L’economia del calcio
di Mauro Marè
da Ideazione, marzo-aprile 2003

«Oggi si corre molto, troppo, per compensare la mancanza di tecnica. E questo è un male generalizzato. Guardo le partite e non distinguo la grande squadra da quella piccola. Tutti corrono allo stesso modo. Ed è proprio su questo punto che si sbagliano tutti. A correre deve essere il pallone, non i giocatori. Ma per fare questo bisogna saper controllare la palla».

Nella prefazione al bellissimo libro di Javier Marías, Selvaggi e sentimentali: parole di calcio, Paul Ingendaay ricorda che Albert Camus aveva affermato che tutto quanto di importante sapeva sulla morale umana lo aveva imparato dal calcio. Pascal Boniface afferma invece in un suo libro recente che «le football est certainement le phénomène le Daily universel aujourd’hui, beaucoup Daily que la démocratie ou l’économie de marché». In effetti, il ruolo che il calcio esercita come cemento dell’identità nazionale di un Paese è immenso; esso è stato spesso nascosto e trascurato, alle volte negato e criticato, ma da qualche tempo lo si è accettato e anzi studiato. Il calcio è diventato un elemento fondamentale dell’identità nazionale, ha modellato la mente dei diversi popoli fissando alcuni momenti essenziali dell’identità collettiva. Ha sostituito forme antiche di competizione – compresa la guerra, per nostra fortuna – ha convogliato l’orgoglio dei popoli e delle nazioni in una disputa internazionale limitata al piano sportivo e pacifica ma che ha un valore simbolico rilevantissimo. Esiste un’evidente geopolitica del calcio, che si compone di conflitti, di affermazioni dell’identità nazionale, di esacerbazione delle passioni nazionali, di trasposizione nel dominio sportivo delle ambizioni più nascoste e misteriose dei popoli.

Chiedete in giro: non tutti – dovrei dire pochi – ricordano le date fondamentali della nostra Repubblica ma quelle delle battaglie calcistiche più famose, da Italia-Germania del 1970 in Messico, fino a Italia-Brasile e Italia-Germania in Spagna nel 1982, o ancora a Brasile-Italia nella finale Usa, per non parlare di Italia-Corea, sono scolpite nella memoria collettiva e individuale di tutti noi, comprese le formazioni, i gol e le emozioni. Ancora più forti sono poi i ricordi legati alla squadra del cuore, specie quando si tratta di squadre che non hanno la fortuna di vincere molto. Chiedete ai napoletani cosa sono stati i due scudetti con Maradona. Sono certo che fra le date più importanti della loro vita vi indicheranno quelle dei due successi.

È difficile capire perché il calcio affascina così tanto. Anche noi stessi, prima tifosi e poi analisti del fenomeno, non riusciamo il più delle volte a dare una spiegazione razionale o coerente a tutto ciò. Agli occhi del disincantato e dell’infedele appare assurdo che si possa avere fede in una Spa. Non riusciamo a spiegare alle nostre mogli, madri, sorelle e figlie perché questo virus tra il sabato e la domenica si accende e rovina le nostre vite e in larga parte anche le loro. Anzi, col passar del tempo il morbo le sta contagiando e si sta diffondendo anche all’universo femminile. Emancipazione? Parità dei sessi? Ripiegamento sul modello maschile? Oppure più semplicemente, il fascino del calcio è talmente forte che non si può resistere. Né serve stare lontano, non sentire o non vedere, perché come tutti sanno è peggio, la testa è comunque altrove, e quindi tanto vale rassegnarsi e lasciarsi andare ed essere spettatore. A mo’ di confessione personale devo dire che la lettura del libro Tifosi Dop di Angelo Bocconetti, con cui condivido un’angoscia comune che si ripete da 43 anni, mi ha riportato alla memoria cose e fatti che avevo completamente dimenticato e mi ha permesso di effettuare «il vero recupero settimanale dell’infanzia», di riassaporare quella parte di follia che si è sviluppata a partire dai cinque anni. E la cosa sorprendente è che per lo più è sofferenza allo stato puro, un misto di paura e di rabbia pronta ad esplodere alla prima ingiustizia. Infatti, eccetto che per due o tre squadre, i tifosi italiani degli altri club sono sostenitori delle teorie più strane, in particolare di quella del complotto, per non parlare della questione arbitrale. E c’è poco da fare: una volta contagiati non si guarisce. Si cambia idea politica, si possono cambiare gusti e preferenze su molte cose, ma è impossibile, una volta fatta la scelta, cambiare squadra.
Scrive Nick Hornby, che di follia e di angoscia se ne intende, un altro che ha «speso un sacco del suo tempo libero a logorarsi miserabilmente al freddo», che d’altro canto «gli ossessionati non hanno scelta; in occasioni come queste devono mentire. Se dicessimo sempre la verità, non riusciremmo a mantenere rapporti con chi vive nel mondo reale» .

E quello che è terribile è che in fondo lo sappiamo che tutto ciò serve a poco. Gli altri non capiscono, ci guardano con disprezzo, con uno sguardo che associa alla compassione l’anatema morale e intellettuale, uno sguardo che ho visto mille volte sul viso degli altri, ogni volta che ho confessato la mia debolezza. Ma devo dire che questo sguardo viene annullato da quello dei contagiati nei momenti di felicità, quando la nostra squadra realizza un gol o vince una competizione importante; viene guarito dallo sguardo del compagno di avventura o di sedia che incrociamo quando succede quello che aspettiamo any given sunday. Ma fin qui la passione e il tifoso. Cerchiamo adesso invece di ragionare e di dare voce all’analisi e all’interpretazione dei fatti.

