Globalizzarsi o perire
di Michele Bagella
da Ideazione, marzo-aprile 2004

Si discute molto negli ambienti politico-finanziari se il 2004 sarà un anno di ripresa per la economia italiana oppure no. Essendoci varie scadenze elettorali alle porte, sapere se il tasso di crescita del Pil sarà maggiore o minore della previsione del governo, è una notizia più politica che economica, come pure lo sono le notizie provenienti dalle inchieste sui crac della Parmalat e della Cirio. Nel “botta e risposta” che si è creato tra governo e opposizione sulle interpretazioni e responsabilità nei fallimenti in corso, l’opinione pubblica assiste perplessa e sembra avere difficoltà a metabolizzare il senso delle polemiche, travolta com’è day by day da notizie negative a cascata, ora sugli scioperi selvaggi, ora sull’inflazione, ora sulle pensioni, ora sui tanti temi delle riforme istituzionali. A queste si sono aggiunte quelle sui bonds in caduta libera, e dire che c’è disorientamento, è un modo per cercare di non drammatizzare oltre il dovuto.

Una possibile via per dare un senso a ciò a cui assistiamo può essere forse quella di fare un passo indietro. Bisogna cominciare col chiedersi se e come i cambiamenti intervenuti nel decennio appena finito hanno modificato, se lo hanno fatto, i modi di pensare e di comportarsi degli italiani. Di cambiamenti infatti ce ne sono stati tanti, e la chiave per capire il presente sta proprio qui. Un dato di fatto che spesso si sottovaluta è che con la caduta del muro di Berlino si è aperta una nuova stagione di scontro ideologico. Chi pensava che la politica sarebbe rapidamente cambiata, non ha percepito subito che al dualismo socialismo/capitalismo se ne sarebbe sostituito presto uno nuovo, meno netto e più confuso: capitalismo sì/capitalismo no, e che le ragioni storiche di tale antagonismo si sarebbero tradotte in nuove pregiudiziali, tanto care al mondo latino e italiano in particolare. Così i programmi di riforme annunciati vengono valutati esasperando le polemiche “da destra” e “da sinistra”, in molti casi senza che si capisca l’effettivo peso della loro importanza, se non dal punto di vista di acquisizione o difesa di posizioni di potere. Siamo molto distanti da quel pragmatismo anglosassone che sarebbe stato assai utile in questa fase se si fosse affermato come la base ideologica della nuova politica economica. Insomma non siamo divenuti, almeno finora, né “americani” né “inglesi”.

Oggi, se in Europa e in Italia il ciclo stenta a ripartire, è perché vi sono ostacoli ancora insuperati che vengono percepiti non come tali, ma piuttosto come la “trincea” da difendere per salvaguardare questo o quel privilegio. Poco si parla di liberalizzazioni, poco si parla di mercati efficienti, poco si parla di integrazione internazionale. Persino l’euro viene messo in discussione, quando la sua introduzione è stata una conquista per favorire la stabilità e lo sviluppo. La sensazione è che si dia scarso peso a tutto ciò, e che si privilegi la critica di parte. Frutto di una visione della economia con poco mercato o del tutto anticapitalistica diffusa tra i cittadini? Forse sì. Non si notano dialettiche convergenti tra governo e opposizione miranti ad ottenere risultati condivisi almeno in principio da questo o quel provvedimento. Piuttosto si assiste a strumentalizzazioni delle misure proposte, indipendentemente dal loro impatto sulle performance economiche. Continuiamo a vivere nella transizione, mentre altrove la crescita economica è ripresa, Stati Uniti in testa. Che il ritardo europeo e italiano su reddito e occupazione si intrecci con le questioni strutturali e sistemiche degli assetti istituzionali non è una novità, anzi non lo è mai stata né nella teoria economica né nella azione pubblica nel nostro paese. Ma nella fase attuale tale combinazione assume una rilevanza maggiore che in passato per via della esposizione più forte della nostra economia alla concorrenza internazionale. In pochi però ne sembrano consapevoli.

