Medio Oriente,
sei anni di disillusioni sulla via della pace
di Rodolfo Bastianelli
[08 nov 06]
Il
processo di pace in Medio Oriente si è fermato sei anni fa con il
fallimento del vertice di Camp David in cui si sarebbe dovuto decidere
l’assetto del futuro Stato palestinese e dei suoi confini. Da allora,
dopo l’esplosione della “seconda Intifada”, ogni trattativa è stata di
fatto congelata. Tuttavia, anche in tutto questo arco di tempo la
diplomazia ha tentato di far ripartire i negoziati presentando una serie
di progetti che però non sono riusciti nell’obiettivo. Ecco qui di
seguito un resoconto in ordine cronologico dei piani avanzati e del loro
contenuto, anche per comprendere come in questi anni sia cambiato
l’atteggiamento della comunità internazionale nei riguardi del problema
mediorientale.
I PARAMETRI DI CLINTON
Illustrati il 7 gennaio 2001 in un discorso pronunciato davanti
all’Israeli Policy Forum dal Presidente americano pochi giorni prima
della scadenza del suo mandato, questi prevedevano il diritto di
entrambi i paesi a vivere entro confini sicuri e garantiti, la presenza
di un contingente internazionale lungo il Giordano e la nascita di uno
Stato
palestinese demilitarizzato e territorialmente contiguo. Per la sua
sicurezza, Israele avrebbe potuto annettere alcuni insediamenti ebraici
in Cisgiordania, a condizione però di incorporare il minor numero
possibile di abitanti palestinesi, mentre Gerusalemme sarebbe diventata
la capitale di entrambi gli Stati.
PIANO DI PACE SAUDITA
Presentato dal principe ereditario saudita Abdullah nel marzo 2002,
prevedeva il ritiro di Israele dai territori occupati dopo la guerra del
1967 in cambio della normalizzazione dei rapporti con i Paesi arabi e
per un breve periodo suscitò l’attenzione dei commentatori senza
tuttavia ottenere risultati concreti.
LA ROAD MAP
Disegnata dal Presidente americano George W. Bush nella primavera 2003
anche allo scopo di riavvicinare gli Stati Uniti al mondo arabo dopo le
tensioni seguite al conflitto iracheno, il piano si articolava in tre
diverse fasi che avrebbero dovuto condurre alla nascita dello Stato
palestinese indipendente. La prima, da realizzarsi entro maggio del
2003, prevedeva un periodo durante il quale i palestinesi si impegnavano
a porre fine a qualsiasi atto di ostilità contro Israele, che comunque
era invitato a migliorare le condizioni di vita dei residenti nei
territori e ad avviare alcune riforme del sistema politico. La seconda
stabiliva un periodo di transizione di sei mesi da giugno a dicembre
2003 per giungere all’istituzione di uno Stato palestinese autonomo con
frontiere provvisorie. Per arrivare a questo stadio, la dirigenza
dell’ANP avrebbe dovuto riacquistare la sua credibilità agendo contro il
terrorismo e costruendo delle istituzioni democratiche basate sui
principi dello Stato di diritto. L’avvenuto adempimento di quanto
prescritto nella prima fase ed il passaggio a quella successiva doveva
essere valutato dal Quartetto internazionale – formato da Stati Uniti,
Russia, Unione Europea e Nazioni Unite – sulla base del comportamento di
ambedue le parti in questione. Subito dopo si sarebbe dovuta convocare
una conferenza internazionale per il raggiungimento di una pace stabile
in Medio Oriente, i Paesi arabi che avevano relazioni diplomatiche e
commerciali con Israele avrebbero dovuto riallacciarle ed i colloqui
sullo sviluppo economico della regione, sugli armamenti ed il problema
dei profughi sarebbero dovuti ripartire. Infine, realizzato anche quanto
prescritto nella fase due, tra il 2004 ed il 2005 una seconda conferenza
internazionale ed una risoluzione del Quartetto avrebbero definito i
confini dello Stato palestinese, lo status della città di Gerusalemme e
degli insediamenti israeliani presenti nei territori. Formalmente,
costituisce ancora il documento ufficiale di riferimento per una ripresa
delle trattative, ma allo stato attuale è ben difficile che i suoi
principi possano trovare applicazione.
PIANO DI PACE DI
GINEVRA
Firmato a Ginevra nel dicembre 2003 da venticinque esponenti palestinesi
e del partito laburista israeliano, tra cui l’ex ministro della
Giustizia Yossi Beilin, prevedeva la nascita di uno Stato palestinese
indipendente e smilitarizzato al quale erano attribuiti i quartieri
arabi di Gerusalemme che doveva diventare la capitale di entrambi i
paesi. Il problema dei luoghi sacri veniva risolto riconoscendo la
sovranità israeliana sul Muro del Pianto e quella palestinese sulla
Spianata delle Moscheae, mentre la sicurezza e la libertà di accesso
sarebbero stati assicurati da una forza internazionale. Israele invece,
in cambio della cessione ai palestinesi di 137 Kmq di territorio situato
nelle zone di Gaza e Gerico, si annetteva il 2,5 per cento della
Cisgiordania con gli insediamenti esistenti vedendosi riconosciuto il
possesso dei quartieri ebraici di Gerusalemme e di alcune colonie
limitrofe nonché il diritto per le sue unità militari di stazionare per
altri tre anni lungo il Giordano ma a condizione di essere poste sotto
un comando internazionale. Infine, per quanto riguarda i profughi
palestinesi, il diritto di fare ritorno ai loro luoghi d’origine veniva
concesso solo a 30.000 di essi.
Una delle cause dell’insuccesso dei piani di pace presentati risiede
anche nella mancata riforma e riorganizzazione delle forze di sicurezza
palestinesi, ritenute dal governo di Gerusalemme inadatte a
fronteggiare i gruppi terroristici attivi nei territori. Secondo quanto
previsto dagli accordi di pace, le forze di sicurezza palestinese hanno
infatti il compito di garantire l’ordine nel loro territorio e prevenire
le azioni terroristiche contro Israele e possono disporre solo di un
armamento leggero. Le forze armate palestinesi contano 29.000 effettivi,
dei quali 14.000 appartengono alla sicurezza nazionale, 10.000 alla
polizia civile e 3.000 alla sicurezza preventiva. La sicurezza nazionale
è responsabile del controllo delle frontiere delle aree poste sotto la
sovranità dell’ANP e dei servizi di pattugliamento congiunto con Israele
nell’Area B della Cisgiordania. Secondo gli esperti, la sua
organizzazione si avvicina a quella di una normale forza militare ed i
suoi effettivi provengono per la maggior parte dall’OLP. La polizia
civile è incaricata invece del normale ordine pubblico, mentre la
sicurezza preventiva svolge essenzialmente le funzioni di un servizio
segreto. Altri 1.500 effettivi appartengono poi all’intelligence, alla
difesa civile ed alle unità della guardia costiera. Rispondono invece
direttamente al presidente dell’ANP le forze speciali e quelle preposte
alle sicurezza presidenziale. Un ruolo particolare è svolto inoltre
dagli appartenenti alle milizie Tanzim e Forza 17. La prima è stata
istituita negli anni Settanta per proteggere Arafat e gli altri
esponenti palestinesi, la seconda invece nel 1995 per contrastare
l’azione delle forze islamiche presenti nei territori e tecnicamente non
dovrebbero essere parte dell’apparato di sicurezza istituzionale
dell’ANP in quanto nient’altro che milizie armate del partito Al-Fatah.
08 novembre 2006
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