La crisi del calcio

Negli ultimi anni il calcio ha vissuto un po’ dappertutto momenti di difficoltà. La diffusione delle tecniche televisive e degli eventi mediatici, la possibilità di fruirne in modi largamente nuovi, la segmentazione degli orari dei campionati, la crescita delle risorse televisive e pubblicitarie convogliate nel calcio, tutto ciò ha definitivamente trasformato lo sport professionistico più popolare del mondo in un vero e proprio business, come era già avvenuto diversi anni fa per gli sport professionistici negli Usa. Ma questa trasformazione non ha ancora avuto i riflessi necessari nei comportamenti dei principali operatori del mondo del calcio, che ne sono consapevoli ma sperano di ritardare il cambio di sistema, né questo aspetto è ancora chiaro ai tifosi. La logica del business, la legge del mercato stenta ancora ad affermarsi.

Il calcio da fenomeno popolare, sportivo e di intrattenimento ha assunto le sembianze di un’attività economica vera e propria, di un’industria con natura e caratteristiche molto particolari, dove l’offerta, ma prima ancora la produzione del bene, avviene combinando in modo speciale, forse magico, i diversi fattori della produzione. Ma è anche un settore dove le ragioni del profitto e dell’equilibrio contabile devono fare i conti con quelle del cuore, del tifo appassionato. Per molto tempo, le regole di mercato e il vincolo di bilancio semplicemente non sono esistiti. Il proprietario metteva di suo, rischiava il patrimonio personale. In parte è ancora così, ma con l’allargarsi della dimensione economica e del volume d’affari, con le quotazioni, il calcio è stato obbligato a crescere, a cercare nuove risorse e nuovi capitali, ad andare in borsa e a differenziare le entrate – che un tempo provenivano essenzialmente dai botteghini dello stadio – con la vendita di oggetti e la promozione del marchio, col merchandising, con l’investimento nelle infrastrutture sportive in cui si svolgono gli eventi. Ma al tempo stesso, negli ultimi anni il calcio si è anche gonfiato in modo abnorme e adesso ha di fronte a sé due strade: sgonfiarsi gradualmente, con opportune misure, il più possibile rispettose del mercato, evitando la catastrofe, ritornando alla normalità contabile, economica e televisiva; oppure esplodere, con conseguenze rilevanti, per i consumatori e i tifosi, sul piano industriale, economico e sociale. Che fare? Come si è giunti a questa situazione? Chi sono i responsabili della crisi? Poteva essere evitata? Qual è l’interesse pubblico, se ne esiste uno, in questa vicenda? Vediamo i punti principali.

Gli errori gestionali e finanziari

Lo stato di crisi e le difficoltà finanziarie del soccer sono da attribuire a numerosi fattori – parlo di soccer perché è una vicenda non solo italiana, anche se all’estero non si è arrivati a questi eccessi e da tempo sono stati introdotti efficaci correttivi. Si deve partire, in primo luogo, dalla gestione economica e finanziaria delle società, che negli ultimi anni è stata carente, alquanto miope e disinvolta. Si sono pagati troppo i giocatori, questo è innegabile, si è assistito ad un’escalation dei prezzi e delle remunerazioni che non ha precedenti nella storia del calcio. Il compenso medio lordo per calciatore, nella serie A italiana, è passato da 782 a 2.160 milioni di lire tra il 1994/95 e il 2001/02; nel 1995, i calciatori con un salario superiore ai 2 miliardi erano circa il 7,4 per cento del totale mentre nel 2002 raggiungevano circa il 30 per cento.
La colpa non è però solo dei calciatori, essi hanno approfittato del miscuglio di procuratori, intermediari, sponsor, dirigenti e mercato drogato – doping in senso stretto compreso. I calciatori potevano fare poco e hanno in definitiva firmato contratti regolari. Condannarli per gli eccessi è un atteggiamento demagogico, hanno ragione se si difendono e sostengono che sono in buona fede, anche se non sono un valido esempio dal punto di vista sociale.

È vero, come vedremo più avanti, che hanno approfittato della rendita che il mercato delle superstar ha permesso loro. Ma l’evoluzione della domanda e dell’offerta andava in quella direzione e non era facile fermarsi spontaneamente o limitarne gli effetti più negativi. Se i presidenti hanno offerto quelle cifre perché non accettarle. Certo devono convincersi che la festa è finita, che il mercato del lavoro del futuro sarà molto diverso, che l’intero sistema calcio sarà costretto a ridimensionarsi e a rispettare regole contabili e leggi di mercato. Il calcio non può pretendere di venir esentato dalle regole della concorrenza o da quelle di un’ordinata e trasparente gestione economica.