Nel nuovo scenario geopolitico della globalizzazione il nostro sistema economico va avanti con fatica. Permangono punti di debolezza, alcuni dei quali storici, tra cui il Mezzogiorno, mentre altri dipendono da riforme non adeguatamente avviate in passato che hanno determinato cali preoccupanti di competitività. Inoltre, sono venuti meno alcuni dei pilastri fino a ieri fulcro della nostra crescita, come la grande impresa che tanto ha dato allo sviluppo economico del paese nel secolo appena finito, mentre la espansione della piccola non sembra adeguarsi bene al nuovo contesto. Soffre, si dice, di nanismo, che mal si presta alle aggregazioni internazionali e alla presenza su mercati lontani se non a costi elevati e a rischi corrispondenti.

Nel settore finanziario con gli anni Novanta è finita l’epoca della banca specializzata ed è cominciata quella della banca universale, con i conflitti di interesse tra banca e impresa che tendono ad aumentare in maniera patologica. Correlativamente è finita l’epoca della banca pubblica ed è iniziata quella della banca privata, con l’entrata di nuovi intermediari internazionali nella proprietà e il sorgere di lotte di aggregazione, domestiche e non, per poter contare di più. Nonostante gli incentivi introdotti dal Testo unico sulla finanza (Tuf), le imprese, specie quelle medie, non si sono fatte coinvolgere più di tanto nel mercato del capitale di rischio. Caratterizzate come sono da una forte propensione ad assetti proprietari di tipo familiare, in poche hanno preferito quotarsi in borsa per cercare di ridurre l’indebitamento bancario. Infine, c’è l’introduzione dell’euro e la partecipazione dell’Italia alla Unione monetaria europea, che ha fatto venire meno il modello nazionale di promozione delle esportazioni, via svalutazione del tasso di cambio, e aperto l’economia a una dose più forte di penetrazione dei nostri mercati da parte di operatori esterni.

Senza trascurare l’importanza delle riforme della scuola, della università e della pubblica amministrazione: mettendo tutto insieme, si avverte che la economia e il capitalismo italiano sono ad una svolta decisiva. O entrambi si adeguano, oppure c’è un rischio serio di un declino più o meno lento. La riflessione che segue tenta di fissare qualche idea sul processo in corso. In primo luogo descriveremo i cambiamenti proprietari avvenuti nel settore bancario e finanziario e i loro riflessi sulla economia e sulla politica. Quindi passeremo alla evoluzione della struttura industriale e alle sue conseguenze sulla competitività. Infine analizzeremo il futuro del nostro capitalismo, e la collocazione dell’Italia nei nuovi equilibri mondiali.

Poca Borsa molta Mediobanca

I rapporti banca impresa sono oggi molto criticati. Fin quando la legge del ’36 – la legge bancaria per eccellenza – era in vigore vigeva la separazione totale tra banca e industria: le imprese non potevano partecipare al capitale delle banche, così come le banche non potevano partecipare al capitale delle imprese. Questa rigida divisione nasceva da fatti storici drammatici accaduti agli inizi degli anni Trenta, che avevano visto le banche miste di allora, così si chiamavano, entrare in crisi a seguito della svalutazione del proprio attivo costituito da partecipazioni industriali. Era allora intervenuto lo Stato tramite l’Iri a ricapitalizzare la Banca Commerciale Italiana, il Credito Italiano e la Banca di Roma, che da allora sono entrate a fare parte della galassia crescente, specie dagli anni Sessanta in poi, delle partecipazioni statali. Dopo la guerra queste banche escluse dal circuito degli affari e relegate nello stretto cunicolo del credito commerciale hanno dato vita a una banca di credito a medio termine, Mediobanca. Da allora, era il 1949, essa è divenuta la numero uno in Italia come banca di affari, visto che per statuto le veniva consentito non solo di fare credito di investimento ma anche di detenere partecipazioni azionarie, che erano lo strumento per avere più facile accesso alle informazioni societarie. Molti dei cambiamenti avvenuti nel capitalismo italiano sono passati per via dei Filodrammatici la sede storica di Mediobanca.

