L’economia del calcio
di Mauro Marè
da
Ideazione, marzo-aprile 2003
«Oggi si corre molto, troppo, per compensare la mancanza di
tecnica. E questo è un male generalizzato. Guardo le partite e non
distinguo la grande squadra da quella piccola. Tutti corrono allo
stesso modo. Ed è proprio su questo punto che si sbagliano tutti.
A correre deve essere il pallone, non i giocatori. Ma per fare
questo bisogna saper controllare la palla».
Nella prefazione al bellissimo libro di Javier Marías, Selvaggi e
sentimentali: parole di calcio, Paul Ingendaay ricorda che Albert
Camus aveva affermato che tutto quanto di importante sapeva sulla
morale umana lo aveva imparato dal calcio. Pascal Boniface afferma
invece in un suo libro recente che «le football est certainement
le phénomène le Daily universel aujourd’hui, beaucoup Daily que la
démocratie ou l’économie de marché». In effetti, il ruolo che il
calcio esercita come cemento dell’identità nazionale di un Paese è
immenso; esso è stato spesso nascosto e trascurato, alle volte
negato e criticato, ma da qualche tempo lo si è accettato e anzi
studiato. Il calcio è diventato un elemento fondamentale
dell’identità nazionale, ha modellato la mente dei diversi popoli
fissando alcuni momenti essenziali dell’identità collettiva. Ha
sostituito forme antiche di competizione – compresa la guerra, per
nostra fortuna – ha convogliato l’orgoglio dei popoli e delle
nazioni in una disputa internazionale limitata al piano sportivo e
pacifica ma che ha un valore simbolico rilevantissimo. Esiste
un’evidente geopolitica del calcio, che si compone di conflitti,
di affermazioni dell’identità nazionale, di esacerbazione delle
passioni nazionali, di trasposizione nel dominio sportivo delle
ambizioni più nascoste e misteriose dei popoli.
Chiedete in giro: non tutti – dovrei dire pochi – ricordano le
date fondamentali della nostra Repubblica ma quelle delle
battaglie calcistiche più famose, da Italia-Germania del 1970 in
Messico, fino a Italia-Brasile e Italia-Germania in Spagna nel
1982, o ancora a Brasile-Italia nella finale Usa, per non parlare
di Italia-Corea, sono scolpite nella memoria collettiva e
individuale di tutti noi, comprese le formazioni, i gol e le
emozioni. Ancora più forti sono poi i ricordi legati alla squadra
del cuore, specie quando si tratta di squadre che non hanno la
fortuna di vincere molto. Chiedete ai napoletani cosa sono stati i
due scudetti con Maradona. Sono certo che fra le date più
importanti della loro vita vi indicheranno quelle dei due
successi.
È difficile capire perché il calcio affascina così tanto. Anche
noi stessi, prima tifosi e poi analisti del fenomeno, non
riusciamo il più delle volte a dare una spiegazione razionale o
coerente a tutto ciò. Agli occhi del disincantato e dell’infedele
appare assurdo che si possa avere fede in una Spa. Non riusciamo a
spiegare alle nostre mogli, madri, sorelle e figlie perché questo
virus tra il sabato e la domenica si accende e rovina le nostre
vite e in larga parte anche le loro. Anzi, col passar del tempo il
morbo le sta contagiando e si sta diffondendo anche all’universo
femminile. Emancipazione? Parità dei sessi? Ripiegamento sul
modello maschile? Oppure più semplicemente, il fascino del calcio
è talmente forte che non si può resistere. Né serve stare lontano,
non sentire o non vedere, perché come tutti sanno è peggio, la
testa è comunque altrove, e quindi tanto vale rassegnarsi e
lasciarsi andare ed essere spettatore. A mo’ di confessione
personale devo dire che la lettura del libro Tifosi Dop di Angelo
Bocconetti, con cui condivido un’angoscia comune che si ripete da
43 anni, mi ha riportato alla memoria cose e fatti che avevo
completamente dimenticato e mi ha permesso di effettuare «il vero
recupero settimanale dell’infanzia», di riassaporare quella parte
di follia che si è sviluppata a partire dai cinque anni. E la cosa
sorprendente è che per lo più è sofferenza allo stato puro, un
misto di paura e di rabbia pronta ad esplodere alla prima
ingiustizia. Infatti, eccetto che per due o tre squadre, i tifosi
italiani degli altri club sono sostenitori delle teorie più
strane, in particolare di quella del complotto, per non parlare
della questione arbitrale. E c’è poco da fare: una volta
contagiati non si guarisce. Si cambia idea politica, si possono
cambiare gusti e preferenze su molte cose, ma è impossibile, una
volta fatta la scelta, cambiare squadra.
Scrive Nick Hornby, che di follia e di angoscia se ne intende, un
altro che ha «speso un sacco del suo tempo libero a logorarsi
miserabilmente al freddo», che d’altro canto «gli ossessionati non
hanno scelta; in occasioni come queste devono mentire. Se
dicessimo sempre la verità, non riusciremmo a mantenere rapporti
con chi vive nel mondo reale» .
E quello che è terribile è che in fondo lo sappiamo che tutto ciò
serve a poco. Gli altri non capiscono, ci guardano con disprezzo,
con uno sguardo che associa alla compassione l’anatema morale e
intellettuale, uno sguardo che ho visto mille volte sul viso degli
altri, ogni volta che ho confessato la mia debolezza. Ma devo dire
che questo sguardo viene annullato da quello dei contagiati nei
momenti di felicità, quando la nostra squadra realizza un gol o
vince una competizione importante; viene guarito dallo sguardo del
compagno di avventura o di sedia che incrociamo quando succede
quello che aspettiamo any given sunday. Ma fin qui la passione e
il tifoso. Cerchiamo adesso invece di ragionare e di dare voce
all’analisi e all’interpretazione dei fatti.