D’altro canto, fa un certo effetto l’apprendere che un giocatore possa percepire 6 milioni di euro netti a stagione; la cifra appare spropositata, senza un fondamento relativo, fuori da ogni logica. Ma allora questo gioco dello “scandalo” dovrebbe essere applicato anche ad altri settori molto più “seri” sul piano etico e sociale: ad esempio, i manager di alcune imprese private, soprattutto di fronte a responsabilità gravi sul piano della trasparenza nei confronti degli azionisti, a frodi e quant’altro. Con questo ragionamento non se ne esce.
Il mercato degli stipendi si è gonfiato, drogandosi. Invece che rendersi conto della bolla, i dirigenti hanno seguito l’evoluzione delle quotazioni sulla base di previsioni di entrate future da tv, da diritti di vario tipo del tutto errate e falsate. L’aumento vertiginoso delle entrate che il calcio ha avuto negli ultimi 5 anni è stato in larga parte trasferito ai giocatori, questo è il vero problema, anziché a investimenti e al risanamento economico e contabile. In Italia gli stipendi dei giocatori, in percentuale del fatturato, sono passati dal 57 per cento del 1996, ad oltre il 75 per cento della metà del 2002. Una crescita vertiginosa, mentre negli altri Paesi europei, dopo gli anni iniziali di crescita, già da due anni si sta tornando indietro (in Germania siamo al 50 per cento, in Inghilterra al 60 per cento. Se si considera l’intero personale, compresi gli allenatori e i dirigenti, si sono raggiunte cifre esorbitanti, insostenibili sotto qualsiasi punto di vista (si veda la Tavola 1). Infatti siamo in media vicini al 90 per cento in termini di volume d’affari, con punte però per il Piacenza del 173 per cento, per l’Empoli del 148 per cento, per la Lazio e il Parma del 110 per cento, per l’Inter del 108 per cento, fino al 79 per cento del Milan, al 77 per cento della Juventus e al 68 per cento della Roma – anche se il Parma, la Juventus, l’Inter e la Roma sono nell’ordine le squadre che più di tutte hanno utilizzato lo strumento delle Dailyvalenze relative alla compravendita dei giocatori.

E quando le entrate, soprattutto da tv, sono venute meno – per la crisi che paradossalmente lo stesso calcio ha determinato nelle tv a pagamento – allora la bolla è scoppiata. L’avvio ritardato del campionato nel settembre scorso, le resistenze delle pay-tv a pagare prezzi ormai non sostenibili, l’assetto del mercato in evoluzione delle tv a pagamento, con la struttura duopolistica ancora incerta e instabile e la dipendenza vitale delle società calcistiche dalle risorse televisive, tutto ciò ha prodotto un avvitamento profondo del sistema calcio. Stream e Telepiù non sono state in grado di offrire prezzi che potevano garantire le campagne acquisti delle società, anzi le risorse a disposizione non riuscivano a garantire l’esistenza stessa di alcuni club e la vicenda è solo agli inizi. Lo squilibrio tra grandi e piccoli squadre, l’asimmetria che esiste nel finanziamento del nostro calcio, ma anche l’inevitabile interdipendenza tra le diverse società, sono perciò emersi in tutta la loro evidenza. Il problema di fondo, almeno nel breve periodo, non è lo sviluppo delle entrate, la loro diversificazione, che resta comunque un fattore importante, ma il contenimento dei costi, riportare il calcio a cifre e dimensioni credibili e sopportabili. L’aumento delle entrate era ed è chiaramente importante, come hanno cercato di fare molti club europei, sviluppando il merchandising, trasformando lo stadio in luogo multiattività e soprattutto acquistandolo, oppure valorizzando il marchio della società. L’elemento cruciale per le entrate è la diversificazione, soprattutto in un contesto che vede una riduzione di quelle televisive e una relativa stabilità (sarà ancora così in futuro?) di quelle tradizionali da botteghino. La diversificazione richiede però tempo, presuppone una trasformazione radicale della mentalità del calcio italiano, necessita di una rivoluzione copernicana nelle abitudini dei tifosi italiani, come anche nell’efficacia dell’azione pubblica di tutela dell’ordine pubblico e di repressione delle frodi. Basti pensare, come qualsiasi frequentatore degli stadi sa benissimo, cosa potrebbe succedere se si decidesse di aprire strutture ricreative – ristoranti, bar, negozi, cinema, ecc. – prima di un derby o in occasione di un match importante; oppure, quali prospettive possono avere strategie di merchandising aggressive, quando larga parte dei prodotti venduti non sono originali e derivano da mercati sotterranei e paralleli, spesso stranieri.

Ma l’evoluzione del quadro finanziario del calcio richiedeva comunque un contenimento dei costi. Contenimento che era, sia chiaro, difficile da raggiungere, richiedeva lungimiranza e compromessi. I presidenti, anziché abbandonarsi all’azione individuale e trovarsi coinvolti in una concorrenza, poco sensata sul piano economico, a comprare a suon di milioni la star del momento – che però rendeva sul piano della popolarità e del consenso dei sostenitori – avrebbero dovuto parlarsi e trovare un accordo che calmierasse il mercato; avrebbero dovuto fissare un limite all’escalation delle quotazioni, oppure convergere su qualche forma di salary-cap, come nel football e nel basket americano.

I diritti televisivi

Un ruolo particolare ha naturalmente avuto il mondo della tv, sia quella in chiaro, sia quella criptata. Infatti, a partire dagli anni ’60, ma in particolare negli ultimi cinque anni, il ruolo della televisione nel calcio è cresciuto in modo impressionante. Essa svolge una funzione decisiva di stimolo e di traino del business calcistico e del suo indotto, ha reso possibile un’amplificazione enorme degli eventi e delle competizioni trasmettibili, ha permesso di raggiungere un numero di persone fino a qualche anno fa inimmaginabile.

