La tribù del calcio
incontro con Tim Parks di Vittorio Macioce
da Ideazione, marzo-aprile 2003

L’inglese che arrivò a Verona un giorno d’estate del 1981 quei “miserabili contadini” – come li chiamava lui – ormai davvero non li sopportava più. Detestabili, con quell’aria da bravi ragionieri: puliti, amati, ipocriti. Erano vent’anni che viveva a Verona e si può dire che da vent’anni tifava Hellas. Non aveva fatto in tempo ad innamorarsi dei dribbling di Zigoni e forse aveva solo un ricordo sfocato di capitan Mascetti, ma nel 1985 era già al Bentegodi, a trattenere il fiato per i piedoni di Garella e per la combriccola dello scudetto: Briegel e Fanna, Galderisi ed Elkjar (che segnò un gol alla Juventus dopo aver perso una scarpa), Di Gennaro e Marangon. Si sa che in panchina c’era un gentiluomo burbero di nome Osvaldo. Bagnoli all’inglese piaceva, allenatore sobrio e di poche parole, capace qualche anno dopo di espugnare con il Genoa, in coppa Uefa, l’Anfield Road di Liverpool. Quando nel ’93 l’Osvaldo se ne andò in pensione, si congedò dal pubblico con una manciata di parole: «Non è più il mio calcio». L’inglese è tuttora convinto che uno così non avrebbe mai allenato quella squadra di “pasticcieri”. E su questo, probabilmente, si sbaglia. Il Chievo a quei tempi aveva in squadra gente come Notari e Menabue, si dava da fare in C2 e nessuno a Verona pensava che ci fosse bisogno di un derby. L’inglese, in particolare, ne avrebbe fatto volentieri a meno.

Il 2001 arrivò troppo in fretta. Il Chievo si conquistò un posto in serie A volando sulle fasce. Del Neri faceva lezioni di geometria non euclidea ai suoi uomini e su come undici punti in movimento possono occupare uno spazio. A tracciare le linee aveva messo al centro del rettangolo un ex ragazzo di belle speranze, con un futuro juventino dietro le spalle: Eugenio Corini. La velocità era garantita da un italiano di prima generazione, Manfredini, e da un brasiliano che aveva nello sguardo qualcosa di pirandelliano, un anno dopo si scoprì che aveva rubato nome, età e identità a qualcun altro, ed Eriberto tornò ad essere Luciano De Oliveira. Nessuno, comunque, si aspettava nulla dal Chievo. Quando cominciò a vincere e a giocare – dando spettacolo, come si sentiva dire in tv – il Chievo divenne “la favola”; il quartiere di Verona che va a San Siro, all’Olimpico o al Delle Alpi guardando in faccia l’avversario. Arrivarono le telecamere e i giornalisti da Londra e dal Giappone, inchiostro, immagini, parole e luoghi comuni. E perfino un fans club da Alessandria d’Egitto. L’inglese sbiancò, bestemmiò il dio del pallone, abbracciò la bandiera giallo-blu dell’Hellas e visto che aveva una rubrica sul Guardian scrisse: «Il Chievo è in testa alla classifica di serie A. Oggi si fa chiamare Chievo Verona, altrimenti la gente non saprebbe che diavolo di posto sia. Ho abitato a Verona più di dieci anni prima di scoprirne l’esistenza, un caso infelice di sobborgo operaio che straripa in un declinante piattume acquitrinoso semi-industrializzato. Per fortuna non è un posto molto grande. Un calcolo generoso non gli attribuisce più di tremila anime: piccioni, topi e cani randagi compresi. Inutile dire che la squadra non si allena lì né ci gioca. Dev’essere stato un bel sollievo per loro abbandonare quella palude propensa a farsi inondare accanto al deprimente argine cittadino, per scappare almeno al Bentegodi». Era il 26 ottobre 2001.

