, con un accordo parlamentare organico e soprattutto tramite il sindacato unitario, da loro controllato, che veniva ammesso alle decisioni di politica economica.

Nel 1974 avvenne la svolta verso i comunisti. La Confindustria presieduta da Giovanni Agnelli siglava con i sindacati, nel gennaio 1975, l’accordo sul punto unico di contingenza, sponsorizzato dai comunisti. E il sistema capitalistico italiano imboccava la via del dirigismo. La spesa pubblica aumentava, mentre la pressione fiscale non si accresceva di altrettanto. L’onere del debito pubblico veniva però occultato mediante il suo acquisto da parte della Banca Centrale. Questa, per poter reggere al peso, aveva stabilito, d’accordo con il governo, un tetto al credito totale all’economia: che pertanto veniva razionato dal sistema bancario. Nel 1976 veniva reintrodotto il controllo dell’esportazione dei capitali, con pene severe per chi avesse costituito disponibilità valutarie all’estero. L’inflazione, che nel 1972 era al 5 per cento, nel 1973 era salita al 9, nel 1974 al 16. I bilanci delle imprese erano, pertanto, pressoché illeggibili. L’economia industriale si sviluppava in un clima di capitalismo drogato e distorto in cui, mentre Enrico Berlinguer e Claudio Napoleoni teorizzavano l’austerità, in realtà i consumi aumentavano sotto la spinta dell’aumento dei benefici pensionistici, della protezione della scala mobile, che inizialmente doveva proteggere solo il salario minimo ma venne estesa a ogni parte della retribuzione dei lavoratori privati e pubblici, dei deficit dei servizi pubblici e dell’assunzione assistenzialistica da parte dei lavoratori delle imprese private in crisi delle imprese pubbliche e della Gepi. Negli anni Settanta la sola Iri acquisì 55 imprese e ne cedette 18. Anche i pensionamenti anticipati, riguardanti le ristrutturazioni di grandi imprese, venivano finanziati dallo Stato. Frattanto le imprese pubbliche, che in precedenza avevano obbedito a criteri di economicità, oramai finanziavano i propri investimenti con il ricorso a fondi di dotazione statali e spesso ricorrevano allo Stato per il ripiano delle perdite.

Si costruivano, nel Mezzogiorno, le cosiddette “cattedrali del deserto” della chimica di base e della siderurgia. Il tasso di crescita del Pil, con queste droghe e distorsioni, rimase elevato: +3 per cento, nel 1973, l’anno della crisi petrolifera, +5,4 per cento l’anno successivo, -2,8 per cento nel 1975 in relazione alle esigenze di stabilizzazione, ma ancora +8 per cento nel 1976, +4,2 per cento nel 1977 e poi +5,4 per cento nel 1978 e +6,8 per cento nel 1979, anno elettorale. Indi tre anni magri (con un +3,1, un +1,6 e un +0,73 di crescita del Pil) nei quali questo modello artificioso entrò in crisi, in parte per proprie ragioni di insostenibilità, in parte per il mutamento che cominciava a delinearsi nel quadro politico. Frattanto l’Iri era passata da 357mila addetti nel 1970 a 557mila nel 1980. L’Eni da 65mila a 123mila. Contando gli addetti alle Poste, alle Ferrovie, alle municipalizzate si arrivava a un milione di addetti nell’industria pubblica, mentre il sistema delle banche era, anche a prescindere da quelle dell’Iri (Comit, Credito Italiano, Banco di Roma), tutto pubblico (Bnl, Imi, Crediop, Banco di Napoli, Banco di Sicilia, Mediocredito Centrale eccetera) o sotto il controllo pubblico (Casse di Risparmio, Monte dei Paschi di Siena, San Paolo di Torino).

Questa epoca, però, non si può denominare tanto di economia mista quanto di capitalismo neo-corporativo ibrido: con la Montedison controllata dal 1971 ufficialmente dal gruppo Eni, ma in realtà da Mediobanca, imprese private come la Sir, finanziate interamente da banche pubbliche a medio termine come l’Imi; grandi imprese come la Fiat, che aveva potuto ottenere la svalutazione della lira, nel 1975, per riacquistare competitività sul mercato internazionale. Tutti fruivano, a vario titolo, di crediti agevolati.