Dalla nazionalizzazione della Edison alla ristrutturazione della chimica, ai nuovi assetti della Fiat e della Olivetti, negli ultimi quarant’anni questa banca è stata l’ago della bilancia di molte ristrutturazioni proprietarie. All’inizio della sua attività essa condivideva questo ruolo con Efibanca, banca nata prima della guerra e che nel dopoguerra era diventata una leva finanziaria soprattutto per le piccole e medie imprese con vocazione all’esportazione. Il suo statuto molto simile a quello di Mediobanca le consentiva di avere partecipazioni azionarie e di svolgere un ruolo importante nella organizzazione di finanziamenti rivolti soprattutto alle imprese lombarde e piemontesi dei settori meccanico e tessile. Fintanto che Cesare Merzagora ne è stato presidente, prima di diventare presidente del Senato agli inizi degli anni Cinquanta, Efibanca ha avuto una funzione preminente soprattutto nel favorire i rapporti delle imprese italiane con l’America. In quegli stessi anni in Mediobanca un altro personaggio storico, Enrico Cuccia, ne faceva crescere la reputazione negli ambienti finanziari nazionali ed europei, specie francesi, reputazione che è divenuta rapidamente di leadership dopo che Efibanca e gli altri istituti di credito hanno abbandonato la attività di merchant banking.

La nuova impostazione data allora al sistema finanziario italiano, fortemente bancocentrica, prevedeva la nascita dei Mediocrediti regionali, e lasciava al credito il compito di finanziare gli investimenti. Il ricorso al capitale di rischio veniva lasciato senza alcun incentivo, tant’è che progressivamente i risparmiatori si sono allontanati dalla Borsa, la cui attività è andata sempre più riducendosi. Non vi era allora alcuna autorità di controllo della Borsa, contrariamente a quanto accadeva negli Usa, dove già negli anni Trenta era stata costituita la Sec, la Security exchange commission. In Italia la Consob verrà costituita a metà degli anni Settanta e solo dieci anni dopo verrà emanato il suo regolamento di attuazione. Così il nostro sistema ha finito per fondarsi unicamente sui finanziamenti bancari, mentre la Borsa è divenuta un piccolo mercato in cui agivano i pochi attori storici della grande industria italiana, spesso accompagnati nelle loro operazioni di mercato da Mediobanca, il cui CdA veniva indicato per questa ragione come “il salotto buono della finanza italiana”.

Nel sistema finanziario italiano la centralità del credito, diviso tra banche ordinarie e istituti di credito speciale, è andata avanti fino agli inizi degli anni Novanta. Tale sistema ha fatto sì che le banche divenissero il collettore della finanza esterna dello Stato e delle imprese, favorite da un regime di proprietà pubblica. Non essendovi la possibilità di acquistare attività estere, i risparmiatori sono stati incentivati da rendimenti elevati ad acquistare i titoli di Stato, e da mancanza di alternative interne, sia di carattere finanziario sia di carattere reale. Il circuito finanziario nazionale faceva sì che i flussi di risorse intermediati dalle banche affluissero agli operatori pubblici e privati che li rimettevano in circolo con la loro spesa. Due eventi hanno incrinato questo meccanismo: la liberalizzazione dei mercati finanziari e la adesione dell’Italia al Trattato di Maastricht. Con la liberalizzazione finanziaria ha avuto inizio un cambiamento strutturale del sistema finanziario italiano: potendo i risparmiatori italiani investire in azioni estere, i mercati di borsa di tutto il mondo sono divenuti per essi interessanti ed accessibili.