L’inglese si chiama Tim Parks. È nato a Manchester nel 1954 e prima di tifare Hellas passava le domeniche all’ Old Trafford, venerando i ragazzi dello United e disprezzando i biancazzurri del City, un’altra squadra di quartiere, come ama tuttora aggiungere. Solo quando è andato a Londra si è sottratto alla regola anti-quartiere, andando a vedere qualche partita del Chelsea. Ha studiato a Cambridge e ad Harward. «Sono finito a Verona per caso: una ragazza italiana mi ha scovato a una festa a Boston. È diventata mia moglie. Così ho scoperto l’Hellas. E anche se certe volte uno vorrebbe tenere per il Milan, la Juventus, l’Inter, squadre in grado di regalarti uno scudetto o di fare nero il Bayern Monaco, non per questo si è infedeli. Non vuoi un’altra squadra, vuoi che vinca la tua».

Un antropologo tra gli ultrà

Sua moglie traduce dall’inglese all’italiano. Lui fa il contrario e ha prestato la sua “voce” a Moravia, Calvino, Tabucchi, Calasso. Ma Tim Parks è soprattutto uno scrittore. In Lingue di fuoco racconta ed esorcizza la sua educazione protestante. È il suo primo romanzo, poi verranno Cara Massimina, Fuga nella Luce e Destino (pubblicato da poco in Italia da Adelphi). Nei suoi saggi ha raccontato manie, inclinazioni, familismi amorali degli italiani. L’ultimo, e forse il più conosciuto, è Questa pazza fede (Einaudi), ricordo di un anno passato girando l’Italia con i tifosi del Verona. Il libro – racconta – in fondo è stata solo una buona scusa. La spiega così. «Sono d’accordo con quanto scriveva Emil Cioran: se non riusciamo a sconfiggere i nostri vizi, tanto vale che li coltiviamo e ce li godiamo il più possibile. Per anni avevo tenuto segreta la mia ossessione per il calcio, perché di questo si tratta, un riconoscersi, smaniare, soffrire, vivere quella che diventa la tua identità più radicale, l’archetipo nel quale riconoscersi. Alla fine mi sono arreso e ho deciso di abbandonarmi all’incanto, e vedere dove mi avrebbe condotto. Su e giù per tutta la penisola, a ogni partita, in casa e in trasferta, nell’arco di una lunga ed estenuante stagione. E quale scusa potevo esibire in famiglia, se non quella di scrivere un libro, di fare uno studio serio e, perché no, anche emozionante, di questo immenso spazio mentale occupato oggi dal calcio, e anche ovviamente un’esplorazione dell’Italia. Nulla di quanto io abbia mai scritto si è rivelato più diverso dalle aspettative, più divertente, complicato, imprevisto e soprattutto eccitante. I tifosi, come sempre, erano il bersaglio di accuse di razzismo e volgarità, ma quanto è strano e ambiguo questo razzismo. La squadra, come sempre, lottava contro la retrocessione, ma quanto era diversa quella prospettiva per i giocatori, i manager, i butei e le butelete che soffrivano sugli spalti». Tim Parks così si mette in viaggio e si lascia trascinare da una tribù che sembra aver conservato una dose di valori, non tutti positivi, che la società contemporanea non considera più rilevanti o vincenti. Quando si parla di calcio si scopre che la tradizione ha un peso rilevante. I tifosi amano ricordare. Ogni laziale vi racconterà non solo l’ultimo scudetto o quello mitico del ’74, ma anche lo spareggio a tre con Campobasso e Taranto per non andare in serie C. Gli interisti amano ricordare la notte viennese del Prater, quando Armando Picchi alzò la coppa al cielo e il Real Madrid di Puskas e Di Stefano s’inchinò a Mazzola e Suarez, ma sembrano anche compiacersi di quella malasorte che un po’ li accompagna, dalla papera di Sarti nel ’67 a Mantova, ai rigori sbagliati da Evaristo Beccalossi a San Siro contro il Bratislava (Paolo Rossi, il comico, docet), a quel 5 maggio manzoniano sul prato dell’Olimpico, dove l’ultima Inter «fu siccome immobile», orbe di tanto scudetto. E si può continuare con quella volta che i milanisti videro il vecchio Liedholm sbagliare dopo anni un passaggio, e applaudirono. O quel lancio di Rivera a Prati. La grinta di Furino e le punizioni di Platini e anche quel gol di Maghat, che fece esultare il resto d’Italia. La Roma di Falcao e il gol annullato a Turone, questione di centimetri, e la sconfitta fatale contro il Lecce. Quella volta che Maradona vide Galli lontano dai pali e segnò da centrocampo. L’infortunio a Firenze di Antognoni e le magie di Baggio, frutto gustato per poco e ancora acerbo. Ricordi, che servono a rinnovare la tradizione, a riconoscersi, a sentirsi parte di un comune destino. Ricordi che rappresentano la Chanson de geste del popolo dei tifosi.