La questione di fondo che ha animato l’avvio del campionato quest’anno sono le risorse che le pay-tv e la Rai dovrebbero pagare alle società e alla Lega. Innanzitutto anche le tv sono in crisi. Gli stessi errori commessi dalle società di calcio nella previsione delle entrate, sono stati anche fatti dai dirigenti delle società televisive, in particolare di quelle a pagamento, sicuri della crescita dei ricavi pubblicitari e degli ascolti. In un Paese campione della falsificazione e dell’economia sommersa, è poi “normale” che circa la metà degli spettatori abbia visto gli incontri in modo illecito. Non si poteva fare qualcosa di più? La repressione della frode – rectius, dell’illecito amministrativo – poteva essere sicuramente potenziata. Ecco una buona ragione per l’intervento pubblico.

Ma tornando ai diritti tv, il quadro che si sta delineando è quello della relativa incapacità delle risorse televisive – in forte diminuzione – a finanziare un bene sempre più costoso come il calcio, soprattutto di fronte all’esplosione del costo del lavoro. Sarà necessario scovare nuove risorse e forse, seguendo l’esempio americano e inglese, trovare nuovi equilibri di finanziamento e di assetto industriale. Ma, come già detto, si dovrà soprattutto agire sul piano dei costi.

Una prima questione interessante è quella di chiedersi se sia sensato imboccare la strada americana, che porti alla soluzione di leghe chiuse ed ermetiche. Nel futuro del calcio europeo e di quello italiano c’è una sua americanizzazione? Penso e soprattutto spero di no; mi sembra che in Italia non vi siano le condizioni sociali e culturali per intraprendere tale direzione, ma il caso americano solleva questioni che varrebbe la pena di discutere meglio. In secondo luogo, sembra ormai irrinunciabile introdurre qualche forma di cap o di accordo sulle remunerazioni. Le spese per i talenti rappresentano ormai più dei 3/4 del fatturato dei club di serie A. Ogni tetto può produrre distorsioni nel mercato, un accordo collettivo sulle remunerazioni può essere visto come un cartello o come una distorsione del mercato del lavoro o una limitazione della sua flessibilità, ma in questa situazione può anche avere l’effetto positivo di evitare competizioni distruttive. La questione rilevante è la vendita dei diritti televisivi poiché ha conseguenze sul futuro del calcio stesso. Forse andrebbe ripensata la vicenda della vendita collettiva dei diritti da parte della Lega a posto di quella separata da parte dei singoli club. Se è giusto il principio che afferma l’individualità dei diritti, che non possono che appartenere ai singoli club, che sono quelli che organizzano l’evento e ne sopportano le spese, si deve anche tenere conto della specificità del “bene calcio”. Il prodotto commerciale è sì la singola partita ma anche il campionato nel suo insieme. L’evento calcio, più che la partita individuale, è l’intero campionato, composto dagli incontri di tutte le squadre. Vanno perciò forse riesaminate le modalità di vendita dei diritti e dei meccanismi di mutualità e di redistribuzione delle entrate. Anche perché una squadra famosa può anche spuntare un prezzo elevato, ma senza Como, Brescia e Chievo non esisterebbe più il campionato. Se queste squadre decidono di non giocare, si può dire addio al campionato. Se sono troppo deboli, il campionato perde di interesse perché è scontato il vincitore e quindi crollano le entrate a vario titolo. Se falliscono il danno è ancora maggiore. Quindi v’è un interesse collettivo a far sì, anche da parte dei grandi club, che quelli minori abbiano risorse per vivere e partecipare al campionato e che questo sia il più equilibrato possibile.

La particolare natura del bene calcio: vincere senza dominare

È un aspetto evidenziato da Neale nel 1964. Il calcio, come altri sport professionistici, è intrinsecamente differente dagli altri business tradizionali. Infatti, in ogni industria le imprese cercano di conquistare quote di mercato a scapito dei concorrenti, esse avranno maggior successo se riescono ad eliminare la concorrenza e ad acquisire un certo grado di monopolio. Ogni impresa cerca di far fallire le altre e dal fallimento trae elementi di affermazione. Nel calcio non è così: il bene venduto non è la singola partita ma anche – dovrei dire soprattutto – il campionato nel suo insieme.

Se alcune imprese “falliscono” si hanno conseguenze rilevanti sul campionato. Vi sono degli spillover evidenti e ciò a causa della natura congiunta della produzione del bene calcio. Sì naturalmente, un’impresa fallita può essere sostituita da un’altra, ma il collegamento forte con il territorio, la tradizione calcistica italiana molto legata alle varie città e alla realtà locale rendono il prodotto scarsamente sostituibile. Se scompare una squadra svanisce la domanda e con essa anche quella per le prestazioni delle altre squadre più forti. È legittimo voler vincere il campionato ma le grandi squadre sanno bene che conviene farlo senza dominare, anzi con una dose di incertezza più o meno grande.

Vive la concurrence: l’importanza di un competitive balance

L’equilibrio tra le squadre è fondamentale. Campionati squilibrati attraggono meno spettatori, diversamente l’incertezza genera suspense e interesse. Il migliore esito finale, forse non per la salute dei tifosi, è sempre quello dell’assegnazione del titolo all’ultima giornata, della selezione delle squadre retrocesse all’ultimo match. La riduzione del grado di concorrenza può avere effetti negativi sulla domanda di biglietti da stadio e di eventi pay-tv; essa può anche ridurre gli incassi da pubblicità e da sponsorizzazioni. Nel calcio non è remunerativo accumulare talenti fino al punto in cui svanisce l’incertezza dell’esito delle partite, in cui la competizione ne risulta sostanzialmente ridotta. Oltre un certo punto, avere troppe star presenta rendimenti decrescenti. La mutualità tra squadre non è un regalo delle grandi e potenti alle piccole, ma un meccanismo necessario per la sopravvivenza delle stesse grandi squadre, senza il quale il calcio finirebbe per tutti, anche per loro.