Contemporaneamente la volontà dell’Italia di entrare fin dall’inizio, previsto alla fine degli anni Novanta, a far parte dell’Unione monetaria europea ha messo in moto una profonda revisione delle politiche di bilancio, per rispettare i parametri di ingresso nell’Ume. In presenza di tassi di inflazione calanti sono progressivamente diminuiti i tassi di interesse, e diminuendo il vantaggio di acquistare Bot e Cct, è cresciuta la propensione da parte degli investitori a detenere attività finanziarie estere. Queste novità hanno fatto emergere l’esigenza di rafforzare il mercato finanziario nazionale agendo su due fronti: trasformando le banche pubbliche in Spa e cambiando la legge bancaria. Sotto la minaccia della concorrenza estera – ed in particolare di quella tedesca – le cui banche potevano fare qualunque tipo di operazione, si è consentito alle banche italiane di adeguarsi a questo modello e di avere anche partecipazioni azionarie, e di essere a loro volta partecipate da società non finanziarie. Si è trattato di un profondo cambiamento strutturale che ha aperto la strada alle questioni di cui oggi molto si discute, il conflitto di interessi tra banche e imprese e le fusioni e acquisizioni.

Per poter essere più competitivi a livello europeo innanzitutto si è favorita la creazione di grandi gruppi bancari-finanziari. La Banca d’Italia ha monitorato questi processi consentendo che le aggregazioni tra banche nazionali non fossero l’occasione per l’acquisizione del loro controllo da parte di banche estere. Ciò ha portato alcuni a pensare che in tal modo si limitava la concorrenza nel settore bancario e non si rispettava lo spirito di libertà insito nei Trattati europei. In verità, questo atteggiamento non è stato solo della Banca d’Italia ma anche delle altre banche centrali europee che hanno sempre ostacolato acquisizioni di banche importanti da parte di operatori di altri paesi. Da questo punto di vista a livello europeo siamo rimasti indietro. Nonostante sia stato liberalizzato il movimento dei capitali, non si è fatto molto per liberalizzare la proprietà e il controllo. Cosicché oggi assistiamo ancora a forme di “barriere all’entrata” nel settore bancario e assicurativo, che difficilmente saranno superate senza un accordo specifico tra i paesi dell’Ue. Il settore viene infatti considerato strategico e come tale viene trattato. Senza passi avanti verso l’unione politica è difficile immaginare che i governi siano disposti a mettere in discussione la proprietà dei loro sistemi finanziari. C’è tuttavia da osservare che nonostante tutte le difficoltà, la integrazione dei mercati finanziari va avanti, e prima o poi sotto la sua spinta l’evoluzione dei gruppi bancari nazionali verso gruppi bancari europei avverrà. Le modalità di questo processo si capiranno più avanti. L’importante è muoversi di conseguenza.

I conflitti d’interesse banche-imprese

Sui conflitti di interesse tra banche e imprese c’è da aggiungere che essi sono insiti negli stessi rapporti societari. Il problema non è impedire i legami proprietari tra banca e impresa, ritornando indietro alla legge del ’36. Semmai vanno impediti comportamenti che possono rivelarsi dannosi per gli azionisti sia attraverso forme di autoregolamentazione che attraverso nuove forme di controllo. La revisione del diritto societario in funzione di una maggiore tutela dei piccoli azionisti, il rafforzamento dei controlli sui bilanci bancari, nonché le nuove norme relative ai requisiti di capitale richiesti alle banche dai nuovi accordi di Basilea vanno in questa direzione, e nell’insieme mettono in evidenza come il sistema finanziario europeo, e non solo italiano, stia divenendo molto di più “orientato al mercato” di quanto lo fosse in passato. Spingono in questa direzione la maggiore concorrenza e la maggiore efficienza, che per le banche significano non solo nuovi metodi di gestione ma anche una proprietà capace di fare della banca una impresa. Da questo punto di vista le banche italiane si stanno muovendo intelligentemente, utilizzando una classe di banchieri-managers che in questi ultimi anni ha dato in generale buona prova di sé.