Questo è l’aspetto romantico che ti porta ogni domenica allo stadio, in casa o in trasferta. Poi c’è il rito sociale, le guerre ataviche degli ultrà, gemellaggi e odi che disegnano la mappa delle relazioni politiche tra le varie tifoserie. Quel giocare alla guerra che un po’ attrae, da studioso, Tim Parks. «Di notte – racconta – su vecchi pullman e vagoni ferroviari fatiscenti, oppure seduto accanto ai giocatori sugli aerei e negli atri di alberghi di lusso, ho cominciato a vedere il carattere italiano in un modo del tutto diverso, e soprattutto a capire quel che significa investire tante emozioni in un’attività che, come tutti sappiamo, in fondo è insignificante. In un mondo globalizzato dove i confini e le discriminazioni non sono più possibili, dove religione e idealismo politico paiono più pericolosi che consolanti, il calcio – cominciavo finalmente a capire – offre un modo nuovo e ferocemente ironico per formare una comunità e ricollegarci al sentimento del sacro. Vá in trasferta con i butei e anche tu sarai un fondamentalista a tempo parziale, un talebano del weekend».

Tim Parks diventa uno di loro. È un antropologo, che non nasconde, però ,l’empatia con la società che va studiando. E il suo sguardo è dissacrante, ironico. La curva presenta diverse tribù. Ci sono gli ultrà degli anni Ottanta, «quelli del 1° febbraio, che furono indagati per associazione a delinquere. Ora hanno tra i 40 e i 50 anni. Sono naturalmente disincantati, anche dal punto di vista politico. Seguono l’Hellas, ma non occupano più il centro della curva. Poi c’è il gruppo dei venticinque-trentenni appena spodestati, perché bisogna capire che la fede dell’utrà dura pochi anni, poi subentra la stanchezza e una certa maturità. È normale che ad un certo punto acquisiscano il comando della tribù». Racconta come nascono e come muoiono le leadership. «Io sono molto legato al vecchio leader, un bravo tipografo, saggio e coraggioso come un capo indiano. Due anni fa ha perso il potere. Gli ho chiesto, come è successo? Semplice, mi ha risposto. Si arriva a guidare la curva perché si ha più carisma, si viene rispettati e soprattutto perché si è disposti a prendere le botte. È la regola del capobranco, no? Bene, poi arriva il giorno che non vuoi prendere più botte. Non ti va più, sei fuori, hai altri giri, altri interessi, ormai hai una ragazza con cui pensi di fare sul serio, magari vuoi anche sposarti, ti accorgi che l’adrenalina non basta più, non ti dà più emozioni. Segui la squadra, non rinunci alla tua passione, sei un tifoso, ma non ti senti più un ultrà. E allora te ne vai. Fai posto a qualcuno che ha più coraggio di te, più giovane, disposto a prendere le botte». È una rivoluzione silenziosa, senza duelli, un giorno ti accorgi che i ragazzini che ti seguivano in trasferta sono più insofferenti di te, non ti stanno più dietro, vedono le cose in modo diverso, si organizzano e fanno gruppo a parte. E ad un certo punto sono loro a decidere chi sono i giocatori da fischiare o da applaudire, se contestare o starsene buoni. E le nuove gerarchie hanno una proiezione nello spazio della curva. La nuova élite si piazza al centro, i vecchi si defilano. «Quando un nuovo gruppo va al potere – spiega Tim Parks – cambia anche la rete diplomatica. Possono nascere nuovi gemellaggi o si possono stracciare quelli vecchi. L’Hellas, per esempio, ha confermato quelli con Fiorentina e Sampdoria e rotto quello con l’Inter».