La crisi del calcio
Negli ultimi anni il calcio ha vissuto un po’ dappertutto momenti
di difficoltà. La diffusione delle tecniche televisive e degli
eventi mediatici, la possibilità di fruirne in modi largamente
nuovi, la segmentazione degli orari dei campionati, la crescita
delle risorse televisive e pubblicitarie convogliate nel calcio,
tutto ciò ha definitivamente trasformato lo sport professionistico
più popolare del mondo in un vero e proprio business, come era già
avvenuto diversi anni fa per gli sport professionistici negli Usa.
Ma questa trasformazione non ha ancora avuto i riflessi necessari
nei comportamenti dei principali operatori del mondo del calcio,
che ne sono consapevoli ma sperano di ritardare il cambio di
sistema, né questo aspetto è ancora chiaro ai tifosi. La logica
del business, la legge del mercato stenta ancora ad affermarsi.
Il calcio da fenomeno popolare, sportivo e di intrattenimento ha
assunto le sembianze di un’attività economica vera e propria, di
un’industria con natura e caratteristiche molto particolari, dove
l’offerta, ma prima ancora la produzione del bene, avviene
combinando in modo speciale, forse magico, i diversi fattori della
produzione. Ma è anche un settore dove le ragioni del profitto e
dell’equilibrio contabile devono fare i conti con quelle del
cuore, del tifo appassionato. Per molto tempo, le regole di
mercato e il vincolo di bilancio semplicemente non sono esistiti.
Il proprietario metteva di suo, rischiava il patrimonio personale.
In parte è ancora così, ma con l’allargarsi della dimensione
economica e del volume d’affari, con le quotazioni, il calcio è
stato obbligato a crescere, a cercare nuove risorse e nuovi
capitali, ad andare in borsa e a differenziare le entrate – che un
tempo provenivano essenzialmente dai botteghini dello stadio – con
la vendita di oggetti e la promozione del marchio, col
merchandising, con l’investimento nelle infrastrutture sportive in
cui si svolgono gli eventi. Ma al tempo stesso, negli ultimi anni
il calcio si è anche gonfiato in modo abnorme e adesso ha di
fronte a sé due strade: sgonfiarsi gradualmente, con opportune
misure, il più possibile rispettose del mercato, evitando la
catastrofe, ritornando alla normalità contabile, economica e
televisiva; oppure esplodere, con conseguenze rilevanti, per i
consumatori e i tifosi, sul piano industriale, economico e
sociale. Che fare? Come si è giunti a questa situazione? Chi sono
i responsabili della crisi? Poteva essere evitata? Qual è
l’interesse pubblico, se ne esiste uno, in questa vicenda? Vediamo
i punti principali.
Gli errori gestionali e finanziari
Lo stato di crisi e le difficoltà finanziarie del soccer sono da
attribuire a numerosi fattori – parlo di soccer perché è una
vicenda non solo italiana, anche se all’estero non si è arrivati a
questi eccessi e da tempo sono stati introdotti efficaci
correttivi. Si deve partire, in primo luogo, dalla gestione
economica e finanziaria delle società, che negli ultimi anni è
stata carente, alquanto miope e disinvolta. Si sono pagati troppo
i giocatori, questo è innegabile, si è assistito ad un’escalation
dei prezzi e delle remunerazioni che non ha precedenti nella
storia del calcio. Il compenso medio lordo per calciatore, nella
serie A italiana, è passato da 782 a 2.160 milioni di lire tra il
1994/95 e il 2001/02; nel 1995, i calciatori con un salario
superiore ai 2 miliardi erano circa il 7,4 per cento del totale
mentre nel 2002 raggiungevano circa il 30 per cento.
La colpa non è però solo dei calciatori, essi hanno approfittato
del miscuglio di procuratori, intermediari, sponsor, dirigenti e
mercato drogato – doping in senso stretto compreso. I calciatori
potevano fare poco e hanno in definitiva firmato contratti
regolari. Condannarli per gli eccessi è un atteggiamento
demagogico, hanno ragione se si difendono e sostengono che sono in
buona fede, anche se non sono un valido esempio dal punto di vista
sociale.
È vero, come vedremo più avanti, che hanno approfittato della
rendita che il mercato delle superstar ha permesso loro. Ma
l’evoluzione della domanda e dell’offerta andava in quella
direzione e non era facile fermarsi spontaneamente o limitarne gli
effetti più negativi. Se i presidenti hanno offerto quelle cifre
perché non accettarle. Certo devono convincersi che la festa è
finita, che il mercato del lavoro del futuro sarà molto diverso,
che l’intero sistema calcio sarà costretto a ridimensionarsi e a
rispettare regole contabili e leggi di mercato. Il calcio non può
pretendere di venir esentato dalle regole della concorrenza o da
quelle di un’ordinata e trasparente gestione economica.
D’altro canto, fa un certo effetto l’apprendere che un giocatore
possa percepire 6 milioni di euro netti a stagione; la cifra
appare spropositata, senza un fondamento relativo, fuori da ogni
logica. Ma allora questo gioco dello “scandalo” dovrebbe essere
applicato anche ad altri settori molto più “seri” sul piano etico
e sociale: ad esempio, i manager di alcune imprese private,
soprattutto di fronte a responsabilità gravi sul piano della
trasparenza nei confronti degli azionisti, a frodi e quant’altro.
Con questo ragionamento non se ne esce.