Resta ancora da vedere come emergerà (semmai accadrà) una classe di banchieri-proprietari, e, altro punto critico, se e come il nostro sistema bancario si internazionalizzerà. Non si può infatti pensare a un sistema incapace di accettare la sfida competitiva nei mercati almeno dell’Europa allargata. Pur non ipotizzando sviluppi eccezionali, vista la limitata esperienza dei nostri intermediari nell’international banking, è nel campo del merchant banking e dei servizi finanziari, specie nei nuovi paesi aderenti all’Unione, che si gioca il futuro del sistema finanziario italiano. Si tratta di uno sviluppo complesso che richiede una valutazione più efficace del passato delle opportunità di investimento in queste aree e del contributo che possono dare le imprese del nostro paese. Come si dirà più avanti, banca e impresa devono muoversi insieme per avere maggiori probabilità di successo.

Piccole e medie imprese nei mercati globali

Guardando al futuro dal lato delle imprese, sono due i cambiamenti più significativi da ricordare: l’assottigliarsi del numero dei grandi gruppi e la tendenza al “nanismo” delle imprese. Che le piccole imprese siano una risorsa della economia italiana e che abbiano funzionato da ammortizzatore sociale è un dato di fatto. Ma lo è anche quello che la piccola dimensione non è spesso sufficiente a fare fronte alla concorrenza. In un ambiente economico caratterizzato dalla apertura dei mercati, i settori manifatturieri cosiddetti “maturi” soffrono di fronte a una concorrenza di prezzo difficile da battere. Vi sono paesi come la Cina in cui il costo del lavoro è il 10 per cento di quello medio europeo e la cui produzione gode inoltre di vantaggi sia dal lato del credito che dal lato delle normative che spesso non tutelano come dovrebbero i diritti di proprietà.

Marchi e brevetti che in Occidente vengono rispettati, lo sono molto di meno in Cina, le cui esportazioni vanno limando le quote di mercato delle nostre imprese. Le Pmi italiane cercano di rispondere con la qualità e l’innovazione, ma soffrono. Lo si percepisce da studi e inchieste che rivelano lo stato di disagio del settore. Per non subire la concorrenza distruttiva dei paesi emergenti, le Pmi non possono permettersi di rimanere ferme ma devono reagire, valorizzando tutti i beni intangibili insiti nella loro storia di imprese appartenenti a distretti industriali. Beni intangibili sono quelli legati alla conoscenza, alla informazione e alla propensione alla cooperazione. Su di essi si possono costruire nuovi modelli di internazionalizzazione dei distretti che vedano le piccole e medie imprese in grado non solo di organizzare meglio la loro presenza sui mercati europei ma soprattutto nei paesi lontani dell’Asia e della America Latina.

Va da sé tuttavia che nel riadattamento del modello distrettuale alle dinamiche dei mercati globalizzati vanno fatte rientrare tutte le componenti di successo del distretto, a cominciare dalle società di servizi reali e finanziari. Le banche italiane devono accompagnare le iniziative di investimento del distretto, in modo tale che le imprese che lo compongono siano più indipendenti dalle difficoltà che spesso esse incontrano nei rapporti con le banche locali. Si tratta di intraprendere una strada di collaborazione che le veda consorziate non solo per promuovere i propri prodotti all’estero in una logica di cooperazione-competizione, ma anche per programmi di investimento nei semilavorati su cui basare il valore aggiunto del prodotto finale ottenuto in Italia con il design e la qualità delle rifiniture.

Modelli organizzativi simili sono già in corso di realizzazione. Si tratta di sostenerli e di diffonderli al fine di dare una risposta operativa alle difficoltà odierne. Per far crescere il capitalismo italiano nei settori di media impresa il passaggio strategico è l’internazionalizzazione. La grande impresa manifatturiera è anch’essa in difficoltà. La sua produzione di scala risente della concorrenza sul prezzo, resa ancora più complicata dalla rivalutazione dell’euro rispetto al dollaro. Gli investimenti in ricerca e innovazione rappresentano la non facile via di uscita nel medio termine, visto che in questi ultimi anni essi non sempre sono stati adeguati alla sfida competitiva, come anche lo è la promozione di nuove aggregazioni che abbiano come obiettivo la nascita di grandi gruppi, meglio se europei.