«Io – continua – non ho viaggiato con il gruppo più giovane e più duro, anche se so che hanno amato il libro, perché per una volta si è parlato di loro senza il solito perbenismo. Bisogna capire, infatti, che senza dubbio c’è nei tifosi del Verona un certo “razzismo”, ma anche i cori e le icone nazisteggianti vanno inserite in un contesto che sfugge alla realtà sociale comune. Alla fine, infatti, credo che il gioco neutralizzi la politica. È senz’altro un modo di ritualizzare emozioni collettive e negative perché spesso sono proprio le emozioni negative, cioè il senso di avere un nemico, a creare una comunità. Il fondamentalismo è basato proprio su di un gruppo che ritiene di avere nemico tutto il resto dell’umanità e siccome non giudico positivo l’essere fondamentalisti (e avere nemici veri) credo sia meglio averne per gioco. Sto leggendo moltissimo sul Tre/Quattrocento italiano ed è incredibile quanti insulti si siano scambiate in quei secoli le varie città. Per me è stato divertente vedere quanto la situazione attuale rispecchi una molto più brutale e pericolosa, oggi però in modo paradossale. Tanti aspetti della vita moderna sono una parodia del passato, in fondo anche la politica lo è: credo che non sia possibile che le persone si prendano sul serio quando dicono certe cose».

Qualche volta viene il dubbio che Tim Parks raffiguri i tifosi del Verona come i paladini di una cultura che rifiuta l’ipocrisia dei “buoni sentimenti”. Da una parte gente vera, turbolenta, magari poco edificante come spettacolo etico, ma alla fine dei conti innocua, dall’altra i sacerdoti della stampa, della televisione, di chi vede nel calcio solo un buon affare, sepolcri imbiancati corrotti e corruttori. «Quando è morto Gianni Agnelli i benpensanti hanno voluto commemorarlo con un minuto di silenzio in tutti gli stadi. A Verona, chiaramente, la curva ha fischiato. Agnelli era il simbolo della squadra più odiata, il simbolo del potere. Non è stato un gesto da applaudire, ma in qualche modo la reazione della curva la capisco. Io credo che il rispetto per Agnelli sia sacrosanto, ma non me lo voglio far imporre. E a quel punto la reazione diventa antipatica. Emerge l’anima anarchica, il fastidio verso il potere che ti obbliga alla commemorazione, anche quando non è sentita. I fischi sono stati una reazione ad una scelta ipocrita». Forse per questo Tim Parks ama e ha amato giocatori duri, senza fronzoli, leali e di colore come Ron Harris, il primo calciatore nero totalmente inglese, nei suoi gesti e nelle sue parole, e Paul Ince, mediani dalla pelle dura, cattivi e viscerali quanto basta. «Non amo i giocatori disincantati – dice – come non amo i tifosi freddi. Mi piace gente come Vieri o Mazzone e, pur riconoscendo la sublime arte di Roberto Baggio, quella sua aria malinconica in fondo un po’ mi disturba».

È lo stesso motivo per cui lo scrittore inglese soffre la “favola” Chievo. Non sopporta che la gente s’incontri sul bus, nei bar, in ufficio ed esclami con voce da ebete: «Hai visto il Chievo! Squadre così salvano il calcio da tutto il marcio che lo ricopre». Vero, ma fino ad un certo punto. «Le tribune deserte del Chievo – scriveva Parks sul Guardian – hanno fatto da vuoto pneumatico per aspirare quel terribile spirito di perbenismo politicamente corretto sempre così impaziente di dare una falsa rappresentazione del football come puro gioco di intrattenimento fra giovani in buona salute. Prima di ogni partita cercano di intrattenere rapporti amichevoli con i sostenitori della squadra avversaria. Intervistati dai giornali, onesti ragionieri dichiarano di essere passati dall’Hellas al Chievo perché non sopportavano di sentire i tanti insulti blasfemi provenienti dagli spalti. “Gente che vale”, dice l’inno del Chievo. “Gente speciale”, prosegue. Vale a dire che non bestemmia mai, si presume. “Devi esserci anche tu”. Be’, grazie, ma no. Se anche la squadra cambiasse nome diventando Chievo Italia, e vincesse la Coppa del Mondo e il Nobel per la Pace, non ci starei mai».