Vi sono alcuni lavori che evidenziano che il grado di concorrenza può avere effetti sulle risorse ottenibili, sulle performance delle squadre nei tornei internazionali e sulle squadre nazionali. Marques (2002) ha messo in evidenza negli ultimi anni una crescita della competitive balance nel campionato portoghese, anche se risulta accresciuta al tempo stesso la differenza tra la squadra più forte e quella più debole. Haan-Koning-van Witteloostuijn (2002) trovano invece sorprendentemente che l’avvio della Champions League con le nuove regole e la Sentenza Bosman non hanno prodotto significative variazioni della competitive balance dei tornei nazionali, mentre hanno accresciuto le differenze qualitative delle competizioni internazionali. La decisione recente dell’Uefa, di rivedere il sistema di fees relativi ai trasferimenti dei giocatori è una sorta di de-liberalizzazione che tenderà a creare due mercati del lavoro: per i giocatori giovani e per quelli meno giovani. Sarà interessante capire quali saranno gli effetti di questo provvedimento sul grado di concorrenza delle competizioni nazionali e di quelle internazionali.

Szymanski evidenzia invece che il gate sharing – la divisione in parti più o meno uguali dei ricavi tra club che riceve e club ospite – tende a ridurre il grado di competitive balance mentre la ripartizione dei ricavi dalla vendita di diritti televisivi può aumentare il grado di concorrenza. Infine, altre ricerche recenti hanno messo in evidenza che la struttura del calcio inglese, e probabilmente anche quella del calcio europeo, quindi in definitiva il grado della competitive balance, sarà sempre più demand-driven. Perciò vi potrà essere una riduzione della competitive balance e uno squilibrio nella distribuzione delle risorse tra club forti e club piccoli. Il grado di competitive balance ha effetti ovviamente anche sulla decisione se sia preferibile vendere i diritti singolarmente o collettivamente. Una ricerca recente ha evidenziato che se la Lega massimizza la domanda per gli eventi sportivi, allora uno schema di pagamenti basato sulle performance – come quello usato dei più importanti club europei di calcio negli accordi di vendita dei diritti televisivi – sembra essere la soluzione ottimale; se la Lega agisce invece come un cartello e cerca di massimizzare i profitti congiunti dell’attività sportiva di tutti i club – come nel caso statunitense – allora sembra preferibile uno schema di full revenue sharing. In un lavoro recente (Marè, 2003) ho messo in evidenza, usando l’indice di Herfindahl, che il grado di concorrenza tra il 1945 e il 2002 nei principali campionati europei non è in generale aumentato, anzi in alcuni casi si è ridotto. I dati lasciano trasparire una situazione alquanto competitiva per Francia e Germania, un po’ meno per Regno Unito e Italia, ancora più concentrata per la Spagna. L’analisi per sottoperiodi mette in evidenza inoltre che, pur con qualche eccezione, si registrano delle riduzioni della competitive balance all’incirca dappertutto. I diversi casi nazionali, in particolare il nostro Paese, sono caratterizzati da fenomeni ciclici più o meno ampi – intorno ai 7-10 anni – anche se la durata del periodo “monopolistico” – definita come il periodo in cui il torneo è stato sempre vinto dalla stessa squadra o dalle stesse due squadre – si è ridotta in media dal dopoguerra ad oggi – ciò appare comprensibile se si considera che il ciclo “naturale” di una squadra tende a collocarsi tra i 4 e i 6 anni. In termini generali, si può quindi dire che questa evoluzione avrà effetti rilevanti sulla struttura industriale del calcio, sui sistemi di finanziamento e sulle risorse ottenibili. Quanto ai tifosi il suggerimento è più semplice: fans need to be patient.

Un gioco a somma zero o negativa?

Il calcio ha una struttura particolare, v’è una forte interdipendenza che può scatenare una rincorsa all’acquisto dei giocatori e tutto ciò può avere effetti devastanti. Si può passare da una situazione di equilibrio ad un’altra – in genere sono equilibri instabili – con un peggioramento del benessere, con natura simile ma costi differenti. Tipico esempio è quello di una squadra che per rafforzarsi e mutare la sua forza relativa si lancia nell’acquisto di un giocatore. Questo movimento produce però una reazione nelle altre squadre che sono costrette, in un certo modo, dai tifosi, dai procuratori e dalla logica di sviluppo del mercato, a seguire la squadra che si è rafforzata nella competizione. Esse finiranno per effettuare altri acquisti e questo scatena una guerra, che tende a produrre una lievitazione dei prezzi e degli ingaggi per i giocatori. Gli effetti negativi di tutto ciò è che con molta probabilità la forza relativa delle squadre nel nuovo equilibrio non è mutata, tutte si sono rafforzate, nessuna è riuscita a prevalere, ma nel passaggio da un equilibrio all’altro si è verificata una lievitazione dei costi. Niente è cambiato in termini di forza relativa ma ora i costi sono nettamente più elevati, i bilanci più appesantiti ed esposti, quindi in definitiva le società hanno perduto nel movimento da una situazione all’altra. L’introduzione di meccanismi che limitino tale “corsa all’acquisto” dei talenti può avere perciò effetti positivi. Ma questi vincoli sono difficili da definire – un tetto alla somma spendibile annualmente in valore assoluto? Oppure una cifra per ogni singolo giocatore? O, ancora, una percentuale del fatturato? Oppure un meccanismo tipo il rookie draft americano, che da un diritto di prelazione alle squadre più deboli?