Il mercato degli stipendi si è gonfiato, drogandosi. Invece che
rendersi conto della bolla, i dirigenti hanno seguito l’evoluzione
delle quotazioni sulla base di previsioni di entrate future da tv,
da diritti di vario tipo del tutto errate e falsate. L’aumento
vertiginoso delle entrate che il calcio ha avuto negli ultimi 5
anni è stato in larga parte trasferito ai giocatori, questo è il
vero problema, anziché a investimenti e al risanamento economico e
contabile. In Italia gli stipendi dei giocatori, in percentuale
del fatturato, sono passati dal 57 per cento del 1996, ad oltre il
75 per cento della metà del 2002. Una crescita vertiginosa, mentre
negli altri Paesi europei, dopo gli anni iniziali di crescita, già
da due anni si sta tornando indietro (in Germania siamo al 50 per
cento, in Inghilterra al 60 per cento. Se si considera l’intero
personale, compresi gli allenatori e i dirigenti, si sono
raggiunte cifre esorbitanti, insostenibili sotto qualsiasi punto
di vista (si veda la Tavola 1). Infatti siamo in media vicini al
90 per cento in termini di volume d’affari, con punte però per il
Piacenza del 173 per cento, per l’Empoli del 148 per cento, per la
Lazio e il Parma del 110 per cento, per l’Inter del 108 per cento,
fino al 79 per cento del Milan, al 77 per cento della Juventus e
al 68 per cento della Roma – anche se il Parma, la Juventus,
l’Inter e la Roma sono nell’ordine le squadre che più di tutte
hanno utilizzato lo strumento delle Dailyvalenze relative alla
compravendita dei giocatori.
E quando le entrate, soprattutto da tv, sono venute meno – per la
crisi che paradossalmente lo stesso calcio ha determinato nelle tv
a pagamento – allora la bolla è scoppiata. L’avvio ritardato del
campionato nel settembre scorso, le resistenze delle pay-tv a
pagare prezzi ormai non sostenibili, l’assetto del mercato in
evoluzione delle tv a pagamento, con la struttura duopolistica
ancora incerta e instabile e la dipendenza vitale delle società
calcistiche dalle risorse televisive, tutto ciò ha prodotto un
avvitamento profondo del sistema calcio. Stream e Telepiù non sono
state in grado di offrire prezzi che potevano garantire le
campagne acquisti delle società, anzi le risorse a disposizione
non riuscivano a garantire l’esistenza stessa di alcuni club e la
vicenda è solo agli inizi. Lo squilibrio tra grandi e piccoli
squadre, l’asimmetria che esiste nel finanziamento del nostro
calcio, ma anche l’inevitabile interdipendenza tra le diverse
società, sono perciò emersi in tutta la loro evidenza. Il problema
di fondo, almeno nel breve periodo, non è lo sviluppo delle
entrate, la loro diversificazione, che resta comunque un fattore
importante, ma il contenimento dei costi, riportare il calcio a
cifre e dimensioni credibili e sopportabili. L’aumento delle
entrate era ed è chiaramente importante, come hanno cercato di
fare molti club europei, sviluppando il merchandising,
trasformando lo stadio in luogo multiattività e soprattutto
acquistandolo, oppure valorizzando il marchio della società.
L’elemento cruciale per le entrate è la diversificazione,
soprattutto in un contesto che vede una riduzione di quelle
televisive e una relativa stabilità (sarà ancora così in futuro?)
di quelle tradizionali da botteghino. La diversificazione richiede
però tempo, presuppone una trasformazione radicale della mentalità
del calcio italiano, necessita di una rivoluzione copernicana
nelle abitudini dei tifosi italiani, come anche nell’efficacia
dell’azione pubblica di tutela dell’ordine pubblico e di
repressione delle frodi. Basti pensare, come qualsiasi
frequentatore degli stadi sa benissimo, cosa potrebbe succedere se
si decidesse di aprire strutture ricreative – ristoranti, bar,
negozi, cinema, ecc. – prima di un derby o in occasione di un
match importante; oppure, quali prospettive possono avere
strategie di merchandising aggressive, quando larga parte dei
prodotti venduti non sono originali e derivano da mercati
sotterranei e paralleli, spesso stranieri.
Ma l’evoluzione del quadro finanziario del calcio richiedeva
comunque un contenimento dei costi. Contenimento che era, sia
chiaro, difficile da raggiungere, richiedeva lungimiranza e
compromessi. I presidenti, anziché abbandonarsi all’azione
individuale e trovarsi coinvolti in una concorrenza, poco sensata
sul piano economico, a comprare a suon di milioni la star del
momento – che però rendeva sul piano della popolarità e del
consenso dei sostenitori – avrebbero dovuto parlarsi e trovare un
accordo che calmierasse il mercato; avrebbero dovuto fissare un
limite all’escalation delle quotazioni, oppure convergere su
qualche forma di salary-cap, come nel football e nel basket
americano.
I diritti televisivi
Un ruolo particolare ha naturalmente avuto il mondo della tv, sia
quella in chiaro, sia quella criptata. Infatti, a partire dagli
anni ’60, ma in particolare negli ultimi cinque anni, il ruolo
della televisione nel calcio è cresciuto in modo impressionante.
Essa svolge una funzione decisiva di stimolo e di traino del
business calcistico e del suo indotto, ha reso possibile
un’amplificazione enorme degli eventi e delle competizioni
trasmettibili, ha permesso di raggiungere un numero di persone
fino a qualche anno fa inimmaginabile.