Nel 1977, nella “Relazione sullo stato dell’industria italiana”, che costituiva il documento programmatico della nuova politica industriale dirigista, si presentava il seguente quadro. La legge 464 del 1972, nel 1977, aveva erogato la sua intera dotazione di 813 miliardi. La legge 183 del 1976 di incentivazione delle imprese del Nord aveva appena stanziato 1120 miliardi. La legge 675 del 1977 di riconversione e ristrutturazione industriale, che aveva introdotto un modello di dirigismo industriale selettivo basato su piani di settore, concordati fra governo, industriali e sindacati, che a me parve neo-corporativo, era stata dotata di 4560 miliardi. La legge di incentivazione delle industrie del Mezzogiorno 853 del 1971, dotata di 3920 miliardi era stata interamente utilizzata e la nuova legge 183 del 1976 aveva stanziato 5980 miliardi.

L’Imi, dal 1971, aveva ricevuto a vario titolo 1060 miliardi, come apporto statale, per i suoi crediti agevolati. E circa 1500 miliardi erano stati stanziati presso il ministero della Marina Mercantile per credito navale e cantieristica, di cui 900 ancora a disposizione. Secondo il Bianchi (2002) i fondi disponibili nel 1977 consentivano un totale di 25mila miliardi di incentivazioni industriali, sotto forma di crediti agevolati e contributi in conto capitale.

La crisi del neo-corporativo

Per dare un’idea dell’importanza di questa cifra, basta considerare che il Pil del 1977, a prezzi correnti, era 214mila miliardi. Il boom di investimenti nel Mezzogiorno a ciò connesso generò la crescita abnorme di settori come la chimica di base e intermedia e la siderurgia. Ne susseguirono rovinose chiusure, come quella del centro siderurgico di Bagnoli, della Liquichimica di Raffaele Ursini, della Sir di Rovelli, assorbiti nel 1982 dall’Enichem, che li smantellò, anziché rilanciarli, depurati dai doppioni, non essendo interessata alle innovazioni tecnologiche nella chimica ed avendo altri problemi di riorganizzazione nel settore petrolifero, in cui aveva assorbito il gruppo Monti, accollandosi mille miliardi di debiti. Il Bianchi, circa la politica industriale degli anni neo-corporativi, osserva che “la nuova fase di programmazione democratica, come si chiamava allora, implicò un processo continuo e defatigante di mediazione e concertazione trilaterale – governo, forze sindacali e forze imprenditoriali – ad ogni livello e per ogni materia in un contesto in cui, alla fine, il processo di decisione politica veniva demandato alla negoziazione di quegli stessi interessi che si intendevano regolare”.

Ma ciò non serviva neppure alla pace sociale. Nel 1979, a causa degli scioperi, la Fiat perse una produzione di 200mila autovetture e chiuse in rosso con 200 miliardi di lire di perdite operative. Il tasso di assenteismo oscillava fra il 15 e il 20 per cento. La produttività era scesa a un po’ meno di due terzi di quella tedesca. Le Brigate Rosse, nel frattempo, avevano ferito 27 dirigenti Fiat e, il 21 settembre del 1970, l’ingegner Ghiglieno, capo della programmazione auto, era stato ucciso a rivoltellate in una strada di Torino. Seguì il licenziamento di 61 operai sospettati di legami con il terrorismo. Grandi scioperi di protesta: Berlinguer si recò ai cancelli di Mirafiori, per sostenerli e sponsorizzarli. Ma la marcia dei quarantamila quadri e capi operai Fiat per il ritorno all’ordine in fabbrica segnò la fine del modello del capitalismo ibrido neo-corporativo. Iniziava, faticosamente, il ritorno al mercato.
La prima rottura fra la grande industria e il “nuovo modello di sviluppo” avvenne nel dicembre del 1978: quando l’Italia dovette votare per lo Sme, il Sistema monetario europeo, un regime di cambi quasi fissi, preludio della moneta unica europea. I comunisti votarono contro mentre i socialisti, alla cui guida era giunto Bettino Craxi, si astennero, rendendo possibile l’adesione italiana. La maggioranza parlamentare per lo Sme contrastava con la formula di governo, che aveva dominato negli anni Settanta e con le aspirazioni europee del capitalismo italiano.