Il mercato dei calciatori: il potere di mercato delle star

Come si è visto, ad essere accusati sono i calciatori. Gli stipendi troppo elevati sono all’origine delle difficoltà finanziarie? Prima facie, potrebbe sembrare così e in parte lo è. Ma è noto che questa è solo una piccola parte della storia. L’esplosione del costo del lavoro è senza dubbio responsabile del dissesto finanziario delle società; ma per capire come si arrivati a questa situazione, si devono prendere in considerazione tutti gli elementi. All’avidità dei calciatori va sommata l’irresponsabilità e la leggerezza dei dirigenti e dei presidenti e la struttura perversa del mercato stesso che ha condotto naturalmente a questa situazione.

D’altro canto, una situazione di questo tipo si era già avuta negli Usa, ed aveva caratterizzato molti sport professionistici. La peculiare economia del calcio conferisce ai talenti – o superstar secondo la definizione di Rosen – un potere monopolistico rilevante che viene usato per spuntare ingaggi elevati. Gli spettatori vogliono vedere i calciatori più famosi, Zidane o Rivaldo, Maradona o Platini, non bravi professionisti poco noti. Quindi, di fronte ad una situazione di scarsa sostituibilità tra giocatori (e prodotti), i presidenti in fin dei conti potevano fare poco. Poiché gli spettatori sono disposti a pagare molto per le superstar, meno, se non niente, per gli altri giocatori, naturalmente tenderà ad emergere una certa asimmetria tra le diverse squadre. Le squadre con i calciatori famosi possono godere di una rendita e ottenere premi elevati dagli sponsor e dalle tv. Quelle senza superstar avranno minori prospettive di reddito e di ricavo e saranno costrette a vincere, ad ottenere maggiori successi, per avere ritorni accettabili.

L’esempio americano: i vantaggi dei salary-caps

Negli Usa esistono, da molto tempo e in vari sport, forme di limitazione dei compensi, di mutualità e redistribuzione. In genere si usa un salary-cap, legando il monte salari a una certa percentuale dei ricavi. Forse il 50 per cento è la cifra giusta, tra l’altro è quello verso il quale tendono francesi e inglesi. È noto il caso di Michael Jordan che è stato costretto a ridursi lo stipendio per far comprare alla società in cui militava un altro giocatore e poter restare all’interno del tetto. Negli Usa, come si è detto, esiste anche il rookie draft: la squadra che arriva ultima sceglie i giocatori più forti. È legato alla struttura dei college e al meccanismo di avvio delle matricole alla carriera professionistica tipico di questo Paese. Naturalmente non è riproponibile sic et simpliciter in Italia. Infine, si deve riflettere sul fatto che un vincolo anche stringente agli stipendi potrebbe non risolvere il problema se facilmente aggirabile. Le squadre potrebbero infatti offrire remunerazioni in natura anziché in denaro o altre forme di fringe benefit. L’intera struttura dei compensi andrebbe perciò monitorata. Last but not least, si dovrebbero valutare queste misure sul piano degli effetti che esse possono avere sulla tutela della concorrenza e più in generale dell’antitrust. L’attuale impostazione comunitaria in materia di diritto della concorrenza non sembra essere incline ad accettare soluzioni come quella adottata dalla Corte Suprema degli Stati Uniti il 20 giugno 1996, che ha di fatto sottratto alla normativa sulla concorrenza l’accordo sulle remunerazioni dei giocatori stabilito tra questi ultimi e le società.

Un’analisi più approfondita del caso statunitense relativo ai diversi sport professionistici mette in evidenza che questo sistema di caps risulta molto complesso e macchinoso, di difficile funzionamento e applicabile e monitorabile in modo largamente imperfetto. Frequenti sono stati i casi di aggiramento dei tetti con un accorciamento della durata dei contratti o con una differenziazione delle forme dei compensi. L’introduzione di forme temporanee di luxury tax anche rilevanti nelle dimensioni, come strada alternativa per effettuare un riequilibrio delle risorse, non sembrano aver offerto risultati promettenti. L’intera struttura dei caps non sembra infine aver avuto un effetto positivo sulla competitive balance dei diversi sport professionistici, che nel complesso risulta variata in modo poco apprezzabile e anzi in alcuni casi appare nettamente peggiorata.
In sintesi, l’idea di un tetto è in sé interessante ma non sembra attuabile rapidamente nel caso italiano. Essa va senza dubbio esplorata insieme all’altra strada di legare gli stipendi dei calciatori e dei dirigenti alle performance sportive e all’andamento economico e contabile dei vari club. Infine, una misura di questo tipo realizzata in un solo Paese avrebbe poco senso se non venisse attuata anche dalle altre leghe a livello europeo e comunitario: l’effetto sarebbe quello di un player-drain dal campionato italiano alle altre leghe europee.

Profitti o prestigio: cosa massimizzano le società?