La presenza di gruppi industriali forti anche da un punto di vista finanziario è una condizione per affermarsi e per mantenere le quote di mercato. I grandi gruppi italiani sono oggi concentrati nelle public utilities, energia e telecomunicazioni e le loro attività crescono soprattutto in funzione della posizione dominante all’interno della economia nazionale. I settori manifatturieri invece sono in calo dopo il forte ridimensionamento della chimica, e le difficoltà della meccanica. Conclusa l’epoca delle svalutazioni competitive con l’avvento della moneta unica, la difesa delle quote di mercato passa attraverso l’aumento della produttività e della qualità. Entrambe richiedono oltre alla disponibilità di risorse da investire, capacità imprenditoriali e gestionali. Le imprese italiane hanno mostrato nella storia più recente di disporre di entrambe, e per quanto la competizione sia elevata riusciranno a farvi fronte se sapranno esprimere elevate doti di imprenditorialità e di capacità di assumersi rischi all’altezza dei concorrenti. La finanza può sostenerne simili programmi facilitando l’equilibrio della loro struttura finanziaria. Le vicende recenti non possono infatti far venir meno la prospettiva per le imprese di attingere a fonti di finanza esterna complementari al credito bancario, ed in particolare ai bonds.

Verso modelli più orientati al mercato

Nell’introdurre queste note sono stati fatti alcuni richiami sulle vicende che hanno caratterizzato negli ultimi decenni l’evoluzione del capitalismo italiano. Si è fatto cenno al fatto che il punto di rottura dei vecchi equilibri va collocato agli inizi degli anni Novanta con la progressiva liberalizzazione dei mercati finanziari e la accentuazione della liberalizzazione commerciale. Questo processo ha richiesto e sta richiedendo cambiamenti importanti nella proprietà delle imprese, e delle banche. Fermo restando che il capitalismo italiano continua ad essere di tipo familiare, e il sistema finanziario ancora caratterizzato dalla prevalenza dell’attività bancaria, le dinamiche in corso tendono ad avvicinare entrambi i settori a modelli di funzionamento più orientati al mercato. Spingono in questa direzione le nuove leggi sul diritto societario, gli incentivi alla quotazione, i servizi finanziari che le banche sempre più offrono ai loro clienti, sia nel campo della gestione del risparmio sia nel campo del project financing.

Ma basta tutto ciò a far superare le difficoltà a cui si è fatto cenno? Come sempre i processi complessi richiedono tempo, specie nella società e nella politica. Non bisogna infatti immaginare che le difficoltà stiano solo nelle capacità tecniche. Spesso a pesare di più sono le difficoltà ad adattarsi ai nuovi stili culturali, a pensare ai rapporti sociali non solo in chiave di conflitto. Serve un nuovo slancio di fiducia e di progettualità che permetta alla economia nazionale di entrare a pieno titolo nella logica dei rapporti globali. Serve, cioè, una politica economica capace di darsi come obiettivo la competitività del sistema paese, e che per realizzarlo governo e opposizione, pur facendo ciascuno il proprio mestiere, sappiano uscire dal tunnel della delegittimazione reciproca.

Questo chiede il paese e soprattutto l’economia. La borghesia produttiva italiana è stata la chiave dello sviluppo del secondo dopoguerra. Al di là dei problemi legati ai ricambi generazionali, essa è sempre riuscita ad esprimere una capacità imprenditoriale di alta qualità. Perché il futuro della economia italiana possa essere all’altezza del suo recente passato, sia nel campo della grande impresa, della piccola come della media, sia nel campo delle banche, bisogna che la società italiana, aiutata da un sistema politico più consapevole e più capace di interpretare le nuove esigenze, faccia il salto culturale di pensare a se stessa nei termini nuovi dettati dalla internazionalizzazione e dal mercato.

30 marzo 2004

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