La questione di fondo che ha animato l’avvio del campionato
quest’anno sono le risorse che le pay-tv e la Rai dovrebbero
pagare alle società e alla Lega. Innanzitutto anche le tv sono in
crisi. Gli stessi errori commessi dalle società di calcio nella
previsione delle entrate, sono stati anche fatti dai dirigenti
delle società televisive, in particolare di quelle a pagamento,
sicuri della crescita dei ricavi pubblicitari e degli ascolti. In
un Paese campione della falsificazione e dell’economia sommersa, è
poi “normale” che circa la metà degli spettatori abbia visto gli
incontri in modo illecito. Non si poteva fare qualcosa di più? La
repressione della frode – rectius, dell’illecito amministrativo –
poteva essere sicuramente potenziata. Ecco una buona ragione per
l’intervento pubblico.
Ma tornando ai diritti tv, il quadro che si sta delineando è
quello della relativa incapacità delle risorse televisive – in
forte diminuzione – a finanziare un bene sempre più costoso come
il calcio, soprattutto di fronte all’esplosione del costo del
lavoro. Sarà necessario scovare nuove risorse e forse, seguendo
l’esempio americano e inglese, trovare nuovi equilibri di
finanziamento e di assetto industriale. Ma, come già detto, si
dovrà soprattutto agire sul piano dei costi.
Una prima questione interessante è quella di chiedersi se sia
sensato imboccare la strada americana, che porti alla soluzione di
leghe chiuse ed ermetiche. Nel futuro del calcio europeo e di
quello italiano c’è una sua americanizzazione? Penso e soprattutto
spero di no; mi sembra che in Italia non vi siano le condizioni
sociali e culturali per intraprendere tale direzione, ma il caso
americano solleva questioni che varrebbe la pena di discutere
meglio. In secondo luogo, sembra ormai irrinunciabile introdurre
qualche forma di cap o di accordo sulle remunerazioni. Le spese
per i talenti rappresentano ormai più dei 3/4 del fatturato dei
club di serie A. Ogni tetto può produrre distorsioni nel mercato,
un accordo collettivo sulle remunerazioni può essere visto come un
cartello o come una distorsione del mercato del lavoro o una
limitazione della sua flessibilità, ma in questa situazione può
anche avere l’effetto positivo di evitare competizioni
distruttive. La questione rilevante è la vendita dei diritti
televisivi poiché ha conseguenze sul futuro del calcio stesso.
Forse andrebbe ripensata la vicenda della vendita collettiva dei
diritti da parte della Lega a posto di quella separata da parte
dei singoli club. Se è giusto il principio che afferma
l’individualità dei diritti, che non possono che appartenere ai
singoli club, che sono quelli che organizzano l’evento e ne
sopportano le spese, si deve anche tenere conto della specificità
del “bene calcio”. Il prodotto commerciale è sì la singola partita
ma anche il campionato nel suo insieme. L’evento calcio, più che
la partita individuale, è l’intero campionato, composto dagli
incontri di tutte le squadre. Vanno perciò forse riesaminate le
modalità di vendita dei diritti e dei meccanismi di mutualità e di
redistribuzione delle entrate. Anche perché una squadra famosa può
anche spuntare un prezzo elevato, ma senza Como, Brescia e Chievo
non esisterebbe più il campionato. Se queste squadre decidono di
non giocare, si può dire addio al campionato. Se sono troppo
deboli, il campionato perde di interesse perché è scontato il
vincitore e quindi crollano le entrate a vario titolo. Se
falliscono il danno è ancora maggiore. Quindi v’è un interesse
collettivo a far sì, anche da parte dei grandi club, che quelli
minori abbiano risorse per vivere e partecipare al campionato e
che questo sia il più equilibrato possibile.
La particolare natura del bene calcio:
vincere senza dominare
È un aspetto evidenziato da Neale nel 1964. Il calcio, come altri
sport professionistici, è intrinsecamente differente dagli altri
business tradizionali. Infatti, in ogni industria le imprese
cercano di conquistare quote di mercato a scapito dei concorrenti,
esse avranno maggior successo se riescono ad eliminare la
concorrenza e ad acquisire un certo grado di monopolio. Ogni
impresa cerca di far fallire le altre e dal fallimento trae
elementi di affermazione. Nel calcio non è così: il bene venduto
non è la singola partita ma anche – dovrei dire soprattutto – il
campionato nel suo insieme.
Se alcune imprese “falliscono” si hanno conseguenze rilevanti sul
campionato. Vi sono degli spillover evidenti e ciò a causa della
natura congiunta della produzione del bene calcio. Sì
naturalmente, un’impresa fallita può essere sostituita da
un’altra, ma il collegamento forte con il territorio, la
tradizione calcistica italiana molto legata alle varie città e
alla realtà locale rendono il prodotto scarsamente sostituibile.
Se scompare una squadra svanisce la domanda e con essa anche
quella per le prestazioni delle altre squadre più forti. È
legittimo voler vincere il campionato ma le grandi squadre sanno
bene che conviene farlo senza dominare, anzi con una dose di
incertezza più o meno grande.
Vive la concurrence: l’importanza di un
competitive balance
L’equilibrio tra le squadre è fondamentale. Campionati squilibrati
attraggono meno spettatori, diversamente l’incertezza genera
suspense e interesse. Il migliore esito finale, forse non per la
salute dei tifosi, è sempre quello dell’assegnazione del titolo
all’ultima giornata, della selezione delle squadre retrocesse
all’ultimo match. La riduzione del grado di concorrenza può avere
effetti negativi sulla domanda di biglietti da stadio e di eventi
pay-tv; essa può anche ridurre gli incassi da pubblicità e da
sponsorizzazioni. Nel calcio non è remunerativo accumulare talenti
fino al punto in cui svanisce l’incertezza dell’esito delle
partite, in cui la competizione ne risulta sostanzialmente
ridotta. Oltre un certo punto, avere troppe star presenta
rendimenti decrescenti. La mutualità tra squadre non è un regalo
delle grandi e potenti alle piccole, ma un meccanismo necessario
per la sopravvivenza delle stesse grandi squadre, senza il quale
il calcio finirebbe per tutti, anche per loro.