Anni Ottanta, il neo-capitalismo finanziario

Il grado di apertura internazionale dell’economia italiana dato dalla somma delle importazioni ed esportazioni in rapporto al Pil che era del 35 per cento nel 1970 era diventato del 40 per cento nel 1980. La grande industria privata italiana puntava su un nuovo centro-sinistra moderato, formato dal pentapartito Dc, Psi, Psdi, Pri, Pli. Il partito preferenziale del raggruppamento di Mediobanca, dominato dalla Fiat era, come nel passato, quello repubblicano, ora guidato da Giovanni Spadolini. Il legame della grande industria con i liberali era invece sempre più esile. La sua vocazione, in effetti, non era quella di una economia di mercato liberale, anche se, oramai, aspirava a una dimensione di mercato europeo e a regole di capitalismo europeo. Il mercato azionario, il capitalismo popolare dei fondi di investimento, la public company erano aliene dalle aspirazioni del capitalismo italiano. Esso si ispirava al modello renano, del legame finanziario fra industria e banca. Il finanziamento dell’investimento veniva affidato principalmente all’autofinanziamento e al credito bancario, mediante quello ordinario e quello a medio e lungo termine, in cui il ruolo bancario dello Stato rimaneva dominante, tramite l’Imi, il Mediocredito centrale e altri Istituti.

Dopo un periodo di transizione, rinasceva il centro-sinistra, nel 1981, con il governo Forlani, cui succedettero due governi Spadolini e poi, dal 1983 al 1987, i due governi Craxi. L’Italia tornava al sistema di mercato, pagando, per altro, un prezzo altissimo per il divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia, che comportò un balzo del debito pubblico, prima sommerso. E per l’abolizione della scala mobile, che comportò la rinuncia al controllo della spesa pubblica, resa difficile, del resto, dal voto segreto sul bilancio e sulla legge finanziaria, abolito solo nell’ottobre del 1988, dopo una dura battaglia contro l’opposizione comunista. Inoltre venivano al pettine i nodi dell’errata politica industriale degli anni Settanta.

Nel quinquennio 1980-84 i governi versarono a Iri, Eni, Gepi, Efim ben 22.130 miliardi, a fronte di perdite consolidate di 19mila. La quota dell’Iri fu di 15.230 miliardi: esso aveva perso 3.700 miliardi nel biennio 1979-80 e ne perse altri duemila annui nei seguenti cinque anni. L’Enel nel triennio 80-82 ricevette 6.600mila miliardi, di cui 5mila per ripiano di perdite, essenzialmente dovute alla politica di tariffe sotto costo, rivolte ad evitare gli scatti di scala mobile. Tutto ciò rallentò la politica di risanamento del bilancio, generando una ulteriore crescita del debito pubblico. Ma la grande industria italiana si andava risanando. Nel 1986, l’Iri torna in attivo. La Fiat presenta un utile record di 2360 miliardi. L’Eni, tornato all’utile nel 1985, con la presidenza di Franco Reviglio, diventava sempre più una compagnia chimico-petrolifera multinazionale, liberandosi degli altri settori. Non riusciva però a decidersi sulla chimica di base e intermedia, estranee al suo core business. Nel 1981 la Montedison passa sotto Gemina, holding finanziaria privata controllata da Mediobanca, Fiat, Pirelli, Bonomi (BiInvest) e altri. Amministratore delegato è Mario Schimberni. Snia della Montedison, con la sua chimica militare passa al gruppo Fiat. Nel 1986 l’Iri cede alla Fiat l’Alfa Romeo. Nel 1984 Gemina conquista il gruppo Rcs. Nel 1985 Schimberni scala BiInvest e poi con questa Fondiaria controllata da Mediobanca, cercando di fare della Montedison una public company slegata dalle banche. Gemina esce da Montedison.