L’anima letteraria di uno sport di massa

L’inglese che non sopporta il Chievo ha terminato il suo racconto. E alla fine ti chiedi quale incanto leghi il calcio alla letteratura. Quasi che nel narratore di professione quell’agitarsi, quel sognare, quell’assenza di disincanto appaia, allo stesso tempo, inattesa e più umana. Le storie. La risposta, in fondo, è tutta qui. Ecco cosa può regalare il calcio alla letteratura. Storie per cui non serve scavare neppure tanto, ti arrivano lì con tutto quello che serve per costruirci intorno parole. Ti serve l’eroe epico? Lo trovi. E trovi anche la passione, il colpo improvviso, la tensione e l’attesa, il tempo, il maledetto tempo che non passa o va troppo in fretta, e il fato, la solitudine e il coraggio, il flusso di coscienza, i ricordi, l’azione. Così ti capita di intervistare Nick Hornby e di restare incantato, per ore, ad ascoltare le gesta eroiche di George Best e di un Arsenal che, bello così, forse non tornerà mai. O di osservare lo sguardo di venerazione, mistico, di Irvine Welsh davanti al Meazza di San Siro, cattedrale laica immersa nella nebbia di un posticipo serale di un Inter-Torino del 2001. Come ti può capitare di farti raccontare da Alessandro Baricco, una sera a Parigi, la sua vita da mediano nei campionati interregionali del Piemonte e scoprire che in fondo il poeta che ha amato di più aveva sulla maglia granata il numero sette, si chiama Claudio Sala e i suoi dribbling sulla fascia erano la sintesi del talento puro. Ecco allora un dotto intellettuale come Ulf Peter Hallberg, autore de Lo sguardo del flaneur (Iperborea), viaggio tra gli scrittori contemporanei alla ricerca dello spirito del nostro tempo, emozionarsi al ricordo del suo primo viaggio in Italia, e di quella notte muta che seguì la sconfitta di Vialli e Donadoni a Napoli contro Maradona. La città che si svuota in un mormorio lento, gli occhi fissi a terra, le luci che una alla volta si spengono, i negozi che sommessi lasciano cadere le serrande e i portoni che si chiudono. Il fragore della città che dopo l’ultimo rigore sbagliato piomba in un silenzio simultaneo, irreale come una nevicata estiva che si posa sulle strade e attutisce ogni rumore. Quello che poco prima era luci, suoni e colori ora è il ricordo di un’eco distante. Erano i Mondiali del ’90. È lo stesso spirito che portava Osvaldo Soriano a girovagare nei campetti di periferia, nelle domeniche desolate e a scrivere: «Il rigore più fantastico di cui io abbia notizia è stato tirato nel 1958 in un posto sperduto di Valle de Rio Negro, in una domenica pomeriggio in uno stadio vuoto…». È Pasolini che si diletta sull’ala e alle sue corse dedica La partitella: «Al Trullo il sole, come dieci anni fa. Fermate a Pa’ dà du’ carci co’nnoi». È Vittorio Sereni, ossessionato dall’amore dell’Inter, che vede: «Il verse è sommerso in neroazzurri». È Rudi Ghedini che in Semifinale (edizioni Theoria), scrive: «Nei momenti bui il tifoso afflitto può sempre ricordare i tempi di Herrera o il gol di Nicola Berti con una volata di sessantotto metri in circa nove secondi, ma il successivo naufragio casalingo mi rassicurò: era la solita Inter, psicolabile e inaffidabile».

È la lunga lista di poeti e narratori italiani che, almeno una volta, hanno vergato su carta il loro amore per il calcio: Alfonso Gatto e Oreste del Buono, Gianni Brera e Giovanni Arpino, Manlio Cancogni e Primo Levi, Umberto Saba («Il portiere caduto alla difesa ultima vana») ed Eugenio Montale («Io faccio sempre un sogno. Segno che un giorno nessuno farà più un goal in tutto il mondo»), Mario Soldati e Vasco Pratolini, Giorgio Manganelli e Giovanni Raboni. È ancora Tim Parks che ci racconta la sua carriera agonistica: «Ho giocato fino a ventiquattro anni, poi due infortuni mi hanno bloccato. Sono mancino, ero un discreto laterale sinistro, ala o terzino a seconda dei casi. Facevo degli ottimi cross, non come David Beckam, ma insomma…».

27 febbraio 2004

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