Vi sono alcuni lavori che evidenziano che il grado di concorrenza
può avere effetti sulle risorse ottenibili, sulle performance
delle squadre nei tornei internazionali e sulle squadre nazionali.
Marques (2002) ha messo in evidenza negli ultimi anni una crescita
della competitive balance nel campionato portoghese, anche se
risulta accresciuta al tempo stesso la differenza tra la squadra
più forte e quella più debole. Haan-Koning-van Witteloostuijn
(2002) trovano invece sorprendentemente che l’avvio della
Champions League con le nuove regole e la Sentenza Bosman non
hanno prodotto significative variazioni della competitive balance
dei tornei nazionali, mentre hanno accresciuto le differenze
qualitative delle competizioni internazionali. La decisione
recente dell’Uefa, di rivedere il sistema di fees relativi ai
trasferimenti dei giocatori è una sorta di de-liberalizzazione che
tenderà a creare due mercati del lavoro: per i giocatori giovani e
per quelli meno giovani. Sarà interessante capire quali saranno
gli effetti di questo provvedimento sul grado di concorrenza delle
competizioni nazionali e di quelle internazionali.
Szymanski evidenzia invece che il gate sharing – la divisione in
parti più o meno uguali dei ricavi tra club che riceve e club
ospite – tende a ridurre il grado di competitive balance mentre la
ripartizione dei ricavi dalla vendita di diritti televisivi può
aumentare il grado di concorrenza. Infine, altre ricerche recenti
hanno messo in evidenza che la struttura del calcio inglese, e
probabilmente anche quella del calcio europeo, quindi in
definitiva il grado della competitive balance, sarà sempre più
demand-driven. Perciò vi potrà essere una riduzione della
competitive balance e uno squilibrio nella distribuzione delle
risorse tra club forti e club piccoli. Il grado di competitive
balance ha effetti ovviamente anche sulla decisione se sia
preferibile vendere i diritti singolarmente o collettivamente. Una
ricerca recente ha evidenziato che se la Lega massimizza la
domanda per gli eventi sportivi, allora uno schema di pagamenti
basato sulle performance – come quello usato dei più importanti
club europei di calcio negli accordi di vendita dei diritti
televisivi – sembra essere la soluzione ottimale; se la Lega
agisce invece come un cartello e cerca di massimizzare i profitti
congiunti dell’attività sportiva di tutti i club – come nel caso
statunitense – allora sembra preferibile uno schema di full
revenue sharing. In un lavoro recente (Marè, 2003) ho messo in
evidenza, usando l’indice di Herfindahl, che il grado di
concorrenza tra il 1945 e il 2002 nei principali campionati
europei non è in generale aumentato, anzi in alcuni casi si è
ridotto. I dati lasciano trasparire una situazione alquanto
competitiva per Francia e Germania, un po’ meno per Regno Unito e
Italia, ancora più concentrata per la Spagna. L’analisi per
sottoperiodi mette in evidenza inoltre che, pur con qualche
eccezione, si registrano delle riduzioni della competitive balance
all’incirca dappertutto. I diversi casi nazionali, in particolare
il nostro Paese, sono caratterizzati da fenomeni ciclici più o
meno ampi – intorno ai 7-10 anni – anche se la durata del periodo
“monopolistico” – definita come il periodo in cui il torneo è
stato sempre vinto dalla stessa squadra o dalle stesse due squadre
– si è ridotta in media dal dopoguerra ad oggi – ciò appare
comprensibile se si considera che il ciclo “naturale” di una
squadra tende a collocarsi tra i 4 e i 6 anni. In termini
generali, si può quindi dire che questa evoluzione avrà effetti
rilevanti sulla struttura industriale del calcio, sui sistemi di
finanziamento e sulle risorse ottenibili. Quanto ai tifosi il
suggerimento è più semplice: fans need to be patient.
Un gioco a somma zero o negativa?
Il calcio ha una struttura particolare, v’è una forte
interdipendenza che può scatenare una rincorsa all’acquisto dei
giocatori e tutto ciò può avere effetti devastanti. Si può passare
da una situazione di equilibrio ad un’altra – in genere sono
equilibri instabili – con un peggioramento del benessere, con
natura simile ma costi differenti. Tipico esempio è quello di una
squadra che per rafforzarsi e mutare la sua forza relativa si
lancia nell’acquisto di un giocatore. Questo movimento produce
però una reazione nelle altre squadre che sono costrette, in un
certo modo, dai tifosi, dai procuratori e dalla logica di sviluppo
del mercato, a seguire la squadra che si è rafforzata nella
competizione. Esse finiranno per effettuare altri acquisti e
questo scatena una guerra, che tende a produrre una lievitazione
dei prezzi e degli ingaggi per i giocatori. Gli effetti negativi
di tutto ciò è che con molta probabilità la forza relativa delle
squadre nel nuovo equilibrio non è mutata, tutte si sono
rafforzate, nessuna è riuscita a prevalere, ma nel passaggio da un
equilibrio all’altro si è verificata una lievitazione dei costi.