Nell’ottobre il tentativo di Mario Schimberni di fare della Montedison una public company, con un azionariato diffuso subisce una svolta. Raul Gardini acquisisce, per il gruppo Ferruzzi, il 14,5 per cento delle azioni Montedison. Passerà in un anno al 40 per cento. Schimberni viene dimissionato. Nel 1988, la Fiat allontana il manager Vittorio Ghidella: prevale così la strategia finanziaria di Romiti, che punta al conglomerato multinazionale e trascura l’auto.
Nel 1989 l’Eni e la Montedison-Ferruzzi creavano un ibrido del settore chimico e chimico petrolifero, denominato Enimont, con proprietà paritetica. Una insensata architettura in cui la finanza dei conglomerati prevaleva sulla managerialità. Alla fine del 1990, l’intero gruppo, dopo due anni di scontri, passerà all’Eni, ma anche la Montedison-Ferruzzi era oramai al dissesto, essenzialmente a causa dei limiti del modello organizzativo. E altrettanto il gruppo Olivetti, che non aveva puntato abbastanza sull’innovazione tecnologica concentrata in un core business e si era dispersa in molteplici avventure. Nel ’92 crolla, sotto ingenti perdite, l’Efim, holding elettromeccanica con alcune brillanti imprese di tecnologia avanzata, privo di core business e disperso in disparate avventure.
Tuttavia gli anni Ottanta non furono affatto negativi per il capitalismo italiano, perché in esso si sviluppò il nuovo modello di capitalismo schumpeteriano del made in Italy, che oggi costituisce, assieme ai distretti industriali diffusi in tutta Italia, l’asse portante e la punta di diamante internazionale. Imprese di nuovo capitalismo come Armani, Ferrero, Barilla, Luxottica di Del Vecchio, Merloni, Benetton, Riva, Lucchini, Techint, Caltagirone crescono negli anni Ottanta e si affermeranno negli anni Novanta, come la nuova realtà di neo-capitalismo manageriale, inserita nei mercati globali.

Anni Novanta, compradores e politica

Un altro discorso si deve, a questo punto aprire su quel che è successo, negli anni dal 1992 in poi, con le privatizzazioni e le liberalizzazioni accompagnate da licenze a nuovi gestori, che hanno dato vita o stimolo al neo-capitalismo dei compradores. Il primo grande episodio fu la cessione della Sme nel 1993, che ebbe inizio quando al vertice dell’Iri c’era Franco Nobili, che la offrì, mediante gara, in tre parti: Italgel, Cirio Bertolli De Rica, ossia CBD e Gs Autogrill. Per la CBD erano in lizza Eridania-Ferruzzi, Parmalat, Cragnotti, Granarolo, Unilever e Fisvi, una finanziaria di cooperative meridionali capeggiata da Carlo Saverio Lamiranda “politicamente vicino alla Dc ed economicamente vicino a Cragnotti. Pardon, alias Cagnotti”.

Non sappiamo cosa sarebbe accaduto se Nobili, frattanto arrestato per presunti reati di tangentopoli (da cui fu poi assolto), fosse rimasto presidente dell’Iri. Al suo posto subentrò nuovamente Romano Prodi. “A sorpresa la Fisvi si aggiudicava la CBD sbaragliando forti concorrenti tipo Unilever. Ma le sorprese non finiscono qui. Lamiranda annunciava che avrebbe girato la Bertolli ad Unilever e che avrebbe costituito una nuova società per allearsi con Sergio Cragnotti, braccio destro di Raul Gardini oppure con Calisto Tanzi, amico di De Mita”.

Dunque, in realtà Lamiranda era il brasseur di Unilever, di Cragnotti e di Tanzi. Romano Prodi, poco prima di ridiventare presidente dell’Iri, era stato consulente di Unilever, la società che avrebbe ottenuto la Bertolli dalla Fisvi di Lamiranda, a sua volta vincitrice della gara per CBD. L’acquisto diretto della CBD da parte di Unilever avrebbe potuto essere suscettibile di critiche. Quanto al duo Cragnotti-Tanzi, i loro interessi e destini di parvenu del capitalismo dei compradores politicizzati, si presentavano già allora intrecciati. “Lamiranda e Cragnotti si allearono e costituirono la Sagrit destinata a contenere la CBD [...]. Alla fine, dopo una giostra di passaggi, la Bertolli passava alla Unilever, Lamiranda cedeva a Cragnotti la sua quota di Sagrit e la Cirio andava a finire sempre a quest’ultimo”. L’Iri incassò dalla privatizzazione di CBD la cifra di 310 miliardi. La cessione di Italagel a Nestlé, fruttò invece 703 miliardi. Ed una cifra di 740 fu ottenuta con la vendita di Gs (supermercati)-Autogrill al gruppo Benetton.