Uno dei primi lavori scientifici in materia aveva suggerito un approccio originale all’analisi del funzionamento del calcio: l’ipotesi ovvero, che le società anziché massimizzare i profitti potessero tendere a soddisfare il successo personale dei presidenti; i club, più che cercare di ampliare i profitti, potrebbero massimizzare il livello di utilità dei proprietari e dei tifosi. E se questo (era ed) è davvero l’obiettivo – più che il profitto o l’equilibrio contabile – è evidente che poi si riterrà il calcio un settore dove le regole di mercato, che funzionanonelle altre industrie, possono trovare un’applicazione del tutto particolare.

Il calcio è stato per lo più usato come veicolo di lancio pubblicitario, come uno strumento rapido per acquisire notorietà, per avere forme di spillover su altri settori e marchi industriali legati alla proprietà delle società calcistiche, più che come strumento di ricerca del profitto. Gli squilibri che si creavano venivano ripianati con l’uso dei patrimoni personali dei proprietari. Ora però la trasformazione in business – e la quotazione di molte società – spingono il calcio ad essere sempre più attento al vincolo di bilancio e quindi in definitiva ai profitti. Il calcio è ormai un’industria a tutti gli effetti e quindi la “massimizzazione delle utilità” deve essere bilanciata da quella dei profitti e dei ricavi.

L’interesse pubblico e gli utenti

Infine, l’intervento pubblico. Esiste un interesse pubblico nel calcio? Le immagini dei gol e delle partite sono un bene pubblico? Sul piano generale non vi sono elementi per sostenerlo. Perché il calcio e non un altro sport? Perché non la musica? Chi dovrebbe poi deciderlo? E secondo quali criteri? È comprensibile che il governo agisca da mediatore e cerchi di trovare un accordo tra le parti. Ma le società di calcio sono società per azioni o di capitali, alcune anche quotate. Non vi sono quindi ragioni di interesse pubblico per affermare che l’aiuto a singole società per azioni, con agevolazioni fiscali o altre forme indirette sia giustificato; anzi esso risulterebbe sicuramente distorsivo.

Ma lasciare il calcio a se stesso è una decisione delicata, con conseguenze largamente impopolari. In primo luogo, v’è la questione della tv pubblica: deve pagare o no i prezzi che richiedono i club? Il prezzo richiesto dalla Lega, soprattutto con il frazionamento degli incontri, è chiaramente esagerato perché il prodotto non è più lo stesso. Ma la decisione ha conseguenze rilevanti: infatti se la tv pubblica non compra resta solo l’opzione a pagamento. Qualsiasi cittadino per vedere una partita o un pezzo di essa dovrà pagare. Sarebbe la privatizzazione definitiva di un bene che si era ritenuto per molto tempo pubblico ma che ora l’evoluzione del mercato ha trasformato in privato. Ciò avrebbe conseguenze redistributive notevoli, i consumatori si troveranno a pagare di più. Ma i consumatori possono decidere anche di non spendere cifre elevate per il calcio. Una riduzione della domanda potrebbe avere paradossalmente anche un effetto positivo, di selezione nel mercato.

A me sembra che l’evoluzione sia ormai segnata e vada in questa direzione e che si possa fare poco per fermarla. Scriveva tempo fa l’Herald Tribune che «il calcio è diventato un affare e negli affari il ricco divora il povero». Il calcio è ormai un business dove si richiede di pagare un prezzo per partecipare o solo anche per vedere. Se vado al cinema pago, così dovrebbe essere anche nel calcio. Ma l’intera vicenda è anche un’occasione d’oro per rieducare il modello sociale e mentale del nostro popolo su cosa significhi davvero l’interesse pubblico, per trasformare la psicologia sociale – dovrei dire calcistica? – degli italiani che magari, poveri loro, dovranno leggere un libro! Per esperienza diretta so che francesi e inglesi non hanno le possibilità televisive calcistiche gratuite – e non – degli italiani, ma vivono bene lo stesso e seguono con passione, ma forse con più selettività, il calcio. Tutto ciò potrebbe anche migliorare le prestazioni della nostra squadra nazionale e dei singoli club nei tornei internazionali, negli ultimi anni molto deludenti. Ma il nostro paese è pronto a compiere questo salto? Soddisfare la passione collettiva nazionale e la pace sociale ci costringerà a soluzioni subottimali e a compromessi?

La legge del mercato o quella dei tifosi?

Ma se il calcio è davvero un business, deve allora rispettare le leggi del mercato, i vincoli di bilancio e quelli contabili, deve adeguarsi alla disciplina della concorrenza e alle sue regole, comprese quella del fallimento. Ma come fare sul piano sociale, per non parlare del tema dell’ordine pubblico? La vicenda della Fiorentina dovrebbe aver insegnato qualcosa sul piano delle conseguenze sul tessuto sociale di una città.

Quindi ci si deve chiedere perché è opportuno salvare il calcio? Ha senso ed è giustificata sul piano economico la recente misura che permette alle aziende calcistiche di distribuire in un arco di 10 anni le minusvalenze derivanti dalla svalutazione del patrimonio giocatori? Vi sono due tipi di ragionamento: uno basato sui principi e perciò di tipo normativo, l’altro legato ai fatti concreti. Sul piano dei princìpi non vi sono ragioni consistenti per giustificare questo provvedimento. Innanzitutto, alcune domande: perché solo le società di calcio e non anche altri settori? Perché non la Fiat? Perché non applicarlo alle società di produzione cinematografica? In fondo è sempre una forma di divertimento!