Niente è cambiato in termini di forza relativa ma ora i costi sono
nettamente più elevati, i bilanci più appesantiti ed esposti,
quindi in definitiva le società hanno perduto nel movimento da una
situazione all’altra. L’introduzione di meccanismi che limitino
tale “corsa all’acquisto” dei talenti può avere perciò effetti
positivi. Ma questi vincoli sono difficili da definire – un tetto
alla somma spendibile annualmente in valore assoluto? Oppure una
cifra per ogni singolo giocatore? O, ancora, una percentuale del
fatturato? Oppure un meccanismo tipo il rookie draft americano,
che da un diritto di prelazione alle squadre più deboli?
Il mercato dei calciatori: il potere di
mercato delle star
Come si è visto, ad essere accusati sono i calciatori. Gli
stipendi troppo elevati sono all’origine delle difficoltà
finanziarie? Prima facie, potrebbe sembrare così e in parte lo è.
Ma è noto che questa è solo una piccola parte della storia.
L’esplosione del costo del lavoro è senza dubbio responsabile del
dissesto finanziario delle società; ma per capire come si arrivati
a questa situazione, si devono prendere in considerazione tutti
gli elementi. All’avidità dei calciatori va sommata
l’irresponsabilità e la leggerezza dei dirigenti e dei presidenti
e la struttura perversa del mercato stesso che ha condotto
naturalmente a questa situazione.
D’altro canto, una situazione di questo tipo si era già avuta
negli Usa, ed aveva caratterizzato molti sport professionistici.
La peculiare economia del calcio conferisce ai talenti – o
superstar secondo la definizione di Rosen – un potere
monopolistico rilevante che viene usato per spuntare ingaggi
elevati. Gli spettatori vogliono vedere i calciatori più famosi,
Zidane o Rivaldo, Maradona o Platini, non bravi professionisti
poco noti. Quindi, di fronte ad una situazione di scarsa
sostituibilità tra giocatori (e prodotti), i presidenti in fin dei
conti potevano fare poco. Poiché gli spettatori sono disposti a
pagare molto per le superstar, meno, se non niente, per gli altri
giocatori, naturalmente tenderà ad emergere una certa asimmetria
tra le diverse squadre. Le squadre con i calciatori famosi possono
godere di una rendita e ottenere premi elevati dagli sponsor e
dalle tv. Quelle senza superstar avranno minori prospettive di
reddito e di ricavo e saranno costrette a vincere, ad ottenere
maggiori successi, per avere ritorni accettabili.
L’esempio americano: i vantaggi dei
salary-caps
Negli Usa esistono, da molto tempo e in vari sport, forme di
limitazione dei compensi, di mutualità e redistribuzione. In
genere si usa un salary-cap, legando il monte salari a una certa
percentuale dei ricavi. Forse il 50 per cento è la cifra giusta,
tra l’altro è quello verso il quale tendono francesi e inglesi. È
noto il caso di Michael Jordan che è stato costretto a ridursi lo
stipendio per far comprare alla società in cui militava un altro
giocatore e poter restare all’interno del tetto. Negli Usa, come
si è detto, esiste anche il rookie draft: la squadra che arriva
ultima sceglie i giocatori più forti. È legato alla struttura dei
college e al meccanismo di avvio delle matricole alla carriera
professionistica tipico di questo Paese. Naturalmente non è
riproponibile sic et simpliciter in Italia. Infine, si deve
riflettere sul fatto che un vincolo anche stringente agli stipendi
potrebbe non risolvere il problema se facilmente aggirabile. Le
squadre potrebbero infatti offrire remunerazioni in natura anziché
in denaro o altre forme di fringe benefit. L’intera struttura dei
compensi andrebbe perciò monitorata. Last but not least, si
dovrebbero valutare queste misure sul piano degli effetti che esse
possono avere sulla tutela della concorrenza e più in generale
dell’antitrust. L’attuale impostazione comunitaria in materia di
diritto della concorrenza non sembra essere incline ad accettare
soluzioni come quella adottata dalla Corte Suprema degli Stati
Uniti il 20 giugno 1996, che ha di fatto sottratto alla normativa
sulla concorrenza l’accordo sulle remunerazioni dei giocatori
stabilito tra questi ultimi e le società.
Un’analisi più approfondita del caso statunitense relativo ai
diversi sport professionistici mette in evidenza che questo
sistema di caps risulta molto complesso e macchinoso, di difficile
funzionamento e applicabile e monitorabile in modo largamente
imperfetto. Frequenti sono stati i casi di aggiramento dei tetti
con un accorciamento della durata dei contratti o con una
differenziazione delle forme dei compensi. L’introduzione di forme
temporanee di luxury tax anche rilevanti nelle dimensioni, come
strada alternativa per effettuare un riequilibrio delle risorse,
non sembrano aver offerto risultati promettenti. L’intera
struttura dei caps non sembra infine aver avuto un effetto
positivo sulla competitive balance dei diversi sport
professionistici, che nel complesso risulta variata in modo poco
apprezzabile e anzi in alcuni casi appare nettamente peggiorata.
In sintesi, l’idea di un tetto è in sé interessante ma non sembra
attuabile rapidamente nel caso italiano. Essa va senza dubbio
esplorata insieme all’altra strada di legare gli stipendi dei
calciatori e dei dirigenti alle performance sportive e
all’andamento economico e contabile dei vari club. Infine, una
misura di questo tipo realizzata in un solo Paese avrebbe poco
senso se non venisse attuata anche dalle altre leghe a livello
europeo e comunitario: l’effetto sarebbe quello di un player-drain
dal campionato italiano alle altre leghe europee.
Profitti o prestigio: cosa massimizzano le
società?