Il totale, ricavato dall’Iri, per la vendita della Sme, nel 1993, pari a 1753 miliardi è sembrato un affare, al confronto della cessione per circa 500 che Prodi aveva progettato nel 1985 e che non era andata in porto. Tuttavia “dopo avere comperato per 740 miliardi di lire il gruppo Gs-Autogrill la cordata Benetton si disfaceva, nel giro di tre anni, dei settori Gs-supermercati che venivano comperati dalla francese Carrefur alla “modica” somma di 5000 miliardi di lire, mentre ai Benetton restava la proprietà di Autogrill, Pavesi, Ristorante Ciao, Motta ed Alemagna, oltre a tante altre aziende immobili, per un valore pari a 1500 miliardi. A conti fatti, la cordata Benetton avrebbe realizzato oltre cinquemila miliardi di lire. Si badi che i conti in tasca ai Benetton sono stati fatti dagli esposti arrivati alla Procura di Perugia, via la Procura di Salerno”. Calisto Tanzi ha sostenuto, nel gennaio del 2004, che l’acquisto gli fu imposto, a quel prezzo, da Capitalia, guidata da Geronzi. Ma il prezzo, considerato il potere di marketing del gruppo acquisito, era di tutta convenienza. E semmai, metteva in luce come le privatizzazioni che avevano dato origine a Eurolat di Cirio fossero state a suo tempo fatte a prezzi molto buoni per l’abile Cragnotti. Eurolat di Cirio, nel 1997, fatturava 1280 miliardi di lire ed era leader del latte fresco.

Cirio e Parmalat: gli errori di Cragnotti e Tanzi

Parmalat nel 1997, fatturava, nel settore latte in Italia 1230 miliardi di lire, prevalentemente nel prodotto a lunga conservazione. Il suo fatturato complessivo italiano era di 2174 miliardi di lire. Con Eurolat, dunque, Parmalat fece, sul mercato nazionale del latte, un salto non solo dimensionale, ma qualitativo di natura fondamentale. Divenne impresa leader nel latte, non solo di lunga conservazione, ma anche fresco, così potendo giustificare in termini di marketing, anche le attività collaterali nelle bevande, che andavano negli stessi negozi. L’errore di Cragnotti, che vendette bene ciò che aveva comperato a prezzi di saldo, fu di avventurarsi in acquisti internazionali, anziché usare la liquidità per ridurre la sua esposizione bancaria eccessiva. L’errore di Tanzi fu, analogamente, di non concentrarsi su questo core business e di buttarsi a capofitto in compere di imprese internazionali a debito.

Alcuni compradores, come il gruppo Olivetti della Cir di Carlo De Benedetti tramite Omnitel, poi rivenduta, sono riusciti a salvarsi dal naufragio. Altri come Benetton, sono riusciti a insediarsi stabilmente nel settore dei servizi e delle gestioni autostradali. Altri come Pirelli, mediante la acquisizione di Telecom, dopo il duplice passaggio a Fiat e a Olivetti scalata da Colaninno, sono riusciti a riconvertire il core business da quello della gomma e dei cavi a quello della Telefonia.

Per la Fiat la storia è opposta. Dal 1996 quando Gianni Agnelli, lasciava la presidenza di Fiat Holding, la Fiat si lanciò nella diversificazione dall’auto, con ambiziosi acquisti a vasto raggio, a debito. Ha acquisito una quota importante di San Paolo Imi e fallito, nel 1999, il tentativo di controllo di Telecom Italia, mediante l’acquisto di un pacchetto di minoranza, nel 2001, è entrata come uno dei principali partner, con Electricité de France, in Italenergia Spa, controllante di Edison Spa, che, con le privatizzazioni, è diventato il più importante operatore privato nel settore dell’energia elettrica in Italia. Da “non solo auto”, Fiat stava per passare a “non più auto”, con l’accordo con General Motors che, in cambio del 20 per cento del pacchetto azionario di Fiat auto, si impegnava a rilevarne nel 2004 il resto.

La Fiat però nel 2002 è quasi andata al collasso. Nel 2003, Umberto Agnelli ha dismesso imprese in precedenza acquistate ma non considerate essenziali, onde ridurre l’indebitamento e ha di nuovo puntato sull’auto con manager capaci. Ora la Fiat, tornata al core business, si sta riprendendo bene. Questa parabola è emblematica dell’indirizzo che dovrebbe prevalere, nel capitalismo italiano, dopo che la parte più rampante e politicizzata dei compradores della Seconda Repubblica è caduta in frantumi. Purtroppo non è caduta da sola, ha coinvolto duecentomila risparmiatori che hanno perso le loro obbligazioni.

Caduto, con i crac degli anni Settanta e poi con tangentopoli, il sogno del polo chimico, negli anni Novanta, la grande industria italiana, intenta ad acquistare più che a creare, non si è dedicata ai settori di punta delle innovazioni tecnologiche.

30 marzo 2004

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