Qualsiasi forma di intervento, che prenda la forma di un aiuto diretto – monetario – o indiretto – regolamentativ o fiscale – deve essere considerata come una distorsione del mercato, come una violazione della concorrenza e andrebbe perciò respinta. Esiste un interesse pubblico nel calcio? I goal o le partite sono un bene pubblico? Come si è visto non vi sono elementi per sostenerlo. È comprensibile che il Parlamento e il governo si trovino coinvolti e cerchino di trovare una soluzione allo stato di crisi. Ma le società di calcio sono società di capitali, di cui tre quotate, che devono rispondere ai vincoli del mercato, che devono sopportare le conseguenze economiche delle loro scelte senza scaricare sulla collettività gli eventuali costi di un fallimento.

Sul piano concreto, il fallimento di alcune società potrebbe compromettere il futuro del campionato stesso di serie A. Perciò lasciare il calcio a se stesso è una decisione delicata, mi sembra che vada presa pesando i possibili effetti e le probabili conseguenze, fortemente impopolari, di questa decisione. Non è difficile capire quali potrebbero essere le risposte degli spettatori, per non parlare di quella dei tifosi. Altro che questione pensionistica!

Soddisfare la passione degli italiani non ci costringerà a soluzioni imperfette? Penso proprio di sì. Anche se il salvagente deve valere una sola volta e solo per quest’anno, perché credo tra l’altro che questo possa rivelarsi insufficiente per risolvere la crisi. Meglio sarebbe invece il lancio di un vero piano di ristrutturazione più che una misura tampone dalla dubbia efficacia. Né mi sembra sensata l’idea che circola questi giorni di un campionato a 40 squadre. La crescita delle partite farebbe aumentare la domanda per i giocatori e le superstar, dato che comunque si dovrebbe allargare la rosa; e perciò, dovendo fare una previsione ragionevole, anche gli stipendi dei calciatori. Quindi una direzione opposta… a quella necessaria.

E infine una postilla... sulla tecnica

Tutti hanno un giocatore preferito, un mito che spesso ci ha colpiti da bambini, quando la passione è difficile da controllare. Ma la severa realtà del calcio dei nostri giorni è molto diversa, la logica del mercato, la qualità dei tornei nazionali e internazionali ma anche la quantità degli eventi ne hanno profondamente mutato la natura e la sua fruibilità. I giocatori bandiera sono sempre più rari, non sono più compatibili con la logica industriale del calcio. Alcune squadre non possono permetterseli, altre sì ma con difficoltà sempre maggiori. Spesso il rapporto con i tifosi finisce per deteriorarsi. Possono diffondersi forme di disaffezione, causate dall’eccesso di offerta di immagini e di eventi. Il calcio-business ha trasformato profondamente il prodotto. Lo stesso tifo ha cambiato pelle, è molto diverso da quello che io ricordo nella mia infanzia.

Uno dei calciatori che più ho amato ha scritto che «il football che si pratica oggi in Italia non mi piace. Il tempo sembra essersi fermato. Lo stile è noioso e irritante. Il pallone è un fastidio, nessuno lo vuole perché nessuno vuole attaccare. E se io non attacco e tu non attacchi, non si sbaglia: non succede niente. Addio all’emozione. La paura e il calcio non sono stati mai amici. E le squadre italiane hanno paura di perdere. Il loro comandamento è: il risultato innanzitutto. Non si può giocare così. Il peggio che può capitare non è perdere. Se perdi è più facile accorgersi di cosa devi correggere. Il peggio è vincere 1-0, giocando a casaccio, tutti all’indietro, maltrattando la palla, cercando il fallo, nella convinzione che questa sia la strada, la formula, la filosofia».

E ancora «perché c’è tanta omologazione nel calcio? Nessuna differenza fra buoni a cattivi calciatori. Come si spiega? Molto facile. I motivi sono due: Primo: negli ultimi anni la qualità tecnica, fondamentale per sottolineare le differenze tra i giocatori e le squadre, è diminuita in modo allarmante. Secondo: troppe partite. Sommiamo il primo e il secondo motivo. Che cosa risulta? Se la qualità tecnica diminuisce, tutto finisce per basarsi sul fisico. Di correre sono capaci tutti. E che cosa accade quando tutto si basa sul fisico? Che quante più partite si giocano, tanto maggiori sono i problemi. Si assiste a veri e propri pareggi a base di dolore». E tutto ciò lo pensa un calciatore che correva davvero molto, che aveva, per i suoi tempi, una velocità impressionante, ma che conosceva il segreto profondo del calcio, la tecnica e l’arte che si deve possedere per giocarlo davvero.

Basta guardare un vecchio filmato – poi non così tanto vecchio, basta andare al 1970 o al 1980 – e ci si rende conto delle differenza di velocità, di come il gioco si sia evoluto, della dimensione atletica così diversa, ma anche della qualità in larga parte scemata, dell’involuzione tecnica, del dribbling sempre più raro e difficile. E allora una possibile strada non è forse quella di ridurre il numero delle partite giocate e non quella di aumentarle? Sono consapevole che i club non amano questa strada, così come gli sponsor e le tv. Ma non è detto che la qualità non possa compensare la quantità; d’altro canto, la quantità, riducendo inevitabilmente la qualità, non finirà per ridurre anche l’interesse? Del resto… penso anch’io che i giorni della settimana non siano nient’altro che lo spazio di tempo tra una partita e l’altra e che il lavoro sia un modo per ingannare l’attesa. Ma forse quest’ultima parte è stata scritta dal tifoso più che dall’economista.

27 febbraio 2004

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