Uno dei primi lavori scientifici in materia aveva suggerito un
approccio originale all’analisi del funzionamento del calcio:
l’ipotesi ovvero, che le società anziché massimizzare i profitti
potessero tendere a soddisfare il successo personale dei
presidenti; i club, più che cercare di ampliare i profitti,
potrebbero massimizzare il livello di utilità dei proprietari e
dei tifosi. E se questo (era ed) è davvero l’obiettivo – più che
il profitto o l’equilibrio contabile – è evidente che poi si
riterrà il calcio un settore dove le regole di mercato, che
funzionanonelle altre industrie, possono trovare un’applicazione
del tutto particolare.
Il calcio è stato per lo più usato come veicolo di lancio
pubblicitario, come uno strumento rapido per acquisire notorietà,
per avere forme di spillover su altri settori e marchi industriali
legati alla proprietà delle società calcistiche, più che come
strumento di ricerca del profitto. Gli squilibri che si creavano
venivano ripianati con l’uso dei patrimoni personali dei
proprietari. Ora però la trasformazione in business – e la
quotazione di molte società – spingono il calcio ad essere sempre
più attento al vincolo di bilancio e quindi in definitiva ai
profitti. Il calcio è ormai un’industria a tutti gli effetti e
quindi la “massimizzazione delle utilità” deve essere bilanciata
da quella dei profitti e dei ricavi.
L’interesse pubblico e gli utenti
Infine, l’intervento pubblico. Esiste un interesse pubblico nel
calcio? Le immagini dei gol e delle partite sono un bene pubblico?
Sul piano generale non vi sono elementi per sostenerlo. Perché il
calcio e non un altro sport? Perché non la musica? Chi dovrebbe
poi deciderlo? E secondo quali criteri? È comprensibile che il
governo agisca da mediatore e cerchi di trovare un accordo tra le
parti. Ma le società di calcio sono società per azioni o di
capitali, alcune anche quotate. Non vi sono quindi ragioni di
interesse pubblico per affermare che l’aiuto a singole società per
azioni, con agevolazioni fiscali o altre forme indirette sia
giustificato; anzi esso risulterebbe sicuramente distorsivo.
Ma lasciare il calcio a se stesso è una decisione delicata, con
conseguenze largamente impopolari. In primo luogo, v’è la
questione della tv pubblica: deve pagare o no i prezzi che
richiedono i club? Il prezzo richiesto dalla Lega, soprattutto con
il frazionamento degli incontri, è chiaramente esagerato perché il
prodotto non è più lo stesso. Ma la decisione ha conseguenze
rilevanti: infatti se la tv pubblica non compra resta solo
l’opzione a pagamento. Qualsiasi cittadino per vedere una partita
o un pezzo di essa dovrà pagare. Sarebbe la privatizzazione
definitiva di un bene che si era ritenuto per molto tempo pubblico
ma che ora l’evoluzione del mercato ha trasformato in privato. Ciò
avrebbe conseguenze redistributive notevoli, i consumatori si
troveranno a pagare di più. Ma i consumatori possono decidere
anche di non spendere cifre elevate per il calcio. Una riduzione
della domanda potrebbe avere paradossalmente anche un effetto
positivo, di selezione nel mercato.
A me sembra che l’evoluzione sia ormai segnata e vada in questa
direzione e che si possa fare poco per fermarla. Scriveva tempo fa
l’Herald Tribune che «il calcio è diventato un affare e negli
affari il ricco divora il povero». Il calcio è ormai un business
dove si richiede di pagare un prezzo per partecipare o solo anche
per vedere. Se vado al cinema pago, così dovrebbe essere anche nel
calcio. Ma l’intera vicenda è anche un’occasione d’oro per
rieducare il modello sociale e mentale del nostro popolo su cosa
significhi davvero l’interesse pubblico, per trasformare la
psicologia sociale – dovrei dire calcistica? – degli italiani che
magari, poveri loro, dovranno leggere un libro! Per esperienza
diretta so che francesi e inglesi non hanno le possibilità
televisive calcistiche gratuite – e non – degli italiani, ma
vivono bene lo stesso e seguono con passione, ma forse con più
selettività, il calcio. Tutto ciò potrebbe anche migliorare le
prestazioni della nostra squadra nazionale e dei singoli club nei
tornei internazionali, negli ultimi anni molto deludenti. Ma il
nostro paese è pronto a compiere questo salto? Soddisfare la
passione collettiva nazionale e la pace sociale ci costringerà a
soluzioni subottimali e a compromessi?
La legge del mercato o quella dei tifosi?
Ma se il calcio è davvero un business, deve allora rispettare le
leggi del mercato, i vincoli di bilancio e quelli contabili, deve
adeguarsi alla disciplina della concorrenza e alle sue regole,
comprese quella del fallimento. Ma come fare sul piano sociale,
per non parlare del tema dell’ordine pubblico? La vicenda della
Fiorentina dovrebbe aver insegnato qualcosa sul piano delle
conseguenze sul tessuto sociale di una città.
Quindi ci si deve chiedere perché è opportuno salvare il calcio?
Ha senso ed è giustificata sul piano economico la recente misura
che permette alle aziende calcistiche di distribuire in un arco di
10 anni le minusvalenze derivanti dalla svalutazione del
patrimonio giocatori? Vi sono due tipi di ragionamento: uno basato
sui principi e perciò di tipo normativo, l’altro legato ai fatti
concreti. Sul piano dei princìpi non vi sono ragioni consistenti
per giustificare questo provvedimento. Innanzitutto, alcune
domande: perché solo le società di calcio e non anche altri
settori? Perché non la Fiat? Perché non applicarlo alle società di
produzione cinematografica? In fondo è sempre una forma di
divertimento!
Qualsiasi forma di intervento, che prenda la forma di un aiuto
diretto – monetario – o indiretto – regolamentativ o fiscale –
deve essere considerata come una distorsione del mercato, come una
violazione della concorrenza e andrebbe perciò respinta. Esiste un
interesse pubblico nel calcio? I goal o le partite sono un bene
pubblico? Come si è visto non vi sono elementi per sostenerlo. È
comprensibile che il Parlamento e il governo si trovino coinvolti
e cerchino di trovare una soluzione allo stato di crisi. Ma le
società di calcio sono società di capitali, di cui tre quotate,
che devono rispondere ai vincoli del mercato, che devono
sopportare le conseguenze economiche delle loro scelte senza
scaricare sulla collettività gli eventuali costi di un fallimento.
Sul piano concreto, il fallimento di alcune società potrebbe
compromettere il futuro del campionato stesso di serie A. Perciò
lasciare il calcio a se stesso è una decisione delicata, mi sembra
che vada presa pesando i possibili effetti e le probabili
conseguenze, fortemente impopolari, di questa decisione. Non è
difficile capire quali potrebbero essere le risposte degli
spettatori, per non parlare di quella dei tifosi. Altro che
questione pensionistica!
Soddisfare la passione degli italiani non ci costringerà a
soluzioni imperfette? Penso proprio di sì. Anche se il salvagente
deve valere una sola volta e solo per quest’anno, perché credo tra
l’altro che questo possa rivelarsi insufficiente per risolvere la
crisi. Meglio sarebbe invece il lancio di un vero piano di
ristrutturazione più che una misura tampone dalla dubbia
efficacia. Né mi sembra sensata l’idea che circola questi giorni
di un campionato a 40 squadre. La crescita delle partite farebbe
aumentare la domanda per i giocatori e le superstar, dato che
comunque si dovrebbe allargare la rosa; e perciò, dovendo fare una
previsione ragionevole, anche gli stipendi dei calciatori. Quindi
una direzione opposta… a quella necessaria.
E infine una postilla... sulla tecnica
Tutti hanno un giocatore preferito, un mito che spesso ci ha
colpiti da bambini, quando la passione è difficile da controllare.
Ma la severa realtà del calcio dei nostri giorni è molto diversa,
la logica del mercato, la qualità dei tornei nazionali e
internazionali ma anche la quantità degli eventi ne hanno
profondamente mutato la natura e la sua fruibilità. I giocatori
bandiera sono sempre più rari, non sono più compatibili con la
logica industriale del calcio. Alcune squadre non possono
permetterseli, altre sì ma con difficoltà sempre maggiori. Spesso
il rapporto con i tifosi finisce per deteriorarsi. Possono
diffondersi forme di disaffezione, causate dall’eccesso di offerta
di immagini e di eventi. Il calcio-business ha trasformato
profondamente il prodotto. Lo stesso tifo ha cambiato pelle, è
molto diverso da quello che io ricordo nella mia infanzia.
Uno dei calciatori che più ho amato ha scritto che «il football
che si pratica oggi in Italia non mi piace. Il tempo sembra
essersi fermato. Lo stile è noioso e irritante. Il pallone è un
fastidio, nessuno lo vuole perché nessuno vuole attaccare. E se io
non attacco e tu non attacchi, non si sbaglia: non succede niente.
Addio all’emozione. La paura e il calcio non sono stati mai amici.
E le squadre italiane hanno paura di perdere. Il loro comandamento
è: il risultato innanzitutto. Non si può giocare così. Il peggio
che può capitare non è perdere. Se perdi è più facile accorgersi
di cosa devi correggere. Il peggio è vincere 1-0, giocando a
casaccio, tutti all’indietro, maltrattando la palla, cercando il
fallo, nella convinzione che questa sia la strada, la formula, la
filosofia».
E ancora «perché c’è tanta omologazione nel calcio? Nessuna
differenza fra buoni a cattivi calciatori. Come si spiega? Molto
facile. I motivi sono due: Primo: negli ultimi anni la qualità
tecnica, fondamentale per sottolineare le differenze tra i
giocatori e le squadre, è diminuita in modo allarmante. Secondo:
troppe partite. Sommiamo il primo e il secondo motivo. Che cosa
risulta? Se la qualità tecnica diminuisce, tutto finisce per
basarsi sul fisico. Di correre sono capaci tutti. E che cosa
accade quando tutto si basa sul fisico? Che quante più partite si
giocano, tanto maggiori sono i problemi. Si assiste a veri e
propri pareggi a base di dolore». E tutto ciò lo pensa un
calciatore che correva davvero molto, che aveva, per i suoi tempi,
una velocità impressionante, ma che conosceva il segreto profondo
del calcio, la tecnica e l’arte che si deve possedere per giocarlo
davvero.
Basta guardare un vecchio filmato – poi non così tanto vecchio,
basta andare al 1970 o al 1980 – e ci si rende conto delle
differenza di velocità, di come il gioco si sia evoluto, della
dimensione atletica così diversa, ma anche della qualità in larga
parte scemata, dell’involuzione tecnica, del dribbling sempre più
raro e difficile. E allora una possibile strada non è forse quella
di ridurre il numero delle partite giocate e non quella di
aumentarle? Sono consapevole che i club non amano questa strada,
così come gli sponsor e le tv. Ma non è detto che la qualità non
possa compensare la quantità; d’altro canto, la quantità,
riducendo inevitabilmente la qualità, non finirà per ridurre anche
l’interesse? Del resto… penso anch’io che i giorni della settimana
non siano nient’altro che lo spazio di tempo tra una partita e
l’altra e che il lavoro sia un modo per ingannare l’attesa. Ma
forse quest’ultima parte è stata scritta dal tifoso più che
dall’economista.
27 febbraio 2004
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